Da quando le Fondazioni di origine bancaria sono nate - più di vent’anni fa - è possibile leggere molta della storia politico-economica del Paese attraverso le loro vicende. Per questo non sorprende affatto che anche in queste settimane siano tornate al centro di polemiche e attacchi: il cannone dei nemici delle Fondazioni - finora regolarmente perdenti - è sempre carico e risuona puntualmente nelle fasi critiche della vita repubblicana.
Negli anni 80, l’uscita dagli shock petroliferi, la modernizzazione dell’impresa e della società italiana, l’accelerazione dell’integrazione europea sollecitarono la privatizzazione e la crescita del sistema bancario. Si misero al lavoro alcune delle migliori intelligenze di allora: Carlo Azeglio Ciampi, Beniamino Andreatta, Guido Carli, Giuliano Amato. Ne uscì una riforma che consentì a molte grandi banche italiane (come la Cariplo, la Crt o il San Paolo di Torino) di uniformarsi al modello di società per azioni, preparandosi alla competizione sul mercato e alle aggregazioni.
A monte, venne salvaguardata la “proprietà civile” di quelle banche, il cui patrimonio si era accumulato in alcuni casi nell’arco di secoli: da prima che nascesse lo Stato unitario. Il modello-Fondazione, d’altronde, guardava alle migliori esperienze internazionali nel campo del no-profit. Già nella concezione originaria, le Fondazioni non erano e non dovevano essere, dunque, holding di partecipazioni bancarie, ma soggetti della sussidiarietà, di una riforma stessa dello Stato, della rappresentanza politica, del welfare, di un modo diverso di intendere l’economico e il sociale.
Visto in prospettiva, non sorprende che lo “start-up” delle Fondazioni sia coinciso con il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica. E già prima dell’avvio dell’euro le prime fusioni (Banca Intesa, Unicredit) indicavano risposte forti: resistenti alle prime pressione forti dei mercati finanziari, che avrebbero gradito per le banche pubbliche italiane vendute all’incanto e lo stesso destino di Telecom. Oppure fusioni dirette dall’alto, da Tesoro e Bankitalia, come suggeriva perentoriamente il Centro studi “La Malfa”, vicino a Mediobanca.
Il disegno iniziale ha invece potuto irrobustirsi: le Fondazioni hanno potuto maturare le loro esperienze di investitori istituzionali, ma anche socialmente responsabili; di “grant entities” lontane dalle vecchie logiche di erogazione a pioggia; non ultimo: di corpi intermedi della società civile strutturati con governance adeguate. Già nel ’98 la legge Ciampi ha potuto sancire un principio semplice: le Fondazioni appartengono alle collettività dei territori, hanno come scopo principale la sussidiarietà e i loro organi di vertice devono associare in via paritaria i rappresentanti degli enti locali e quelli della società civile (università, impresa, cultura, volontariato, ecc).
Il pendolo delle Fondazioni, superato il campo di forza dei mercati, ha poi dovuto affrontare ritorni di fiamma statalisti. Molto concentrati territorialmente, gli enti non potevano non finire nelle mire di chi ci vedeva un “tesoro” di pronto uso per finanziare nuove “repubbliche del Nord”, senza contare il vizio tutto politico di “avere una banca”. Al temine di un confronto politico duro, lo stesso ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha riconosciuto di essersi sbagliato ad aver proposto una riforma che avrebbe portato le Fondazioni sotto il controllo della politica locale e avrebbe usato la loro capacità di leva nel modo peggiore, alimentando direttamente nuova spesa pubblica con i loro quattrini. La Corte Costituzionale ha invece utilizzato il chiarimento politico per fornire un paradigma concreto al principio di sussidiarietà, da poco introdotto nella Carta. Le Fondazioni sono nate e restano “organizzatrici delle libertà sociali”, con una gestione prudente del patrimonio e con un management adeguato per le attività istituzionali nel campo dell’utilità sociale.
Ora, dietro il paravento del governo tecnocratico, in un passaggio “a bassa intensità” della vita democratica e ad alto rischio per la tenuta economico-sociale del Paese, le Fondazioni tornano sotto attacco. È un’offensiva composita, nella quale si scorgono tutte le tensioni di una crisi finanziaria distruttiva. Nessuno dimentica che già all’indomani del crac di Lehman Brothers, i commentatori ultraliberisti si sgolavano a ripetere che il problema non erano i fallimenti bancari a catena (che non hanno comunque interessato le banche italiane partecipate dalle Fondazioni), ma il pericolo che la cosiddetta “politica” tornasse ad avere un ruolo sulla finanza di mercato: quella dei derivati di carta e dei bonus miliardari.
In un mondo in cui sui media anglosassoni si è a lungo sostenuto che l’euro è a rischio per colpa dei pensionati italiani, non è strano che qualcuno torni a dire che le “strane” Fondazioni italiane sono un problema, anzi “il problema”. Non è sorprendente che si accusino le fondazioni azioniste di Intesa Sanpaolo (sole azioniste stabili del gruppo) di aver concordato la scelta del nuovo amministratore delegato: bisogna creare un diversivo rispetto ai casi di tanti amministratori delegati di altre banche europee o americane, complici dei fondi speculativi nell’assumersi rischi e nel gonfiare i bilanci. Non stupisce neppure che, ancora una volta, qualcuno pensi di obbligare le Fondazioni a consegnare “oro alla patria” (attività finanziarie e partecipazioni) in cambio di titoli di Stato, magari irredimibili. In breve, si accusano le Fondazioni di essere “costo della politica” per continuare a finanziare i veri “costi della politica”.
Da ultimo, è ovvio che molti protagonisti dell’eterno “capitalismo senza capitali” dell’Azienda-Italia siano infastiditi dal vedere crescere la Cassa depositi e prestiti, con i suoi nuovi fondi strategici, come “banca di sviluppo” di un Paese in convalescenza economica. Certo, professor Zingales, la capiamo: una volta c’erano la Mediobanca di Cuccia e la Comit di Mattioli; oggi Cuccia non c’è più e neppure la Commerciale. Certo, l’Illinois - dove lei vive e da dove è partito il presidente Obama - è sull’orlo del default e una fondazione come la Cariplo farebbe davvero comodo. Perché non ci studia un po’ sopra?