L’azione legale avviata a New York dallo studio legale Lieff Cabraser Heimann & Bernstein accusa il prospetto informativo diffuso, stilato con «negligenza e nel quale non figuravano dati chiave sulle attività e le prospettive». Un’altra class action avviata in California dallo studio Glancy Binkow & Goldberg punta il dito contro alcuni manager di Facebook, Morgan Stanley, Goldman Sachs e JP Morgan per aver comunicato solo a una piccola cerchia di clienti e non al pubblico la revisione al ribasso delle stime da parte delle stesse banche. La rivolta degli investitori contro i big! Evviva, era ora!
No, cari lettori, questa volta non ci sto: non esiste un diritto all’ignoranza, con buona pace di Gaetano Salvemini. Soprattutto se si parla di investimento, ovvero di denaro che viene utilizzato per scommettere su qualcosa, sia esso un titolo, un’obbligazione, un derivato o quant’altro. È vero, dopo il filing dell’azienda per la quotazione, Facebook, attraverso un suo manager, ha avvertito 21 grandi banche di Wall Street dei pessimi risultati previsti per il secondo trimestre, invitandole a tagliare le stime. È altrettanto vero che le banche d’affari in questione si sono ben guardate dal rendere nota la cosa, limitandosi ad avvertire solo i clienti migliori e i grandi investitori. È altresì vero che Morgan Stanley ha palesato la sua conoscenza delle reali stime lanciandosi in un’operazione da difesa della linea Maginot venerdì scorso, quando ha mosso ogni pedina in suo possesso per far mantenere al titolo quota 38 dollari per azione e non fare una figuraccia con i clienti nel primo giorno d quotazione. Tutto vero, non lo nego.
Cosa è successo però davvero a Facebook, il cui sbarco a Wall Street è conciso con un turbine di polemiche per quella che in molti dipingono come la più classica delle operazioni di “pump and dump” da parte di Goldman Sachs, capace di far lievitare il prezzo del titolo ancora “not public”, salvo scaricare le azioni prima dell’ipo? Insomma, abbiamo davvero a che fare con una serie di errori e pratiche al limite del legale che hanno trasformato il “big issue” borsistico di quest’anno in un flop oppure tutti sapevano come stavano le cose, ma hanno voluto credere alla favola bella del denaro facile, tramutandosi in avidi capitalisti esattamente come i banchieri che si vorrebbe ora trascinare in tribunale?
Per amore di verità, è da almeno un anno che si stavano gettando le basi di questo fallimento, esattamente da quando la Sec aveva acceso il faro sul livello di crescita esponenziale del trading delle azioni di nomi come Facebook, Twitter, LinkedIn e Zynga. Aziende come SharesPost e SecondMarket, infatti, hanno offerto piattaforme di trading private per questi titoli “not public” e la volontà di molti dipendenti delle aziende di monetizzare questa nuova gallina dalle uova d’oro garantiva un flow azionario pressoché infinito. E già oltre un anno fa, il fatto che il numero di azionisti di Facebook stesse salendo esponenzialmente, attivò il meccanismo automatico del mercato Usa, in base al quale quando gli stokeholders salgono sopra quota 500, l’azienda è obbligata a rendere pubblici bilanci e dettagli finanziari.
Il giochino, per mesi, è stato semplice: molti azionisti privati compravano azioni nel mercato secondario in gruppi, facendo abbassare il numero di stakeholders, ma il giorno in cui la Sec fece balenare l’ipotesi di contare come azionisti singoli ogni partecipante a queste joint ventures, Mark Zuckerberg decise di accelerare la quotazione del titolo. Questo anche perché broker come SharesPost e SecondMarket aiutarono proprietari di azioni a incontrare on line potenziali acquirenti e negoziare il prezzo dei titoli in transazioni private: il problema è che c’è la quasi certezza che i protagonisti più attivi della categoria dei compratori siano stati null’altro che investitori istituzionali estremamente sofisticati, quindi anche se Facebook non era quotata nel senso istituzionale di essere trattata quotidianamente e in maniera regolamentata, c’è la certezza che la gente si sia arricchita dal commercio di questi titoli.
Quanto valeva realmente il titolo Facebook, quindi, prima dell’ipo? La banche collocatrici e anche i brokers lo sapevano di certo e sicuramente non 38 dollari per azione. A detta di Luigi La Ferla, co-fondatore della Ltp Trade di Londra, quella di Facebook «più che di una bolla, è una manifestazione di eccesso razionale di cui sono capaci solo i mercati finanziari quando hanno a che fare con un qualcosa senza precedenti e, soprattutto, di inaspettato. Ci sono troppo poche informazioni finanziarie per valutare un’azienda del genere e, inoltre, normalmente si tende a non voler comprare qualcosa che Goldman ha intenzione di vendere».
Già, perché certamente chi ha curato il collocamento di Facebook sapeva che il suo più grande problema è la decelerazione delle entrate, un qualcosa che il mercato non ama, soprattutto per aziende con margini di profitto già alti come quelli del social network: e con margine operativo del 50%, il margine di profitto di Facebook scende e non sale. Inoltre, il tasso di crescita di Facebook nel primo trimestre è stato, anno su anno, di un modesto 45%, giù dal 55% dell’ultimo trimestre dell’anno scorso, a sua volta in discesa dal terzo. Le stesse entrate pubblicitarie nei primi tre mesi di quest’anno sono state del 37%, un po’ pochino per un’azienda che si dipinge come una seria minaccia per Google, la quale ha entrate 10 volte superiore e anche un cash-flow maggiore delle revenue stesse del social network.
