L’attentato di Boston, i bombardamenti israeliani su Damasco, la finta
crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord: sembrano eventi del tutto scollegati tra loro, ma purtroppo non lo sono. Al contrario, sembrano tutti segnali del convergere verso una “resa dei conti” su scala planetaria, tra
Usa e Cina. Riletti in controluce, gli ultimi eventi parlano chiaro: a Boston si fanno prove generali per sospendere la
democrazia sostituendola con lo stato d’assedio, utilizzando la paura. In Siria, l’intervento militare di Israele rischia di far precipitare la
crisi verso un conflitto epocale con l’Iran. E la sfida ridicola inscenata da Pyongyang serve solo a consentire al Pentagono di traslocare armamenti in prossimità dei confini cinesi. E il presidente Obama? Non pervenuto. E’ lui il cuore del problema: «Adesso – dice Giulietto Chiesa – si vede in trasparenza che l’“uomo nuovo” della
politica statunitense ha la stessa libertà di manovra di un fringuello in gabbia».
Mai seriamente monitorata e analizzata dai
media, la situazione illumina un caos pericolosamente simile a quello che preparò la Seconda
Guerra Mondiale, scrive Chiesa su “
La Voce delle Voci”. «Gli Stati Uniti sembrano una barca alle deriva. Con un presidente che, apparentemente, essendo più libero di agire nel suo secondo mandato, era stato dato come all’offensiva su molti fronti. E invece non solo non è affatto all’offensiva, ma sta subendo un’offensiva interna che appare oscura, ma che ha le sembianze neocon del suo predecessore». Povero Obama? Lo stesso Chiesa l’aveva definito «la più straordinaria e ben riuscita operazione di maquillage di tutta la storia». Conclusione per niente rassicurante: se il presidente si rivela un peso piuma, sono altri i super-poteri che manovrano al posto suo, e non certo per il bene di tutti. Esempio lampante, la Corea del Nord. Un paese che gli
Usa potrebbero cancellare all’istante. Eppure: «Il giovanotto di Pyongyang si mette all’improvviso a strillare e minacciare, apparentemente senza motivo. Tutti i
media si mettono a starnazzare anche loro come galline impazzite e, per una decina di giorni, il mondo intero appare sull’orlo di uno scontro nucleare tra il gigante americano e il nano nordcoreano».
Evidentemente, aggiunge Chiesa, non c’era nulla di più serio di un accurato gioco delle parti, nel quale la parte più potente faceva finta di sentirsi minacciata, sapendo perfettamente che la minaccia di Kim era semplicemente inesistente. Il vero scopo era diverso: «Consentire al Pentagono di mettere a punto gli orologi, e portare le armi e le più raffinate tecnologie americane negli immediati pressi di Pechino». Ma attenzione, il vero problema è politico: la
crisicon la Corea del Nord, osserva Giulietto Chiesa, non è stata aperta né da Obama, né dal suo ministro degli esteri. «Si potrebbe pensare che ci sia un legame diretto, ben più solido, tra Kim Yong Un e il Pentagono, o la Cia, o con tutti e due». Ecco il punto: Obama è stato costretto ad assecondare gli eventi, decisi all’interno di stanze più potenti e non controllabili. «Fatto decantare il polverone, John Kerry si è affacciato sull’uscio e ha detto che troppo allarme era esagerato e contro-producente.
Fine della commedia: si erano messi d’accordo per ricompensare il “dittatore pazzo”. Resta solo da chiarire chi ha acceso il fiammifero».
L’incendiario non è Obama, «i cui capelli stanno ingrigendo a velocità supersonica, date le circostanze». Al presidente democratico «è stato affidato il compito, forse per lui ingrato, di portare a compimento la profezia dei neocon», cioè i potentissimi manovratori della destra americana che «presero il
potere, con un vero e proprio colpo di stato, nell’anno 2000, portando alla presidenza George W. Bush», tecnicamente sconfitto da Al Gore. Scrissero, nel famoso “Project for The New American Century”, che la Cina sarebbe divenuta il pericolo principale per la sicurezza degli Stati Uniti nel 2017. Previsione ripetuta nei documenti successivi, concernenti la sicurezza nazionale. «Era il 1998. Forse non era una profezia, sebbene si trattasse di eventi del futuro. Forse avevano fatto i loro calcoli e avevano pensato con quale Cina avrebbero avuto a che fare, tenendo conto dei tassi di crescita del suo Pil, dei suoi armamenti, della sua
finanza, della sua tecnologia, della sua popolazione. Se non si tengono sempre presenti quelle previsioni, difficilmente di potrà capire cosa sta succedendo in America e fuori, mentre nel frattempo
l’Occidente intero è entrato nella più grave
crisidella sua intera vicenda imperiale».
Il secondo problema per Obama si chiama Siria. «Il ruolo che avrebbe voluto recitare era quello del moderato e prudente. Aveva provato la parte nella vicenda della
guerra contro la Libia di Gheddafi, facendola passare –
mediaoccidentali compiacenti – come una
guerra anglo-francese. In realtà se non ci fossero stati il Pentagono e la Cia quella
guerra non sarebbe stata nemmeno tecnicamente possibile». Dunque Obama ha provato a replicare stesso film a Damasco, ma c’è riuscito solo fino a gennaio di quest’anno. Basso profilo, col via libera accordato ad Arabia Saudita, Qatar e Turchia, per scatenare contro Damasco un intero esercito di almeno 25.000 mercenari, senza contare le sanzioni per strangolare il regime di Bashar Assad e il ponte aereo che da mesi, con centinaia di velivoli, rifornisce di armi e munizioni il “Free Syrian Army”. «Gli Stati Uniti non sono mai stati in disparte in questa
guerra: non una sola pallottola è stata sparata senza il
consenso di Washington», ormai incline a fornire armi “sempre più letali” ai ribelli mercenari, mescolati con i residuati di Al-Qaeda.
