giovedì 29 marzo 2012

Se bastano 3 euro a creare 20.000 posti di lavoro


 Se bastano 3 euro a creare 20.000 posti di lavoro

giovedì 29 marzo 2012
IL CASO/ Se bastano 3 euro a creare 20.000 posti di lavoroFoto Fotolia

Molti pensano che il settore elettrico sia sostenuto, almeno in larga parte, da finanziamenti pubblici. Tale convinzione trova la sua origine nella semplice constatazione che l’elettricità è un bene primario e sembra pertanto ragionevole supporre che gli oneri derivanti dalla sua fruizione da parte dei cittadini siano coperti da risorse pubbliche. In verità, l’elettricità è certamente classificabile come “commodity”, cioè come un bene caratterizzato da una grande domanda, la cui qualità finale è indipendente dal comportamento dei produttori e, infine, il cui prezzo è sempre deciso dal mercato. Sono commodities il frumento, il legname, l’oro, il petrolio, il gas e via dicendo.
L’elettricità ha molti punti di similitudine con queste risorse, ma anche caratteristiche che la differenziano in modo evidente e interessante. Essa, infatti, non può essere “stoccata”, cioè non è possibile fare un magazzino colmo di energia elettrica, come accade, ad esempio, per l’acqua, con la necessaria conseguenza che essa deve essere prodotta esattamente nella quantità e nel tempo che il mercato, cioè la domanda ovvero il mondo dei consumatori, chiede. Quindi gli elettrodotti che distribuiscono l’energia elettrica sono sempre in perfetto equilibrio, tanto consegnano, in termini di energia, tanto ricevono.
È anche degno di nota sottolineare che l’equilibrio qui citato coinvolge intere nazioni, poiché i sistemi distributivi dei principali paesi europei sono sempre fra loro interconnessi. Appare allora di tutta evidenza la complessità di questo settore industriale che, ad aumentarne l’interesse, nonostante le complicazioni descritte, lascia totale libertà di fruizione agli utenti. In altri termini, ognuno può scegliere liberamente l’istante in cui utilizzare l’energia elettrica per accendere la luce, fare il bucato o usare un tornio. Le pochissime limitazioni a taluni settori industriali sono del tutto trascurabili e non attenuano la categoricità della precedente affermazione.
Dunque l’idea di un pesante intervento pubblico in un settore che si presenta così difficile sembra ineludibile. La realtà, però, è assai diversa, tanto da poter considerare, almeno in questa prima parte dell’articolo, il sistema elettrico come un esempio perfetto di sussidiarietà orizzontale. Per dimostrarlo basti pensare ai diversi “mestieri” presenti nel settore elettrico: l’energia elettrica va infatti prodotta, distribuita e venduta. Ed ecco tre diversi comparti, che la normativa del settore prevede incompatibili fra loro (“unbundling”), nel senso che una stessa società non può essere produttrice e poi anche distributrice e poi ancora venditrice. Questi tre mestieri sono quindi svolti da società di capitale diverse; nel caso della distribuzione va chiarito inoltre che essa è attuata tramite concessione pubblica e regolamentata da tariffe stabilite dall’Authority.
In generale, il ruolo pubblico nel comparto elettrico riguarda esclusivamente due azioni: a) la pianificazione del settore, ad esempio la scelta sull’utilizzo o meno del nucleare, attuata dal Governo, per il tramite del Ministero per lo Sviluppo Economico, e dal Parlamento con l’emanazione di provvedimenti legislativi; b) la regolamentazione. Quest’ultima compete all’Autorità per l’energia elettrica e il gas che, su delega e del Governo e del Parlamento, pubblica una numerosa serie annuale di delibere sull’intero settore energetico, che disciplinano nel dettaglio ogni azione del settore, dal valore delle tariffe di trasporto dell’energia elettrica al funzionamento delle interconnessioni con l’estero.
Così impostato, il settore elettrico si presenta nel seguente modo: esiste la domanda sociale di elettricità che è soddisfatta attraverso la produzione, la distribuzione e la vendita - tutti prodotti e servizi resi disponibili dai privati, non dallo Stato che provvede invece a pianificare e regolamentare il settore. Un esempio quindi di sistema sussidiario orizzontale perfetto. Il tema però merita di essere approfondito e ciò è possibile partendo, ancora una volta, dal lato della domanda.
