Se bastano 3 euro a creare 20.000 posti di lavoro
giovedì 29 marzo 2012
Molti pensano che il settore elettrico sia sostenuto, almeno in larga parte, da finanziamenti pubblici. Tale convinzione trova la sua origine nella semplice constatazione che l’elettricità è un bene primario e sembra pertanto ragionevole supporre che gli oneri derivanti dalla sua fruizione da parte dei cittadini siano coperti da risorse pubbliche. In verità, l’elettricità è certamente classificabile come “commodity”, cioè come un bene caratterizzato da una grande domanda, la cui qualità finale è indipendente dal comportamento dei produttori e, infine, il cui prezzo è sempre deciso dal mercato. Sono commodities il frumento, il legname, l’oro, il petrolio, il gas e via dicendo.
L’elettricità ha molti punti di similitudine con queste risorse, ma anche caratteristiche che la differenziano in modo evidente e interessante. Essa, infatti, non può essere “stoccata”, cioè non è possibile fare un magazzino colmo di energia elettrica, come accade, ad esempio, per l’acqua, con la necessaria conseguenza che essa deve essere prodotta esattamente nella quantità e nel tempo che il mercato, cioè la domanda ovvero il mondo dei consumatori, chiede. Quindi gli elettrodotti che distribuiscono l’energia elettrica sono sempre in perfetto equilibrio, tanto consegnano, in termini di energia, tanto ricevono.
È anche degno di nota sottolineare che l’equilibrio qui citato coinvolge intere nazioni, poiché i sistemi distributivi dei principali paesi europei sono sempre fra loro interconnessi. Appare allora di tutta evidenza la complessità di questo settore industriale che, ad aumentarne l’interesse, nonostante le complicazioni descritte, lascia totale libertà di fruizione agli utenti. In altri termini, ognuno può scegliere liberamente l’istante in cui utilizzare l’energia elettrica per accendere la luce, fare il bucato o usare un tornio. Le pochissime limitazioni a taluni settori industriali sono del tutto trascurabili e non attenuano la categoricità della precedente affermazione.
Dunque l’idea di un pesante intervento pubblico in un settore che si presenta così difficile sembra ineludibile. La realtà, però, è assai diversa, tanto da poter considerare, almeno in questa prima parte dell’articolo, il sistema elettrico come un esempio perfetto di sussidiarietà orizzontale. Per dimostrarlo basti pensare ai diversi “mestieri” presenti nel settore elettrico: l’energia elettrica va infatti prodotta, distribuita e venduta. Ed ecco tre diversi comparti, che la normativa del settore prevede incompatibili fra loro (“unbundling”), nel senso che una stessa società non può essere produttrice e poi anche distributrice e poi ancora venditrice. Questi tre mestieri sono quindi svolti da società di capitale diverse; nel caso della distribuzione va chiarito inoltre che essa è attuata tramite concessione pubblica e regolamentata da tariffe stabilite dall’Authority.
In generale, il ruolo pubblico nel comparto elettrico riguarda esclusivamente due azioni: a) la pianificazione del settore, ad esempio la scelta sull’utilizzo o meno del nucleare, attuata dal Governo, per il tramite del Ministero per lo Sviluppo Economico, e dal Parlamento con l’emanazione di provvedimenti legislativi; b) la regolamentazione. Quest’ultima compete all’Autorità per l’energia elettrica e il gas che, su delega e del Governo e del Parlamento, pubblica una numerosa serie annuale di delibere sull’intero settore energetico, che disciplinano nel dettaglio ogni azione del settore, dal valore delle tariffe di trasporto dell’energia elettrica al funzionamento delle interconnessioni con l’estero.
Così impostato, il settore elettrico si presenta nel seguente modo: esiste la domanda sociale di elettricità che è soddisfatta attraverso la produzione, la distribuzione e la vendita - tutti prodotti e servizi resi disponibili dai privati, non dallo Stato che provvede invece a pianificare e regolamentare il settore. Un esempio quindi di sistema sussidiario orizzontale perfetto. Il tema però merita di essere approfondito e ciò è possibile partendo, ancora una volta, dal lato della domanda.
Occorre analizzare come i consumatori remunerano il servizio che ricevono. La modalità è nota a tutti e riguarda il pagamento della bolletta elettrica che ogni utente riceve mensilmente, o con periodicità diversa a seconda del contratto, dal proprio fornitore. La bolletta è composta, grosso modo, da tre principali parti: la parte che remunera il costo di produzione, che vale circa il 50% del totale, i costi di consegna, che valgono all’incirca il 25%, e, da ultimo, le tasse e gli oneri di sistema, che valgono un altro 25%. Per dare dei riferimenti numerici, mediati sull’intero sistema elettrico nazionale, possiamo dire che il costo di produzione in Italia si aggira quest’anno intorno ai 75 €/MWh, i costi di consegna valgono complessivamente 37,5 €/MWh, tasse e oneri di sistema altri 37,5 €/MWh. Complessivamente, quindi, la bolletta italiana costa in media 150 €/MWh. Se volessimo fare un rapido raffronto con l’estero scopriremmo che nel Regno Unito il costo di produzione è pari a 52 €/MWh, mentre in Spagna è 51,8 €/MWh, in Germania è 51 €/MWh e in Francia 50 €/MWh.
