Chi produce gli indumenti che indossiamo lavora per due dollari l’ora. Anzi, lavorava: perché ormai quei due dollari sono “troppi” persino in Cina, dove si fatica senza contributi, senza sanità e senza protezioni ambientali. Così, annuncia
Paolo Barnard, le maggiori multinazionali mondiali del manifatturiero se ne stanno andando, dalla Cina: «Vanno in Vietnam, o altrove, dove il costo del lavoro è la metà», perché il margine di profitto delle grandi catene americane ed europee si è ridotto all’1-2%. «Pagando all’origine 2 dollari all’ora per i cinesi, non ci stanno più dentro. Dopo il Vietnam andranno in Sudan, poi faranno lavorare i bambini africani a 50 centesimi al giorno, poi i prigionieri di
guerra e i carcerati gratis, poi le anime dell’inferno, e poi dovranno inventarsene un’altra». E’ un fronte spaventoso, le cui ultime notizie arrivano dal Bangladesh: almeno 300 operai sono morti nel crollo di Rana Plaza, una fabbrica fatiscente del sobborgo Dhaka di Savar, dove si confezionavano abiti per Benetton e per catene come Wal-Mart.
La lista degli “incidenti” è lunga e dolorosa, racconta Vijay Prashad su “
Counterpunch”. Solo a Savar, i lavoratori uccisi erano già 75, più altri 18
morti a Shaka nel 2006. L’ennesimo crollo ha provocato la morte di 25 operai, ancora a Dhaka, nel 2010. «Queste sono le “fabbriche” della globalizzazione del ventunesimo secolo: rifugi costruiti poveramente per un processo di produzione assemblato attraverso lunghe giornate lavorative, macchinari di terza mano e lavoratori le cui stesse vite sono sottomesse agli imperativi della produzione just-in-time». E’ il paesaggio desolato della globalizzazione, dal confine
Usa-Messico ad Haiti fino allo Sri Lanka. Paesi sacrificati al nuovo schiavismo dagli anni ’90: «Nazioni silenziose che non avevano né la volontà patriottica di combattere per i propri cittadini né alcuna preoccupazione per la debilitazione a lungo termine del loro ordine sociale». I grandi produttori di indumenti, spiega Prashad, non volevano più investire nelle fabbriche. Così «sono diventati sub-appaltatori, offrendo margini molto ristretti di profitto e quindi forzando a dirigere le fabbriche come campi di prigionia del lavoro».
Il regime del sub-appalto ha permesso a queste aziende di negare ogni colpa, fino a godere dei benefici dei prodotti economici senza avere le coscienze macchiate dal sudore e dal sangue dei lavoratori. Ultimo anello della catena: noi, i consumatori. In Bangladesh si lavora anche solo per 35 dollari al mese, poco più di un dollaro al giorno. E gli operai cominciano a ribellarsi: blocchi stradali e scioperi in centinaia di stabilimenti. Per Atiqul Islam, presidente dell’associazione industriale di categoria, il problema non è la strage dei lavoratori-schiavi ma «il disordine nella produzione», che è «dovuto ad agitazioni e scioperi», un «duro colpo per il settore tessile». L’amministrazione, aggiunge Prashad, preferisce le esplosioni anarchiche di violenza al fermo consolidamento del potere dei lavoratori. La violenza ha spinto il governo del Bangladesh a creare una Crisis Management Cell e una Polizia Industriale: non per monitorare le violazioni delle leggi lavorative, ma per spiare i sindacalisti. «Nell’aprile 2012, agenti della capitale hanno
rapito Aminul Islam, uno degli organizzatori chiave del “Bangladesh Center for Worker Solidarity”: è stato trovato morto pochi giorni dopo, con il corpo con evidenti segni di tortura».
Quello che oggi accade nel cosiddetto Terzo Mondo, dice Barnard, non è altro che il preludio dell’orrore che sta arrivando anche da noi. Mentre in Italia la disoccupazione esplode, in una recente riunione ad Atene con alcune grandi compagnie – tra cui la Barilla – è stato chiesto al governo di abbassare lo stipendio dei greci a 250 euro al mese, per consentire agli “investitori” di aprire stabilimenti a condizioni di vantaggio nel paese europeo più martoriato dalla crisi imposta da Bruxelles su ordine di Berlino. Gli operai italiani che ancora confidano nei sindacati, aggiunge Barnard, non hanno la più pallida idea di quello che sta per succedere, a loro e alle loro famiglie, se l’Italia non abbandonerà il regime della moneta unica che blocca l’unica via d’uscita possibile: la spesa pubblica come motore per la piena occupazione. Pessime notizie, ovviamente, dal nuovo premier Enrico Letta: «Il lavoro è il cuore di tutto: se riusciamo sul lavoro a dare dei segnali positivi ce la faremo», ha detto al “Sole 24 Ore”. Quanto alla riforma Fornero, «in un momento straordinario come questo è necessario un pochino meno di rigidità».