Occorre analizzare come i consumatori remunerano il servizio che ricevono. La modalità è nota a tutti e riguarda il pagamento della bolletta elettrica che ogni utente riceve mensilmente, o con periodicità diversa a seconda del contratto, dal proprio fornitore. La bolletta è composta, grosso modo, da tre principali parti: la parte che remunera il costo di produzione, che vale circa il 50% del totale, i costi di consegna, che valgono all’incirca il 25%, e, da ultimo, le tasse e gli oneri di sistema, che valgono un altro 25%. Per dare dei riferimenti numerici, mediati sull’intero sistema elettrico nazionale, possiamo dire che il costo di produzione in Italia si aggira quest’anno intorno ai 75 €/MWh, i costi di consegna valgono complessivamente 37,5 €/MWh, tasse e oneri di sistema altri 37,5 €/MWh. Complessivamente, quindi, la bolletta italiana costa in media 150 €/MWh. Se volessimo fare un rapido raffronto con l’estero scopriremmo che nel Regno Unito il costo di produzione è pari a 52 €/MWh, mentre in Spagna è 51,8 €/MWh, in Germania è 51 €/MWh e in Francia 50 €/MWh.
La notevolissima differenza dei costi di produzione fra la situazione italiana e quella estera, pari a circa 25 €/MWh, è una costante temporale del nostro settore elettrico. Nei primi dieci anni di questo secolo essa è stata attribuita al diverso basket produttivo che differenzia l’Italia dal resto dell’Europa. Da noi infatti le centrali erano allora prevalentemente a olio combustibile, con un’efficienza assai bassa a causa della vetustà della maggior parte degli impianti produttivi. All’estero invece vi erano centrali più nuove ed efficienti e, soprattutto, combustibili assai più vantaggiosi, come il carbone e il nucleare.
Attualmente la situazione è mutata poiché il 47% dell’energia prodotta proviene dal gas naturale, mentre il ruolo dell’olio combustibile è sceso a circa il 4%. Ciò nonostante lo spread fra Italia e estero è rimasto assai elevato. La giustificazione in questo caso sta, prevalentemente, nella differenza di prezzo con cui i paesi confinanti pagano il gas naturale. Recentemente c’è stata la presentazione alle Commissioni industria di Senato e Camera della relazione dell’Authority sullo stato del mercato elettrico. In essa si legge che il differenziale di prezzo fra gli hub di gas naturale italiani e quelli belga e olandese vede il nostro Paese sfavorito del 25%.
Tornando alla bolletta, probabilmente il termine meno chiaro per i non addetti è “oneri di sistema”, che però ha un’incidenza rilevante sul totale dei costi dell’elettricità poiché pesa per un quarto. Con questo termine si intendono tutti quei costi dovuti al normale funzionamento del sistema elettrico. Quando, ad esempio, l’Italia nel 1987 decise di uscire dal nucleare a seguito dell’esito di un apposito referendum promosso dopo l’incidente nella centrale russa di Chernobyl, erano attivi nel nostro territorio tre impianti nucleari. I notevolissimi costi relativi al decommissioning, cioè al loro smontaggio, fanno parte degli oneri di sistema. Oppure, la decisione di privatizzare il settore elettrico, assunta dal Parlamento Italiano con la legge n.79 del 1999, comportò il rimborso a Enel di quegli investimenti che l’azienda aveva fatto nella prospettiva di continuare a essere il monopolista del settore. Tali costi, chiamati “incagliati”, ovvero “stranded costs”, sono anch’essi inclusi fra gli oneri di sistema. Anche tutto lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che, come noto, hanno ancora un costo di realizzazione mediamente tre volte superiore a quello delle fonti tradizionali, ha bisogno di essere incentivato e ciò accade con fondi che derivano per intero dagli oneri di sistema.
Appare ora più evidente quel riferimento alla sussidiarietà a cui si faceva prima riferimento. È infatti la società a farsi direttamente carico, economicamente e finanziariamente, di tutti quei costi che competono al corretto funzionamento del settore elettrico, ivi compreso lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che è promosso senza un solo euro di provenienza pubblica. Ciò accade sia in forza della politica stabilita da Governo e Parlamento, sia attraverso regole stabilite dall’Authority. Questa sussidiarietà si potrebbe però definire “drogata”. Se esaminiamo l’entità degli oneri di sistema nel 2011 vediamo che essa ammonta a circa 10,5 miliardi di euro. A un esame più attento si notano due addendi importanti che la compongono, uno si riferisce al finanziamento delle fonti rinnovabili (8,8 miliardi), l’altro ai servizi “interconnector” e “interrompibilità”, che vengono offerti dalle industrie energivore, quelle cioè a elevato consumo di energia elettrica e gas naturale (sono circa un centinaio) e quindi a esse remunerati, per 932 milioni di euro.
