Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali
Il
fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni
‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un
periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e
caratteristiche. Non c’è mass media,
partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che
con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase
storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento.
«Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente –
che imprese, partiti, mass media
e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti».
Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il
passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra
Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli
altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella
occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da
quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire
le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
«La crisi
finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti
iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che
però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro»,
scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste,
segnalano una interdipendenza stretta fra crisi
economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di
gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha
mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi
insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo
disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che
si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità
incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già
producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock
da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si
impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti,
politologi».
Almeno
per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra
determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei
governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre
più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica
cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa
guadagnare tempo ma non cura la crisi),
quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni
americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno
che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a
un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non
frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come
invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo
occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere
mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono
schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie
socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che
rifiutano costantemente di mettere in discussione».
Dai
governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più
alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso
che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini,
scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative,
al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più
la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che
giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e
identità culturale, paura della crisi
che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della
concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle
nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che
programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei
paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del
terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il
chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir
nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui
si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però
vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso
alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile
vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia
liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano
l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre
correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».
Per
il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della
socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il
resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media,
il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà,
persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per
imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande
maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose,
rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi,
i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole
per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi
in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli
studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene
solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa
afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai
tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media
anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen
Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo
stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere
è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E
paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non
raccontino quello che sta davvero succedendo.
Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi
anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di
secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali
tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media,
partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che
con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase
storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento.
«Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente –
che imprese, partiti, mass media
e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti».
Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il
passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra
Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli
altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella
occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da
quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire
le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
«La crisi
finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti
iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che
però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro»,
scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi
economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di
gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha
mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi
insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo
disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che
si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità
incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già
producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock
da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si
impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti,
politologi».
Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock
sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei
governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre
più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica
cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa
guadagnare tempo ma non cura la crisi),
quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni
americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno
che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a
un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non
frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come
invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo
occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se
le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel
sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».
Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza
più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato
promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I
cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste
aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono
sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei
diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di
lavoro e identità culturale, paura della crisi
che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della
concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle
nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che
programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei
paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del
terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il
chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir
nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui
si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però
vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso
alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile
vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia
liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano
l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre
correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».
Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni
della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico:
tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media,
il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà,
persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per
imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande
maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose,
rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi,
i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole
per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi
in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli
studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene
solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa
afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai
tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media
anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen
Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo
stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere
è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E
paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non
raccontino quello che sta davvero succedendo.