In realtà, le cose sono andate in maniera opposta. Fin dall’alba lo spread tra i titoli tedeschi, avviati al rendimento minimo storico, e quelli di Italia e Spagna si sono impennato a livelli record. Madrid, alla vigilia di annunci dolorosi e drastici per il sistema bancario, fa i conti con rendimenti da suicidio finanziario. L’Italia non è da meno: a fronte di tassi di poco inferiori, infatti, c’è un debito pubblico ben maggiore che imporrà nei prossimi mesi (in agosto soprattutto) aste dei Btp da brivido. Infine, a conferma che i grandi investitori asiatici cominciano a prendere le distanze dal Continente in crisi endemica, comincia a indebolirsi l’euro.
A dimostrazione che: a) il vento di “socialismo” che anima l’Europa non piace affatto ai grandi operatori americani; b) i mercati, memori dello shock del default di Lehman Brothers, vivono con terrore l’ipotesi del default greco, nel timore di conseguenze difficili da “prezzare”; c) consapevoli che, quando le cose possono andare male di solito vanno peggio, i mercati tornano a guardare con malcelata tensione, le prospettive che la caduta di Atene può avere su Italia e Spagna.
Ci ha pensato Fitch, la più piccola ma non meno agguerrita agenzia di rating, a inquadrare nel mirino Milano e Madrid: l’uscita di Atene dall’area euro colpirebbe/colpirà soprattutto i gemelli latini. È una precisazione che ha il suo peso psicologico: Fitch, agenzia controllata da azionsiti francesi (area pubblica) ci tiene a far sapere che le banche di Parigi e di Francoforte hanno ridotto la loro esposizione verso Atene. Ora, il crollo (metaforico) del Partenone finanziario andrebbe a colpire per “simpatia” il Colosseo e l’Escorial più che i forzieri di Francia e Germania.
In realtà, il calcolo è miope, almeno quanto le deduzioni del nostro strategist. La crisi politica, finanziaria ed economica dell’eurozona, va assai al di là della povera (e colpevole) Grecia, che comunque pesa il 2,5% del Pil dell’Ue. È una crisi di impotenza che, come un boomerang, minaccia di colpire alle fondamenta l’intero edificio. A danno dei poveri, ma non meno dei ricchi. Il mondo prende atto, tanto per cominciare, che l’Ue targata Germania non è stata in grado di far digerire la terapia, obbligata, dell’austerità alla Grecia. Di sicuro, è il ragionamento, la medicina non funzionerà per il resto della “periferia” d’Europa, ammesso e non concesso che si tratti della medicina giusta.
L’austerità, accusa lo strategist di Nomura, Richard Koo, può infatti funzionare di fronte a una politica di sperperi, quale quella praticata da Atene. Ma non ha alcun senso, incalzano economisti come Lawrence Summers, per paesi come la Spagna che nel 2007, alla vigilia della crisi, vantava un rapporto debito/Pil migliore della stessa Germania. O che, come l’Italia, hanno oggi un surplus sul debito primario nell’ordine di 5-6 punti percentuali dopo sacrifici che, come dimostra l’aumento del debito pubblico a marzo, verranno comunque vanificati dalla caduta in recessione del Pil. “La crisi della finanza pubblica di questi Paesi - è la diagnosi di Summers - è la conseguenza del disordine finanziario internazionale, non la sua causa. Ma quando un medico cura i sintomi e non la radice dei mali, il paziente in genere peggiora”.
Imporre una politica di austerità, incalza Koo, è una pura follia. Il Giappone, nel 1997, ha ceduto a pressioni in tal senso del Fondo monetario internazionale. Il risultato? Una caduta del debito pubblico nell’ordine dell’86%, da cui non si è ancora ripreso. E non illudetevi che basti allargare ancora i cordoni della borsa. Come recita un famoso proverbio inglese, “si può portare un cavallo in riva al fiume, ma non si può costringerlo a bere”. Allo stesso modo si può allargare il credito, ma non si possono costringere le imprese a investire se gli Animal Spirits sono negativi.
A tutto questo, naturalmente, si aggiungono le varie falle del sistema. Per limitarci alla Borsa, si fa sentire il “buco” di JP Morgan che ricorda, caso mai ve ne fosse stato il bisogno, la sostanziale impotenza delle autorità internazionali di fronte alla deregulation selvaggia che ha contribuito a inasprire la crisi. In un mondo dove i derivati valgono sette volte il Pil mondiale, gli sforzi dei governi e dei popoli sono una goccia nell’Oceano di fronte alla forza dei “masters of universe”. JP Morgan ha causato pesanti perdite nei listini europei senza aver nemmeno sfiorato, con le recenti speculazioni, il debito pubblico. Che cosa potrebbe accadere se decidesse di mettere sul tappeto i 342 miliardi di credit default swaps che possiede sull’Italia? Inutile nasconderlo: sui “sacrifici” dell’economia reale, o tagli di bilancio e il salasso delle imposte incombe la spada di Damocle di una finanza ormai sganciata dal mondo reale.
In passato, anche in tempi recenti, ha prevalso la tesi che la deregulation finanziaria favorisse l’allocazione più efficiente delle risorse. Ma questo non è successo: negli anni delle vacche grasse, quando il denaro era abbondante e il premio al rischio quasi inesistente, i quattrini del Nord Europa si sono riversati sul Mediterraneo, favorendo la bolla immobiliare spagnola o l’irrazionale dispersione di ricchezza greca, piuttosto che l’inefficienza della macchina pubblica italiana. Ora, al contrario, si assiste a una perversa fuga dal rischio: nonostante i risparmi effettuati dallo Stato italiano, i capitali fuggono dal Bel Paese verso la Germania ove vengono posteggiati in titoli pubblici. A rendere più amara la situazione, infine, contribuisce il fatto che i maggiori compratori di titoli tedeschi sono le banche svizzere, alimentate dalla fuga verso il “porto sicuro” dei contribuenti italiani, tedeschi e francesi che, in questo modo, aiutano a inasprire lo spread.
Come uscire da questo circuito perverso? Forse con gli eurobond o project bond. Oppure, favorendo l’uscita “morbida” della Grecia. Oppure introducendo vincoli allo strapotere dei mercati che possono dettare, grazie anche all’uso dei prodotti sintetici (che valgono 14 volte le Borse di tutto il mondo), le proprie regole a piacimento, magari con grande rischio ma poca spesa verso l’economia reale.
Si è detto che JP Morgan controlla 342 miliardi in “coperture” sui Btp. Ma, al pari delle sorelle Usa, la banca ha in pratica azzerato i suoi investimenti nel debito pubblico italiano già dallo scorso autunno. Per partecipare al grande flipper della speculazione, infatti, non è necessario nemmeno pagare un premio d’ingresso.
Peccato che le biglie del flipper siamo noi, vittime non innocenti di una crisi che è nata dalla nostra incuria e dalla nostra incapacità di capire i vincoli che ci poneva la sfida globale. Ma che oggi rischiamo di pagare interessi da usura. Urge una soluzione politica, insomma.