Si tratta di servizi particolari, interruzione improvvisa dei prelievi elettrici in caso di deficit produttivo nazionale e finanziamento di interconnessioni con l’estero, che vengono richiesti a quello specifico settore industriale con una duplice motivazione: poiché solo esso dispone delle specificità tecniche necessarie alla loro offerta e, in secondo luogo, poiché normalmente si tratta di settori svantaggiati dalla concorrenza internazionale che vede costi produttivi esteri significativamente più bassi, proprio l’energia costa assai di meno. Succede allora che la quasi totalità degli oneri di sistema, che, ricordiamo, vengono pagati dall’intera società, sono utilizzati per pagare i servizi offerti dalla grande industria, quella energivora e quella impegnata nello sviluppo delle fonti rinnovabili e, in definitiva, per avvantaggiare solo quella determinata parte del settore produttivo nazionale.
La distorsione presente nel sistema elettrico è ancora più evidente se si considera che, mentre la grande industria riceve dagli oneri di sistema quasi 10 miliardi di euro l’anno, le Pmi versano ogni anno nel medesimo paniere degli oneri di sistema 2,5 miliardi, senza ricevere alcuna “commessa” per servizi erogabili. Le Pmi coprono il 25% dei consumi, il 50% del Pil e l’80% dell’occupazione, versano annualmente 2,2 miliardi di euro per le fonti rinnovabili, 53 milioni di euro per il decommissioning nucleare, 150 milioni di euro per l’interrompibilità, 83 milioni di euro per gli interconnector: in totale 2,5 miliardi di euro, senza mai potersi sedere dall’altra parte del tavolo, quella cioè dove si partecipa all’erogazione dei servizi e quindi alla riscossione dei relativi compensi.
Con il termine “sussidiarietà drogata” si vuole esattamente intendere questa asimmetria che è resa tanto più ingiusta e dannosa se si considera lo stato di crisi generale del Paese. A chi scrive sembra quindi necessario e indifferibile mettere mano a un nuovo provvedimento legislativo nel settore elettrico a favore delle Pmi e, al contempo, dell’occupazione che, ripercorrendo i precedenti comportamenti adottati da Governo, Parlamento e Authority verso la grande industria, risolva alcune contraddizioni interne.
Se è vero che le Pmi non possono attrezzarsi per erogare il servizio di interrompibilità (servizio che, va detto, in presenza di un eccesso di capacità produttiva come quello che documenta oggi Terna, ha in Italia sempre meno senso) è altrettanto incontestabile che le medesime Pmi potrebbero concorrere al finanziamento di nuovi interconnector, con la medesima impostazione in essere per la grande impresa. Si potrebbe cioè prevedere la realizzazione “virtuale” di 2.000 MW di nuova interconnessione che consentirebbe vantaggi economici per le Pmi pari a 240 milioni l’anno. Evidentemente tale flusso di denaro, che dovrebbe uscire ancora una volta dagli oneri di sistema, dovrebbe essere controbilanciato da un’analoga entrata che si tradurrebbe in un costo aggiuntivo annuo, ad esempio per le famiglie, pari a 3 euro in tutto.
È chiaramente un’iniziativa oggi politicamente scorretta, poiché dopo che la demagogia ambientalista ci ha costretto a concedere ai produttori con fonti rinnovabili incentivi molto premianti e dopo che le lobby della grande industria sono riuscite a farsi finanziare servizi di dubbia utilità, tutti oggi si stanno lamentando dell’eccessiva incidenza in bolletta degli oneri di sistema. E questa è certamente una preoccupazione giusta. Come giusta d’altra parte sembra essere la constatazione della modesta entità dell’aumento, tre euro all’anno per le fasce più deboli, e soprattutto la valorizzazione sociale che il provvedimento a favore delle Pmi potrebbe avere.
In questo caso infatti non si tratterebbe di lasciare ai grandi imprenditori energetici la libertà di disporre come credono di quei 10 miliardi di euro l’anno che gli oneri di sistema danno loro. L’imprenditore delle Pmi sarebbe infatti vincolato a usare i 240 milioni di euro annuali per l’assunzione di giovani disoccupati. Ecco allora che se da un lato la collettività si vedrebbe gravata di un piccolissimo, ma pur sempre reale, aumento della bolletta, in questo caso, in modo assolutamente diverso dai precedenti, essa beneficerebbe dei posti di lavoro offerti ai giovani. Le Pmi potrebbero così usufruire di manodopera che non comporta costi poiché di fatto pagata dagli oneri di sistema, attraverso il meccanismo dell’erogazione di un servizio elettrico, e tutti vivrebbero felici e contenti.
Qualche numero: se, al netto dei costi dell’operazione, al mondo delle Pmi fossero destinati 240 milioni di euro all’anno, le Pmi che potrebbero essere coinvolte nel progetto potrebbero essere 10.000, quelle cioè che rientrano in un prefissato range di potenza impegnata. Esse potrebbero ricevere ciascuna circa 25.000 euro l’anno, sufficienti per occupare due giovani apprendisti. In totale quindi la manovra offrirebbe lavoro a 20.000 giovani. Esiste oggi un disegno che potrebbe produrre immediatamente un risultato così importante senza spendere un centesimo del bilancio dello Stato e rendendo la sussidiarietà del settore elettrico un po’ meno drogata?