Un pochino meno di rigidità. Testualmente: «Ci sono alcuni punti che in una fase recessiva stanno creando dei problemi, come ad esempio le limitazioni sui contratti a termine, che sono necessarie in una fase economica normale, ma che in una fase di straordinaria recessione come quella l’attuale non sono utili». L’economista democratico
Emiliano Brancaccio si scandalizza: Letta non esce dai binari ideologici di chi ha promosso la devastazione che stiamo soffrendo. Contratti super-precari e fluttuanti in base alle circostanze? «Un’argomentazione simile era stata sostenuta poco prima dal ministro del
welfare Enrico Giovannini». Il premier l’ha ribadita il Primo Maggio. «Nel giorno della festa dei lavoratori – rileva Brancaccio – Letta dunque si accoda agli ultimi pasdaran del liberismo, che ripetono da anni la tesi secondo cui una maggiore precarietà dei contratti di lavoro favorirebbe l’efficienza economica e il riassorbimento della disoccupazione. Questa tesi tuttavia è
falsa». Brancaccio cita gli studi dell’Ocse, che «smentiscono l’esistenza di una correlazione tra riduzione delle tutele dei lavoratori e riduzione della disoccupazione».
Analisi confermata da Tito Boeri e Jan van Ours, autori di ricerche condotte negli ultimi anni sull’“
economia dei mercati imperfetti”: la precarizzazione demolisce il settore produttivo. E per Olivier Blanchard, attuale capo-economista del Fmi, «le differenze nei regimi di protezione del lavoro appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi». In definitiva, osserva Brancaccio, sugli effetti occupazionali delle tutele del lavoro Letta dichiara tecnicamente il falso, nel senso che tenta di promuovere una modifica della disciplina dei contratti sulla base di relazioni di causa ed effetto che non hanno trovato adeguati riscontri nella letteratura scientifica di questi anni. «Per non parlare dell’idea bizzarra, da lui evocata, secondo cui la normativa sul lavoro dovrebbe variare in funzione delle fasi di espansione o recessione della produzione: una sorta di legislazione à la carte, da modificare ogni volta in funzione della congiuntura».
Se così fosse, conclude Brancaccio, ci troveremmo al cospetto dell’ennesimo colpo sparato su una disciplina dei contratti di lavoro ormai ridotta a colabrodo, che da un punto di vista economico finirebbe al limite per accrescere l’instabilità dell’occupazione e del monte salari, e potrebbe persino arrivare a deprimere i loro già disastrosi andamenti medi. Niente di strano: Letta è allievo di Beniamino Andreatta, lo stratega della grande privatizzazione italiana avviata col distacco della Banca d’Italia dal Tesoro, che ha avviato la crisi finanziaria dello Stato e quindi la tragedia della disoccupazione, con il crollo delle tutele, proprio mentre la globalizzazione spingeva le aziende a delocalizzare gli stabilimenti nei paesi poveri. La corsa scellerata all’export caldeggiata dagli economisti mainstream è un vero suicidio, dice Barnard: semplicemente, gli operai italiani ed europei non possono reggere la concorrenza. Unica soluzione: la piena occupazione interna finanziata dallo Stato, secondo il piano messo a punto dalla Me-Mmt,
la Modern Money Theory di Warren Mosler, fondata proprio sulla sovranità monetaria dello Stato democratico.
L’alternativa? Non esiste. Tra noi e il Bangladesh le differenze si stanno assottigliando, giorno per giorno. E dopo due secoli di
democrazia, si possono rileggere come minaccia diretta – a tutti noi – le profetiche parole che Marx affida al decimo capitolo de “Il capitale”, evocate da Vijay Prashad. «Nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di plusvalore», il capitale «scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare». La globalizzazione del XXI secolo, osserva Prashad, è esattamente l’incubo delle fabbriche inglesi dell’800. E’ il mostro che «riduce il sonno» e porta l’organismo umano all’esaurimento. E’ il despota che «lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore viene dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore». Per fortuna, nel 2013, quel che resta degli eredi dei partiti un tempo marxisti oggi raccomandano «un pochino meno di rigidità».