La notevolissima differenza dei costi di produzione fra la situazione italiana e quella estera, pari a circa 25 €/MWh, è una costante temporale del nostro settore elettrico. Nei primi dieci anni di questo secolo essa è stata attribuita al diverso basket produttivo che differenzia l’Italia dal resto dell’Europa. Da noi infatti le centrali erano allora prevalentemente a olio combustibile, con un’efficienza assai bassa a causa della vetustà della maggior parte degli impianti produttivi. All’estero invece vi erano centrali più nuove ed efficienti e, soprattutto, combustibili assai più vantaggiosi, come il carbone e il nucleare.
Attualmente la situazione è mutata poiché il 47% dell’energia prodotta proviene dal gas naturale, mentre il ruolo dell’olio combustibile è sceso a circa il 4%. Ciò nonostante lo spread fra Italia e estero è rimasto assai elevato. La giustificazione in questo caso sta, prevalentemente, nella differenza di prezzo con cui i paesi confinanti pagano il gas naturale. Recentemente c’è stata la presentazione alle Commissioni industria di Senato e Camera della relazione dell’Authority sullo stato del mercato elettrico. In essa si legge che il differenziale di prezzo fra gli hub di gas naturale italiani e quelli belga e olandese vede il nostro Paese sfavorito del 25%.
Tornando alla bolletta, probabilmente il termine meno chiaro per i non addetti è “oneri di sistema”, che però ha un’incidenza rilevante sul totale dei costi dell’elettricità poiché pesa per un quarto. Con questo termine si intendono tutti quei costi dovuti al normale funzionamento del sistema elettrico. Quando, ad esempio, l’Italia nel 1987 decise di uscire dal nucleare a seguito dell’esito di un apposito referendum promosso dopo l’incidente nella centrale russa di Chernobyl, erano attivi nel nostro territorio tre impianti nucleari. I notevolissimi costi relativi al decommissioning, cioè al loro smontaggio, fanno parte degli oneri di sistema. Oppure, la decisione di privatizzare il settore elettrico, assunta dal Parlamento Italiano con la legge n.79 del 1999, comportò il rimborso a Enel di quegli investimenti che l’azienda aveva fatto nella prospettiva di continuare a essere il monopolista del settore. Tali costi, chiamati “incagliati”, ovvero “stranded costs”, sono anch’essi inclusi fra gli oneri di sistema. Anche tutto lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che, come noto, hanno ancora un costo di realizzazione mediamente tre volte superiore a quello delle fonti tradizionali, ha bisogno di essere incentivato e ciò accade con fondi che derivano per intero dagli oneri di sistema.
Appare ora più evidente quel riferimento alla sussidiarietà a cui si faceva prima riferimento. È infatti la società a farsi direttamente carico, economicamente e finanziariamente, di tutti quei costi che competono al corretto funzionamento del settore elettrico, ivi compreso lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che è promosso senza un solo euro di provenienza pubblica. Ciò accade sia in forza della politica stabilita da Governo e Parlamento, sia attraverso regole stabilite dall’Authority. Questa sussidiarietà si potrebbe però definire “drogata”. Se esaminiamo l’entità degli oneri di sistema nel 2011 vediamo che essa ammonta a circa 10,5 miliardi di euro. A un esame più attento si notano due addendi importanti che la compongono, uno si riferisce al finanziamento delle fonti rinnovabili (8,8 miliardi), l’altro ai servizi “interconnector” e “interrompibilità”, che vengono offerti dalle industrie energivore, quelle cioè a elevato consumo di energia elettrica e gas naturale (sono circa un centinaio) e quindi a esse remunerati, per 932 milioni di euro.
Si tratta di servizi particolari, interruzione improvvisa dei prelievi elettrici in caso di deficit produttivo nazionale e finanziamento di interconnessioni con l’estero, che vengono richiesti a quello specifico settore industriale con una duplice motivazione: poiché solo esso dispone delle specificità tecniche necessarie alla loro offerta e, in secondo luogo, poiché normalmente si tratta di settori svantaggiati dalla concorrenza internazionale che vede costi produttivi esteri significativamente più bassi, proprio l’energia costa assai di meno. Succede allora che la quasi totalità degli oneri di sistema, che, ricordiamo, vengono pagati dall’intera società, sono utilizzati per pagare i servizi offerti dalla grande industria, quella energivora e quella impegnata nello sviluppo delle fonti rinnovabili e, in definitiva, per avvantaggiare solo quella determinata parte del settore produttivo nazionale.