Francia, la Fcpe invita genitori e studenti a boicottare i compiti a casa


Francia, la Fcpe invita genitori e studenti a boicottare i compiti a casa

I compiti a casa, vero incubo di ogni scolaro... e dei suoi genitori. I ragazzini non hanno voglia di farli e mamma e papà non hanno il tempo di seguirli: eppure "vanno fatti" per evitare le ire di maestri e professori, indipendentemente dalla reale utilità di esercizi e approfondimenti.
Ed è proprio su questo concetto che si è soffermata laFCPE - Fédération des Conseils de Parents d'Elèves, una delle più importanti associazioni di genitori della Francia che, da un paio di settimane, sta invitando apertamente genitori e alunni al boicottaggio dei tanto odiati compiti a casa.
Va detto che, stando a una vecchia legge del 1956, i bambini delle elementari sarebbero esenti dai compiti. Ma, a quanto pare, gli insegnati sono sempre riusciti ad aggirare il divieto, con il risultato di caricare d'ansia e stress i piccoli studenti: "Mia figlia è completamente stressata. Spesso non ha il tempo per finire i compiti a casa. Ciò provoca in lei grande ansia perché teme di essere sgridata" - scrive una madre sul forum di FCPE.
E si torna all'antica domanda: i compiti a casa sono utili oppure no? Secondo Jean-Jacques Hazan, presidente della Fcpe, l'utilità dei compiti non è mai stata provata. Al contrario causano tensione in famiglia e acuiscono le differenze tra i bimbi che possono essere seguiti dai genitori rispetto a quelli che devono cavarsela da soli:
"Se il bambino non è riuscito a fare gli esercizi a scuola, non capisco perché dovrebbe farcela a casa. La regola che oggi vige nelle scuole francesi è questa: si ascolta in classe, si lavoro a casa. Ma è in classe che tutto dovrebbe essere portato a termine, sono i professori che devono far lavorare i nostri bambini e sono loro che li devono aiutare se non sono in grado di fare gli esercizi"
E, riguardo ai maestri, dice:
"Non si rendono conto di quello che fanno. Con i loro compiti mettono i bambini in una situazione di pressione allucinante"
Qualcuno, però, non è del tutto d'accordo sull'abolizione dei compiti, che responsabilizzerebbero i bambini allo studio organizzato e autonomo, in vista delle scuole superiori. Di questo avviso è Myriam Menez, segretaria generale di un'altra associazione di genitori chiamata Peep
"In un certo senso gli esercizi assegnati a casa preparano i nostri bambini alle scuole secondarie. Sicuramente è giusto che il carico di lavoro non sia eccessivo, ma ripetere un lezione è il miglior modo per imparare meglio le cose".

"Abbiamo un bug sui follower", Twitter fa mea culpa


"Abbiamo un bug sui follower", Twitter fa mea culpa

© AFP/AFP

"Stanno lavorando per noi" dice sostanzialmente l'editoriale di Jeremiah Owyang su Techcrunch: l'analista ha chiesto ai suoi contatti all'interno dell'impero diTwitter i motivi dello schizofrenico unfollow che da un po' di tempo a questa parte colpisce gli utenti, provocando anche dei danni economici a chi, come Owyang, usa Twitter per lavoro. Si tratta di un bug, ma null'altro è trapelato all'esterno, e il quartier generale del sito di microblogging consiglia di visitare la pagina di supporto per un'ulteriore verifica. 
Intanto Twitter ha monopolizzato anche la prima giornata del Social Media World Forum di Londra, dove Bruce Daisley, Uk Sales Director, ha rivelato importanti dati sull'utilizzo del network da 140 caratteri: il 60% degli iscritti (ovvero 84 milioni di persone) "produce realmente qualcosa", ovvero è un utente attivo, mentre i restanti si limitano a consultare la timeline alla ricerca di contenuti. Tra le ricerche vanno per la maggiore sconti e promozioni (94% degli iscritti), articoli gratuiti e materiale divertente (88%), contenuti esclusivi e svendite (79%), avvallando quanto già aveva sostenuto il fondatore Jack Dorsey al DLD di Monaco, ovvero che Twitter "non è più soltanto un social network".