«Obama voleva una tattica di logoramento, in modo che Bashar cadesse da solo, come una pera matura, senza costringere l’America a sporcarsi troppo le mani». Ma Assad è riuscito a resistere, e – fatto clamorosamente pericoloso – è venuta crescendo «la fregola di Israele, che ha bombardato direttamente il territorio siriano e perfino Damasco». Ecco il problema: «E’ stato Israele a inventare le armi chimiche siriane, e probabilmente è stato qualche commando israeliano a piazzare qualche bomba chimica, o a consegnarle ai tagliagole del Free Syrian Army». Retroscena: Tel Aviv ha fretta, perché la caduta di Damasco è preliminare all’attacco contro Teheran. «E qui Obama ha di nuovo fatto la figura del vaso di coccio schiacciato dal vaso di ferro Netanyhau», sostiene Chiesa. «Anche qui l’impressione è che il presidente americano conti meno dei suoi militari o dei suoi servizi segreti, che vanno a trattare direttamente con Israele e si muovono con grande disinvoltura per conto proprio». Così, una volta “scoperte” le armi chimiche della Siria, Obama ha dovuto recitare la parte di colui che è costretto, suo malgrado, a minacciare di ricorrere alla forza in modo scoperto, usando «tutti i mezzi». Armi chimiche contro la popolazione? «Non resta dunque che aspettare che il Mossad e la Cia forniscano le prove».
Ci vorrà qualche cautela: per fornire le “prove” contro Assad si dovrebbe ammettere che il Mossad sta agendo sul territorio siriano, insieme ai servizi segreti di Turchia, Francia e Gran Bretagna e, naturalmente, alla Cia. «Ma è solo questione di tempo. E a quel punto Barack Obama darà l’ordine che forse avrebbe preferito non dare». Ma i segnali di sconfitta del presidente americano sono ormai quotidiani. Come lo scacco subito al Senato il giorno stesso delle bombe di Boston: bocciata la sua proposta di limitazione alla vendita di armi ai civili. Sempre quel giorno, le bombe «subito attribuite a un “commando ceceno” composto da due “terroristi”, tanto improbabili quanto le loro origini etniche», hanno permesso all’Fbi, «con modesto dispendio di morti, di paralizzare la città per una intera settimana, chiudendo in casa tutti gli abitanti e terrorizzando l’America intera». Prove
tecniche di stato d’assedio: «Perché? Cosa si sta preparando?». Giulietto Chiesa cita una famosa “profezia” di Bertolt Brecht: «Se il fascismo arriverà in America avrà il volto della
democrazia».
Chi organizza questi esperimenti per terrorizzare la popolazione? «Non lo sapremo mai. Resta da indovinare se il presidente in carica è al corrente, ovvero se ci sono forze che agiscono anche indipendentemente dal presidente, oltre lui e sopra di lui, e che lui è costretto ad avallare, a posteriori». Il clamore di Boston è stato anche provvidenziale: ha oscurato la prima pagina del “New York Times”, che il 16 aprile sparava la notizia del drammatico esito della commissione d’inchiesta del Congresso: gli Stati Uniti hanno praticato sistematicamente la tortura a partire dall’11 settembre del 2001. Il presidente e i suoi massimi consiglieri – recita la sentenza – erano al corrente del fatto che «pene e tormenti venivano inflitti su diversi detenuti in nostra custodia». Una bomba storica, contro gli ultimi tre presidenti: il democratico Bill Clinton, che preparò il terreno giuridico per le mostruosità che avvennero “dopo”, per includere i due mandati di George Bush Jr, fino ai due mandati non ancora conclusi di Barack Obama, coinvolto nella vicenda perché coprì le responsabilità del
suo predecessore, tentando di bloccare l’inchiesta che lo riguardava nel 2009.
Nessuno sconto per Obama, «noto per non avere chiuso Guantanamo Bay e per avere fatto ammazzare più di 4000 “terroristi” mediante droni che hanno agito fuori dal territorio americano, cioè in aperta violazione di tutte le leggi internazionali». La prima inchiesta contro Bush fu bloccata dall’attuale capo della Casa Bianca, che però non è riuscito a fermare la denuncia bipartisan del repubblicano Asa Hutchinson e del democratico James Jones. «Bomba chiama bomba», conclude Giulietto Chiesa: «Se ci furono torture sui “nemici combattenti”, tutte le loro confessioni sono inutilizzabili (anche secondo la legge americana). E, dunque, anche le conclusioni dell’inchiesta ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono sono nulle. I morti e la polvere di Boston hanno coperto “l’incriminazione” di Obama. Nessuno, fuori dagli Stati Uniti, ha mostrato di accorgersene. Siamo tutti troppo distratti?». E mentre Obama affonda, costretto a rincorrere gli eventi, qualcuno piazza bombe, da Boston a Damasco. E intanto mette a punto batterie di missili lungo le frontiere della Cina.