La distorsione presente nel sistema elettrico è ancora più evidente se si considera che, mentre la grande industria riceve dagli oneri di sistema quasi 10 miliardi di euro l’anno, le Pmi versano ogni anno nel medesimo paniere degli oneri di sistema 2,5 miliardi, senza ricevere alcuna “commessa” per servizi erogabili. Le Pmi coprono il 25% dei consumi, il 50% del Pil e l’80% dell’occupazione, versano annualmente 2,2 miliardi di euro per le fonti rinnovabili, 53 milioni di euro per il decommissioning nucleare, 150 milioni di euro per l’interrompibilità, 83 milioni di euro per gli interconnector: in totale 2,5 miliardi di euro, senza mai potersi sedere dall’altra parte del tavolo, quella cioè dove si partecipa all’erogazione dei servizi e quindi alla riscossione dei relativi compensi.
Con il termine “sussidiarietà drogata” si vuole esattamente intendere questa asimmetria che è resa tanto più ingiusta e dannosa se si considera lo stato di crisi generale del Paese. A chi scrive sembra quindi necessario e indifferibile mettere mano a un nuovo provvedimento legislativo nel settore elettrico a favore delle Pmi e, al contempo, dell’occupazione che, ripercorrendo i precedenti comportamenti adottati da Governo, Parlamento e Authority verso la grande industria, risolva alcune contraddizioni interne.
Se è vero che le Pmi non possono attrezzarsi per erogare il servizio di interrompibilità (servizio che, va detto, in presenza di un eccesso di capacità produttiva come quello che documenta oggi Terna, ha in Italia sempre meno senso) è altrettanto incontestabile che le medesime Pmi potrebbero concorrere al finanziamento di nuovi interconnector, con la medesima impostazione in essere per la grande impresa. Si potrebbe cioè prevedere la realizzazione “virtuale” di 2.000 MW di nuova interconnessione che consentirebbe vantaggi economici per le Pmi pari a 240 milioni l’anno. Evidentemente tale flusso di denaro, che dovrebbe uscire ancora una volta dagli oneri di sistema, dovrebbe essere controbilanciato da un’analoga entrata che si tradurrebbe in un costo aggiuntivo annuo, ad esempio per le famiglie, pari a 3 euro in tutto.
È chiaramente un’iniziativa oggi politicamente scorretta, poiché dopo che la demagogia ambientalista ci ha costretto a concedere ai produttori con fonti rinnovabili incentivi molto premianti e dopo che le lobby della grande industria sono riuscite a farsi finanziare servizi di dubbia utilità, tutti oggi si stanno lamentando dell’eccessiva incidenza in bolletta degli oneri di sistema. E questa è certamente una preoccupazione giusta. Come giusta d’altra parte sembra essere la constatazione della modesta entità dell’aumento, tre euro all’anno per le fasce più deboli, e soprattutto la valorizzazione sociale che il provvedimento a favore delle Pmi potrebbe avere.
In questo caso infatti non si tratterebbe di lasciare ai grandi imprenditori energetici la libertà di disporre come credono di quei 10 miliardi di euro l’anno che gli oneri di sistema danno loro. L’imprenditore delle Pmi sarebbe infatti vincolato a usare i 240 milioni di euro annuali per l’assunzione di giovani disoccupati. Ecco allora che se da un lato la collettività si vedrebbe gravata di un piccolissimo, ma pur sempre reale, aumento della bolletta, in questo caso, in modo assolutamente diverso dai precedenti, essa beneficerebbe dei posti di lavoro offerti ai giovani. Le Pmi potrebbero così usufruire di manodopera che non comporta costi poiché di fatto pagata dagli oneri di sistema, attraverso il meccanismo dell’erogazione di un servizio elettrico, e tutti vivrebbero felici e contenti.
Qualche numero: se, al netto dei costi dell’operazione, al mondo delle Pmi fossero destinati 240 milioni di euro all’anno, le Pmi che potrebbero essere coinvolte nel progetto potrebbero essere 10.000, quelle cioè che rientrano in un prefissato range di potenza impegnata. Esse potrebbero ricevere ciascuna circa 25.000 euro l’anno, sufficienti per occupare due giovani apprendisti. In totale quindi la manovra offrirebbe lavoro a 20.000 giovani. Esiste oggi un disegno che potrebbe produrre immediatamente un risultato così importante senza spendere un centesimo del bilancio dello Stato e rendendo la sussidiarietà del settore elettrico un po’ meno drogata?