Amnesty International e il rapporto sulla pena di morte nel mondo nel 2011


Amnesty International e il rapporto sulla pena di morte nel mondo nel 2011

Amnesty International e il rapporto sulla pena di morte nel mondo nel 2011
© PAUL J. RICHARDS/AFP
Amnesty International ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla pena di morte, secondo il quale nel 2011 solo il 10% dei paesi, 20 su 198, hanno eseguito condanne a morte.
"Nel 2011 sono state messe a morte almeno 676 persone in tutto il mondo, un incremento rispetto alle 527 esecuzioni del 2010. L'omicidio di stato è aumentato in modo allarmante in Arabia Saudita, Iran e Iraq. Resoconti credibili indicano che in Iran siano state messe a morte, in segreto, centinaia di persone. Un dato che raddoppierebbe il numero di esecuzioni ufficialmente riconosciuto"
Ma Amnesty International ricorda che in molti paesi del mondo ancora si fucila, si decapita, si uccide. In Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran e Somalia le esecuzioni continuano ad avvenire in pubblico; in Iran si mandano al patibolo i colpevoli di adulterio e di sodomia, in Pakistan i blasfemi, in Arabia Saudita sono state ancora eseguite condanne per stregoneria nel corso del 2011, nella Repubblica del Congo lo stato uccide per il traffico di resti umani, mentre in oltre dieci paesi, i reati legati alla droga vengono puniti con la morte.
Solo la Cina manca dal rapporto di Amnesty; la sospensione della pena di morte annunciata dal gigante asiatico qualche mese fa farebbero sperare in un significativo passo avanti anche nel Paese orientale. 
"È dal rapporto del 2009 che Amnesty International non pubblica le stime su condanne ed esecuzioni in Cina dove la pena di morte è considerata segreto di stato. Amnesty International rinnova quindi la sfida alle autorità cinesi e chiede di pubblicare il numero di persone condannate e messe a morte ogni anno, così da confermare le dichiarazioni delle autorità che sostengono sia avvenuta una riduzione significativa dell'uso della pena capitale nel paese"
Ma c'è una notizia buona nel rapporto nel 2011, tuttavia, il trend verso l'abolizione della pena di morte nel mondo ha visto passi concreti e significativi.
"La vasta maggioranza dei paesi ha deciso di non usare più la pena di morte. Il nostro messaggio ai leader di quella isolata minoranza di paesi che continua a ricorrervi è chiaro: non siete al passo col resto del mondo su questo argomento ed è tempo che prendiate iniziative per porre fine alla più crudele, disumana e degradante delle punizioni"
ha dichiarato Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International.
Alcuni punti significativi del rapporto:
USA
Gli Stati Uniti d'America sono stati ancora una volta l'unico paese a eseguire condanne a morte. Le esecuzioni sono state 43, in 13 dei 34 stati che mantengono la pena capitale. Rispetto al 2001, le esecuzioni sono diminuite di un terzo e le nuove condanne a morte (78 nel 2011), della metà.
Iran
Per quanto riguarda l'Iran, Amnesty International ha ricevuto informazioni affidabili secondo le quali vi è stato un gran numero di esecuzioni non confermate o persino segrete, che raddoppierebbe il dato di quelle ufficialmente riconosciute. In violazione del diritto internazionale, in Iran sono stati messi a morte almeno tre prigionieri condannati per reati commessi quando avevano meno di 18 anni. Una quarta, non confermata, esecuzione di un minorenne al momento del reato sarebbe avvenuta sempre in Iran e ancora un'altra avrebbe avuto luogo in Arabia Saudita.
Asia e Pacifico
Segnali positivi, che mettono in discussione la legittimità della pena capitale, sono emersi con evidenza in tutta la regione. Senza contare le migliaia di esecuzioni che si ritiene abbiano avuto luogo in Cina, sono state eseguite almeno 51 condanne a morte in sette paesi e sono state emesse almeno 833 nuove sentenze capitali in 18 paesi asiatici. La zona del Pacifico è risultata libera dalla pena di morte, con l'eccezione di cinque condanne a morte emesse in Papua Nuova Guinea. Non vi sono state esecuzioni a Singapore e, per la prima volta dopo 19 anni, in Giappone. 
Medio Oriente e Africa del Nord
Almeno 558 esecuzioni potrebbero aver avuto luogo in otto paesi e almeno 750 nuove condanne a morte sarebbero state inflitte in 15 paesi. La continua violenza in corso in paesi quali Siria, Libia e Yemen ha reso particolarmente difficile la raccolta di informazioni adeguate sull'uso della pena capitale. Non sono state rese disponibili informazioni sulle esecuzioni in Libia, dove non si ha notizia di nuove condanne a morte, al posto delle quali è stato fatto ricorso a esecuzioni extragiudiziali, torture e detenzioni arbitrarie. Quattro paesi (Arabia Saudita, Iran, Iraq e Yemen) hanno totalizzato il 99% di tutte le esecuzioni registrate da Amnesty International nella regione. In Algeria, Giordania, Kuwait, Libano, Marocco/Sahara occidentale e Qatar sono state emesse nuove sentenze capitali ma le autorità hanno continuato a non effettuare esecuzioni.
Europa e Asia Centrale
La Bielorussia è stata l'unica nazione dell'Europa e dello spazio ex sovietico e, a parte gli Stati Uniti d'America, l'unico paese membro dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, a eseguire condanne a morte, due nel 2011.

Liam Stacey insultò Muamba su Twitter: 56 giorni di carcere


Liam Stacey insultò Muamba su Twitter: 56 giorni di carcere 







Liam Stacey è uno studente universitario di biologia di 21 anni e ha subito una condanna che prevede 56 giorni di carcere. È stato ritenuto colpevole di aver pubblicato su Twitter alcuni insulti razzisti contro Fabrice Muamba, il calciatore del Bolton che lo scorso 17 marzo ha avuto un malore in campo ed è tuttora ricoverato in gravi condizioni.
Su Twitter Stacey aveva scritto anche di augurarsi la morte del giocatore e dopo aveva provato a cancellare la sua pagina per evitare il processo. Poi in tribunale, ha provato a difendersi dicendo che il suo account era stato hackerato, ma la corte non gli ha creduto anche per alcune dichiarazioni ad amici in cui ammetteva di aver scritto “cose su Muamba”. Stacey ha dichiarato di “non essere razzista” e di avere “amici di diverse culture”.
Durante la lettura della sentenza della corte di Swansea, in Galles, Stacey si è messo a piangere, mentre il giudice John Charles ha definito “aberranti” i suoi commenti su Muamba:
"È stato un atto di discriminazione razziale via social network, conseguenza di un vile e orrendo commento su un giovane calciatore che stava lottando per la propria vita. Tutto questo mentre il mondo intero stava pregando perché si salvasse"
Il giudice, tuttavia, ha riconosciuto che Stacey ha commesso il reato “mentre era ubriaco” e che “si è pentito subito”. La bravata costerà cara a Stacey: l’Università di Swansea lo ha sospeso dagli studi. Sul Corsera si legge che alla fine Stacey non finirà dietro le sbarre, alla fine, ma dovrà tenersi lontano dai social per un bel po'.
Le condizioni di Muamba sono intanto gravi, ma stabili. Il giocatore è ricoverato al London Chest Hospital e rimarrà ancora per qualche tempo sotto la stretta sorveglianza dello staff medico dell’ospedale. I giocatori e gli stadi di tutto il mondo lo ricordano e gli augurano la guarigione.