Già, perché il cash-flow di Facebook è negativo, l’azienda sta bruciando denaro per gli eccessivi costi dei data centers: se la crescita delle entrate non torna ad accelerare nel resto del 2012, Facebook potrebbe chiudere l’anno sotto quota 40%. Succederà? Tornerà a crescere? Difficile. Primo, Facebook non sta affatto cominciando a monetizzare i suoi utenti, visto che il capo del business, Sheryl Sandberg, lavora a Facebook da quattro anni e non da una settimana: e Google era molto più grande di Facebook a quattro anni dall’inizio del business. Secondo, Mark Zuckerberg ha detto chiaro è tondo che per lui la mission di Facebook resterà sociale e non di business: quindi, o mente o non ci sono piani di aumento della profittabilità. Terzo, se anche Facebook raggiungerà quota tre miliardi di utenti, come dice, la parte ricca del mondo è già su Facebook, chi si aggiungerà non avrà attrattiva business, non sarà avvezzo ad acquisti on-line e quindi non è target per l’industria dell’advertising.
Quale il destino di Facebook, quindi? Là fuori ci sono ancora circa 7mila azioni che si possono comprare, ma, al netto di novità che stravolgano le tre criticità che ho poc’anzi sollevato, dubito che ci sarà la fila per acquistarle a un prezzo superiore di un range tra i 16 e i 24 dollari, anche con entrate 2012 a +50%. Quel range era quello in cui venivano trattate off-the-market prima del collocamento, anzi per la precisione si viaggiava intorno a un valore medio di 27 dollari per azione: perché io, Mauro Bottarelli, che non posseggo né un titolo, né un’obbligazione di alcunché e nemmeno intendo farlo, sapevo che Facebook sarebbe stata una fregatura solenne - e lo scrivo da più di un anno - e chi invece era intenzionato a scommettere sull’ipo del social network non ha sentito il dovere di informarsi, invece di bersi allegramente quanto scritto da media conniventi e banche collocatrici (le quali fanno il loro lavoro di piazzista, non si chiede al cuoco se nel suo ristorante si mangia bene) e ora piange chiedendo giustizia al giudice di turno?
Spiacente, questa volta sto con l’avido banchiere, visto che se il capitalismo in salsa statunitense è ormai la nobile arte di fregare il prossimo (chi produce un telefonino - non la cura contro il cancro - capitalizza più di tutto il Nasdaq, fate voi), occorre essere molto attenti e coscienti prima di imbarcarsi in operazioni solo apparentemente semplici e senza rischio. Secondo voi, se fossero state un vero affare, Goldman Sachs avrebbe venduto quasi tutte le sue azioni prima del collocamento in Borsa? E che il gigante di Wall Street stesse facendo questo lo sapevano tutti, era scritto sul Wall Street Journal come sull’Herald Tribune. Sono per caso diventati pazzi a Goldman, visto che già avevano perso soldi vendendo troppo in anticipo le azioni di LinkedIn che avevano in portafoglio prima dell’ipo?
Sicuramente Goldman, Facebook e Morgan Stanley verranno censurate e costrette a pagare una multa ridicola (rispetto alle loro entrate) per la loro mancata comunicazione al mercato del taglio delle stime ed è giusto che sia così, ma quale giudice potrà dar ragione a chi vuole vedersi riconosciuta non la violazione di un diritto, ma il diritto stesso all’ignoranza? Ragionateci su, cari lettori: se il mondo va così, è anche colpa nostra. Davvero pensate che un social network che vi fa trovare il compagno di banco del liceo possa valere 100 miliardi di dollari e possa reggere sul mercato, alle condizioni attuali, con un titolo a 38 dollari per azione? Quando smetteremo di prendere per oro colato ciò che ci dicono i media mainstream, le banche d’affari e i solerti governi? Pensate davvero che le Commissioni del Congresso andranno addosso a Goldman Sachs, principale collocatore di debito pubblico Usa, in un momento in cui la Cina pare intenzionata ad alzare il tiro e scaricare davvero Treasuries?
Lungi da me difendere che imbroglia o, peggio, le majors di Wall Street, ma la Sec dove ha guardato in questi mesi? Dopo aver chiesto lumi sulle strane pratiche di Facebook rispetto all’assetto dell’azionariato, perché si è girata dall’altra parte proprio quando si dava vita al collocamento pre-ipo? Pensate che in Borsa i soldi possano farli tutti e tutti partano da condizioni uguali? Chiedetelo alla piccola azionista citata dal Wall Street Journal, Jennifer Kohne, che trascinata dall’entusiasmo per lo sbarco in Borsa decise di comprare 3000 azioni di Facebook a 42 dollari, cioè 4 dollari più del prezzo di collocamento: quei titoli oggi valgono 10 dollari in meno, per una perdita netta di oltre 30mila dollari. Lo so che non è giusto, ma quando la Jennifer Kohne di turno gioca a fare David Einhorn, si fa male.
P.S. Agenzia Ansa delle 13.14 di ieri: «Il settore assicurativo di Italia e Spagna è più esposto all’impatto di una uscita della Grecia dall’euro. Lo afferma Fitch, menzionando l’effetto contagio che potrebbe verificarsi sui titoli italiani e spagnoli e sulle banche e che potrebbe comportare azioni sul rating. In Germania e Inghilterra, invece, il comparto è più al riparo». Capito come si gioca su certi tavoli: a Borsa aperta, si lancia di fatto un invito a shortare le assicurazioni italiane e spagnole. Fitch è francese, quindi fa l’interesse di Parigi. E voi vi stupite e vi indignate ancora per il caso Facebook?