All’inarrestabile rafforzamento dell’intesa tra Germania e Francia l’Italia risponde avvicinandosi alla Gran Bretagna. Sembrano notizie dei primi anni del secolo scorso. Invece ahimè sono dell’altro giorno. Al di là dei suoi contenuti, dignitosi ma non certo di grande respiro, è questo il significato politico della lettera ai presidenti del Consiglio Europeo e della Commissione Europea firmata lunedì scorso dai primi ministri di Gran Bretagna, Italia, Spagna, Polonia, Paesi Bassi, Svezia, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia e Estonia. Diversamente da come i giornali e telegiornali schierati al favore del governo Monti l’hanno raccontata, non si tratta di una mossa anglo-italiana quanto piuttosto di un’iniziativa dalla Gran Bretagna per rimettersi in gioco sulla ribalta europea cui semplicemente l’Italia si è accodata per prima. Siamo tornati insomma alla Bell’Époque, il che non è di buon auspicio tanto più considerando che i fuochi d’artificio di quella stagione sin troppo mitizzata aprirono allegramente la strada alle cannonate della Prima guerra mondiale.
A parte gli ultimi quattro Paesi qui più sopra elencati, le cui economie sommate tutte insieme pesano meno di quella della Lombardia, e a parte ovviamente la Germania e la Francia, tra i dodici firmatari della lettera, intitolata “Piano per la crescita in Europa”, ci sono i capi di governo di tutti i più importanti membri nord-atlantici e baltici dell’Unione Europea (tale è anche la Spagna, malgrado la Catalogna). E poi ci siamo noi, ma a fare che cosa? Tale scelta non tiene affatto conto del nostro strutturale interesse di potenza regionale mediterranea. E’ piuttosto un ennesimo riflesso del radicato complesso d’inferiorità del nostroestablishment che da sempre non stima l’Italia, dice a ogni piè sospinto che non è un “paese normale” e sogna che sia dove non è. In realtà, fermo restando che il guancia-a-guancia tra Germania e Francia non ci sta bene, non ci sta nemmeno bene il ruolo di… mitragliere di coda della vera o presunta super-fortezza volante nordatlantica che la Gran Bretagna sta ora cercando di far decollare dentro l’Unione Europea.
Come già accadeva attorno al ‘900, se l’Italia guarda solo a nord delle Alpi non riesce mai ad andare oltre un ruolo subalterno nel quadro di bracci di ferro che non la riguardano. Adesso però laddove noi siamo c’è qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a cento anni fa: il Mediterraneo si sta riaprendo, sta rinascendo; gli Stati Uniti, ultima potenza nordatlantica che ancora lo presidiava, se ne stanno lentamente ritirando.
E’ svanito l’Impero sovietico, ultimo erede dell’Impero Ottomano, lasciando finalmente libero il Sudest europeo di ri-orientarsi verso il Levante, di guardare di nuovo verso i grandi itinerari euro-asiatici dell’antica Via della Seta. E l’Italia, che è il Paese-chiave di tale possibile nuova grande frontiera di sviluppo per sé e tutta l’Europa sud-orientale, va ancora a sciacquare – diremo parafrasando liberamente il Manzoni – i panni nel Tamigi. Sarebbe ora di smetterla, il che beninteso non significa voltare le spalle all’Unione Europea, ma starci dentro una buona volta non con il cappello in mano.
Sarebbe ora di rendersi conto che noi pesiamo col nostro giusto peso sulla scena europea non nella misura in cui il Cameron di turno ci fa il ganascino, ma nella misura in cui sviluppiamo positive relazioni con il Mediterraneo, con il Levante, e attraverso di essi con l’Estremo Oriente. Per questo però aver studiato negli Usa può essere utile ma non basta.