Fornero,scoperti gli autogol sui contratti e flessibilita'


DDL LAVORO/ Contratti e flessibilità, scoperti gli “autogol” della Fornero

giovedì 29 marzo 2012
Nel disegno di legge sulla riforma del lavoro approvato lo scorso 23 marzo dal Consiglio dei ministri è esplicito l’obiettivo di favorire una distribuzione più equa delle tutele dell’impiego, contenendo i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni, limitandone l’uso improprio e distorsivo e, quindi, la precarietà che ne deriva riconducendo questi ultimi all’uso proprio e previsto dal legislatore. La riforma si propone inoltre di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando al contempo la coerenza tra flessibilità del lavoro e istituti assicurativi.
Entrando nel merito, si è fatta tanta bagarre sui licenziamenti e sull’articolo 18, ma molti più rischi per il mercato del lavoro e per la perdita di occupazione potrebbero giungere, non troppo disattesi, da questo giro di vite sui rapporti di lavoro flessibili; giro di vite che solo parzialmente si riferisce alla regolamentazione effettiva dei rapporti atipici, esplicando al contrario effetti sostanziali con riferimento al regime contributivo che aumenterà considerevolmente il costo del lavoro per le imprese che abbiano necessità di utilizzare tali tipologie contrattuali.
Si pensi per esempio alle modifiche che si prospettano con riferimento al contratto di lavoro a termine, nell’ambito del quale desta qualche perplessità il fatto che un rapporto di lavoro subordinato, soggetto alla disciplina applicata ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e per il quale si vede applicabile il medesimo contratto collettivo nazionale di lavoro, debba essere applicato un incremento contributivo senza che ne derivi alcuna controprestazione migliorativa per gli interessati.
Tale previsione sembra, insomma, operare esclusivamente quale deterrente alla stipula di tali contratti di lavoro e, seppur situata all’interno di un piano più esteso che vede per esempio la possibilità per il datore di lavoro di attivare il primo rapporto a termine senza necessità di causale, sembra orientata a gravare (di costi aggiuntivi) le imprese nella gestione organizzativa flessibile che i mercati ci impongono. Ciò, senza contare che, anche in riferimento alla disciplina regolatoria del rapporto, non poche criticità presenterà, dal punto di vista sostanziale, la computazione nel periodo massimo di durata del rapporto a termine (36 mesi) degli eventuali rapporti di lavoro in somministrazione che il lavoratore abbia già intrattenuto con l’impresa.
Altrettanto possiamo dire dell’incremento contributivo a carico dei co.co.pro., che vedranno da qui al 2018 aumentare di 6 punti percentuali il loro prelievo previdenziale, senza ricevere in cambio alcun beneficio sul piano della prestazione. Ciò senza contare che, anche per tale tipologia contrattuale sono in arrivo presunzioni onerose per il datore di lavoro che si vedrà considerati quali rapporti subordinati collaborazioni per attività analoghe a quelle svolte dai dipendenti, senza che sia considerata l’eventuale (ed evidentemente essenziale!) modalità di svolgimento del rapporto, prescindendo dal principio, storicamente enunciato dalla giurisprudenza, secondo il quale qualsiasi attività lavorativa può essere svolta in forma autonoma o subordinata. Ciò che le imprese temono, anche in tal caso, sono i maggiori costi, anche in termini di contenzioso, che possono gravare sulle stesse ingessando ulteriormente un mercato già bloccato
Curiosa ci sembra anche l’idea che un lavoratore conpartita Iva che riceva il suo reddito in misura superiore al 75% da un committente, pur avendo altre committenze, e lavorando per questo per un periodo superiore a 6 mesi, si trovi soggetto a una presunzione (seppur relativa) di coordinamento e continuità del rapporto con la conseguenza diretta, ammessa dallo stesso Governo, del (quasi automatico) riconoscimento di subordinazione. Anche le altre tipologie flessibili quali il contratto dilavoro a tempo parziale e il lavoro intermittente, pur se non modificate sostanzialmente, vedranno modificati gli oneri comunicazionali che il datore di lavoro dovrà porre in essere in caso di utilizzo di clausole flessibili o elastiche; ovvero in caso di chiamata. Tali previsioni, a una prima lettura, sembrano essere positive e, senza appesantire il costo del lavoro o gli eccessivi oneri amministrativi, potranno incentivare l’uso lecito dei due contratti.
Utile, sebbene non rivoluzionaria, l’idea di investire, a favore dell’occupazione giovanile, sul contratto di apprendistato, che viene riproposto come il canale privilegiato di accesso al mondo del lavoro. Il disegno di legge proposto dal Governo cerca di incentivare le stabilizzazioni contrattuali degli apprendisti, recependo l’orientamento già diffuso in contrattazione collettiva, prevedendo la necessità, prima di procedere a nuove assunzioni in apprendistato, di aver stabilizzato almeno il 50% degli apprendisti assunti nell’ultimo triennio; con l’esclusione dei rapporti cessati durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa.
È inoltre previsto l’innalzamento del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati presenti in azienda, dall’attuale 1/1 a 3/2. Sarà reintrodotta una durata minima del periodo di apprendistato pari a sei mesi, ferma restando la possibilità di durate inferiori per attività stagionali. Fino a quando non sarà operativo il libretto formativo, disciplinato nella riforma Biagi (art. 2) e da allora sostanzialmente rimasto lettera morta, la registrazione della formazione è sostituita da apposita dichiarazione del datore di lavoro.
Anche in tal senso, tuttavia, a poco serviranno le previsioni teoriche se non si incoraggerà il mutamento culturale del mercato nei confronti di tale tipologia, da sempre virtuosa sulla carta, ma troppo spesso impropriamente utilizzata.

BANCHE & CALCIO


BANCHE & CALCIO/ Real e Barcellona rischiano di far fallire la Spagna

giovedì 29 marzo 2012
È tornata la Champions League e con essa le due squadre spagnole, Real Madrid (vittorioso martedì per 3- 0 sul campo del sorprendente Apoel di Nicosia) e Barcellona (nel momento in cui chiudo e spedisco l’articolo non è ancora scesa in campo contro il Milan), approdate ai quarti di finale e, stando al giudizio di molti, destinate a dar vita a una finale tutta iberica a Monaco il prossimo 19 maggio. Ma proprio dalla capitale della Baviera, la scorsa settimana, sono giunte parole poco lusinghiere per il calcio spagnolo: «Per me è il colmo, è una cosa impensabile. La Germania ha dato centinaia di milioni di euro alla Spagna per uscire dalla crisi e poi i club non pagano i loro debiti. Non si può», questo il duro j’accuse del presidente del Bayern Monaco, Uli Hoeness.
Motivo di tanta rabbia, i dati resi noti dal governo iberico, che ha quantificato in 752 milioni di euro il debito delle squadre di Liga, Primera e Segunda Division verso lo Stato, un aumento di 150 milioni di euro dal 2008 a oggi. E se il Barcellona può sorridere pensando ai suoi 374 milioni di euro di debito, avendo un fatturato di oltre 450 milioni, lo stesso non si può dire né del Real Madrid, né tantomeno per tutti gli altri club della Liga, due dei quali già in amministrazione controllata. Il perché è presto detto: le squadre spagnole, tutte, sono legate mani e piedi al sistema bancario e questo, a sua volta, non solo è esposto per 400 miliardi di euro al sempre più devastato settore del real estate, ma dipende per sopravvivere dal denaro della Bce e, soprattutto, non ha più collaterale esigibile per ottenere finanziamenti.
Insomma, non è peregrino pensare che nel 2013 la Liga si comporrà unicamente di due squadre, né tantomeno pensare che campioni come Messi e Cristiano Ronaldo cercheranno altri lidi per il semplice fatto che i loro ingaggi faraonici non potranno più essere sopportati dai loro club, destinati a vedere i loro assets pignorati. Qualche mese fa era emersa la notizia che il gruppo bancario Bankia intendeva utilizzare proprio Cristiano Ronaldo e Kakà come garanzia presso la Bce per ottenere in prestito denaro necessario a finanziare il fondo di investimento Madrid Activos Corporativos V: grazie a quest’operazione l’istituto iberico era intenzionato a emettere obbligazioni pari a circa 773 milioni di euro per sostenere alcune aziende nazionali, ma anche il Real Madrid, che detiene i cartellini dei due campioni e le società di costruzioni del suo presidente, Florentino Perez. Nei fatti, quindi, la Bce potrebbe esercitare il suo credito pignorando le due stelle delle “merengues”, in caso Bankia divenisse insolvente e successivamente il Real Madrid, debitore verso la banca, non ripagasse il suo debito, assicurato a oggi dagli introiti generati dalla pubblicità e dai diritti tv.
Cristiano Ronaldo e Kakà sono stati acquistati nell’estate 2009 per un totale di 158 milioni di euro, grazie a un prestito proprio di Bankia e, nonostante Florentino Perez assicurò che i soldi non erano un problema grazie agli introiti super dei “blancos”, questo si è rivelato non del tutto esatto. Ben 76,5 milioni - cioè poco meno della metà del capitale totale investito per l’acquisto dei due calciatori - era stato fornito proprio da Bankia. In pegno per il prestito, l’istituto di credito aveva trattenuto parte degli introiti provenienti dai diritti tv del club madridista. Per garantire la trasparenza dell’operazione, Bankia informò l’autorità di vigilanza spagnola dei dettagli: il tasso di interesse pagato dal Real è pari all’Euribor a sei mesi più uno spread compreso tra l’1,5% e il 2,5% (condizioni che le famiglie e le imprese spagnole si sognano) e le rate di interesse sono semestrali, mentre il capitale viene restituito in tre tranche, il 3 luglio del 2012, 2013 e 2014.
Tra quattro mesi, insomma, una grande scadenza attende il Real Madrid, nel pieno di un periodo che vede la Spagna e le sue banche al centro di un’attenzione spasmodica da parte dei mercati. E lo stato di salute di Bankia è tutt’altro che confortante. Visto che fino al 21 marzo scorso, la Bce accettava come collaterale per i suoi prestiti qualsiasi genere di assets, l’istituto che tiene in ostaggio il Real, attraverso la sua controllata Banco Financiero y de Ahorros SA, ha emesso 15 miliardi di bonds con garanzia governativa spagnola e li ha utilizzati per ottenere denaro dall’Eurotower, acquistando essa stessa i bond che aveva emesso. Insomma, il gioco delle tre carte, anche se in ambito finanziario questa operazione al nome più esotico di “self-help transaction”. Ma non basta. Le banche spagnole sono esposte per circa 400 miliardi al settore immobiliare, la cui crisi continua ad acuirsi e il 2 febbraio scorso il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, ha detto chiaro e tondo che le banche devono cominciare a scontare le perdite su quei prestiti per almeno 175 miliardi di euro, piuttosto che continuare a rifinanziarli come stanno facendo pur di mantenere “puliti” i loro bilanci. E proprio per questa pressione, gli investitori oggi chiedono un spread di rendimento di 753 punti base per detenere un bond di Bankia SA con scadenza 2017 rispetto al Bund pari durata: quando quelle obbligazioni vennero messe sul mercato nel 2007, lo spread richiesto era di 46 punti base.
Insomma, si traballa e non poco, visto che il Real è esposto verso Bankia su due fronti: diretto e indiretto, ovvero attraverso le società di costruzioni di Florentino Perez, nel pieno della crisi del settore. E c’è di più, in questo caso a livello generale. Se infatti fino a ieri in Spagna le squadre di calcio in difficoltà sono state salvate anche col denaro pubblico, d’ora in poi questo non sarà più possibile. Il perché è presto detto: il debito pubblico iberico, infatti, in un anno è salito dal 61,2% sul Pil al 68,5%, toccando la quota di 732 miliardi, cui sommare i 140,1 miliardi di euro di debito regionale. Ma anche in questo caso, si tratta di trucchi.
A fare le pulci ai veri numeri di Madrid ci ha pensato infatti la Phoenix Capital Research, secondo cui ai dati ufficiali (732 miliardi di debito pubblico, 68,5% del Pil) bisogna sommare il debito del settore privato pari al 227% del Pil e un’esposizione alla leva delle banche iberiche di 19 a 1. Eurostat, nel suo report del 29 febbraio scorso, faceva poi notare che le garanzie sovrane totali della Spagna alla voce “altro debito” sono pari al 7,5% del Pil, circa 72,2 miliardi euro di debito non contabilizzato. Quindi, facendo due conti della serva: debito sovrano ammesso 732 miliardi di euro, debito regionale ammesso 183 miliardi, debito bancario garantito 103 miliardi e altro debito sovrano garantito 72 miliardi. Totale, 1.090 miliardi di euro, ovvero una ratio debito/Pil reale del 113,2%.
Ma la Spagna paga anche altro. Uno studio di Danske Bank sottolinea, infatti, come nell’ultimo trimestre del 2011 il calo del prezzi degli immobili in Spagna è stato del 4,2%, il terzo peggior risultato di sempre anno su anno, il tasso di decrescita più veloce dal settembre 2009 e pari, a livello di impatto sul settore real estate, a un calo del 10% del Pil, visto che i prezzi sono tornati al livello del marzo 2005. Peccato che, come già detto, le già traballanti banche spagnole detengano più di 400 miliardi di euro in prestiti al settore delle costruzioni e del real estate, tutti garantiti da collaterale che sta perdendo valore a velocità record: di più, il numero di prestiti non performing - ovvero a forte rischio di non essere onorati - sta salendo in maniera esponenziale, avvicinandosi alla cifra monstre di 140 miliardi di euro.
Dunque, lo Stato non solo non può più salvare il calcio spagnolo, ma nemmeno garantire più i bonds autoemessi dalle banche - che stanno salvando il calcio a colpi di prestiti e fideiussioni - per ottenere soldi dalla Bce, visto che così facendo aumenta la voce “altro debito” che ingrossa il debito pubblico totale iberico. E con le banche senza altro collaterale eligibile in casa per continuare a mungere la mammella della Bce (il debito degli istituti iberici nei confronti di Francoforte è ulteriormente aggravato del 14% nel mese di febbraio, toccando il nuovo record di 152,4 miliardi), le stesse rischiano di vedere bloccata la loro operatività e trovarsi costrette a chiedere rientri immediati ai debitori o tagliare le linee di credito. A quel punto, se si tratterà di decidere tra il destino di Messi e quello del Paese in balia dei mercati, la favola dopata del calcio spagnolo conoscerà la parola fine, esattamente come il “miracolo” di Zapatero. E non sarà un happy ending.