Diritti umani, rapporto Onu: i Cie italiani sono del tutto inadeguati
2 luglio 2012
Luciana Coluccello
“Centri di internamento del tutto inadatti a garantire una permanenza dignitosa agli immigrati”. Così sono definiti i Centri Identificazione ed Espulsione italiani dall’ultimo rapporto sullo stato di attuazione delle raccomandazioni Onu per i diritti umani a cura del Comitato per la promozione e protezione dei diritti umani, appunto, composto da 86 Ong e associazioni della società civile italiana.
Il rapporto Onu si riferisce, in particolare ai Cie di Roma, Bologna e Torino, considerati “palesemente inadeguati a tutelare la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti”, al punto che è meglio “abbandonare l’attuale sistema e prevederne uno più rispettoso dei diritti umani”.
Le condizioni dei Centri di identificazione ed espulsione, già di per sé abbastanza precarie, sembrerebbero aggravarsi con il prolungamento dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi. E il fatto che si tratti di centri pressoché inavvicinabili non fa che aumentare i timori sulla effettiva precarietà in cui riversano.
I Cie, infatti, sono quasi sempre realtà abbastanza separate dal territorio che li ospita e le poche organizzazioni indipendenti, i pochi esponenti della società civile o i semplici giornalisti che vi vogliono accedere per monitorarne l’operato devono andare incontro a procedure abbastanza lunghe, che cominciano con una richiesta di autorizzazione alla Questura. Motivo per cui i dubbi circa un’inadeguata tutela dei diritti fondamentali dei migranti detenuti non possono che aumentare.
Raffaella Cosentino, giornalista che si è spesso occupata di diritti umani, ha avuto la possibilità di visitare quattro Cei, su dodici attivi: Roma, Lamezia Terme e due a Trapani. “Dovrebbe essere solo una detenzione amministrativa per chi non ha il permesso di soggiorno. Ma dalla scorsa estate si può stare rinchiusi fino a un anno e mezzo soltanto per l’identificazione ai fini del rimpatrio. Questo rende gli “ospiti” del centro dei reclusi a tutti gli effetti, dietro sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati 24 ore al giorno da militari e agenti”, dice la giornalista.
Effettivamente, anche nell’ultimo rapporto della commissione Diritti Umani del Senato leggiamo: “Le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri”. Un anno e mezzo di vera e propria detenzione, quindi, in carceri in cui può succedere di tutto. Al punto che la commissione Diritti Umani è arrivata a lamentare il fatto che il codice penale italiano non prevede il reato di tortura. Una preoccupazione, questa, espressa dai senatori dopo che questi ultimi hanno visto, durante un’ispezione nel Cie di Santa Maria Capua Vetere, alcuni detenuti con gli arti fratturati. Un fatto di per sé non eclatante, dal momento che molti dei reclusi, date le condizioni precarie in cui vengono tenuti, tentano di fuggire. Il problema, però, è che, secondo la commissione, alcuni avevano gli arti fratturati “a causa dell’investimento da parte di un mezzo delle forze dell’ordine”. Un fatto che, probabilmente, si era preferito tenere in ombra.
Così come si preferiscono tenere in ombra i suicidi e l’uso degli psicofarmaci da parte dei reclusi. Racconta al riguardo la Cosentino: “Abdou Said, un egiziano di 25 anni, si è suicidato a Roma l’8 marzo dopo essere uscito dal Cie di Ponte Galeria, dove è stato per più di sei mesi. Lavorava in Libia ed era scappato dalla guerra la scorsa estate. Anche nella sua storia c’è una fuga fallita. Secondo un ex trattenuto che l’ha conosciuto nel centro, Said sarebbe stato percosso dagli agenti e avrebbe assunto a lungo psicofarmaci fino a diventare come matto”.
Nonostante queste evidenze, racconta ancora la giornalista, il direttore del centro, Giuseppe Di Sangiuliano, ha “bollato come leggende gli abusi di psicofarmaci”. Eppure anche Serena Lauri, legale del giovane suicida, ricordava Said “come un ragazzo completamente diverso. Appena entrato a Ponte Galeria era quasi arrogante, dopo questo episodio aveva lo sguardo fisso e l’espressione da persona indifesa”.
Anche il Cie milanese è abbastanza difficile da avvicinare. Forse perché permettere a chiunque di vedere ciò che nasconde dentro il centro può risultare problematico. Mauro Straini, legale che difende sei immigrati accusati di devastazione a seguito di una ribellione risalente ad inizio 2012, intervistato dalla Cosentino aveva dichiarato: ”i letti sono cementati al pavimento, gli armadi sono nicchie ricavate nel muro, l’unico arredo sono i materassi, per cui tutte le rivolte consistono nel bruciare dei materassi”.
Non a caso, il Cie milanese è stato dichiarato dagli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci “un carcere extra ordinem, non dichiarato, in cui numerosi cittadini provenienti da paesi extraeuropei sono detenuti senza aver mai commesso reati punibili con la reclusione”. Disumane, secondo i legali, le loro condizioni: “i prigionieri non possono neppure accendere da soli la luce perché l’interruttore è comandato dall’esterno e neppure scegliere il programma tv da vedere. Hanno bagni alla turca “raccapriccianti” e alloggi inabitabili”.
Dentro i Centri di Identificazione ed Espulsione, poi, ci ricorda Raffaella Cosentino, “finiscono anche minori stranieri soli. Sei erano nel centro “Milo” di Trapani. Altri sono in quello di Brindisi, dove li ha rintracciati Save The Children. L’Ong opera nel progetto Praesidium del Viminale, assieme all’Alto commissariato Onu per i rifugiati, la Croce Rossa e l’Oim. Accertata la minore età, i ragazzi vengono rilasciati ma intanto hanno vissuto per molti giorni l’esperienza della reclusione nel Cie, dove sono frequenti gli atti di autolesionismo e le rivolte finalizzate alla fuga, poi represse con la forza”.
Degrado di alloggi, inadeguatezza dei servizi igienici, quasi totale assenza di spazi e attività ricreative, abusi da parte delle autorità e difficoltà di accesso alle cure mediche. Queste, dunque, le caratteristiche più comuni a tutti i Cie italiani, indipendentemente che essi si trovi al nord, al centro o al sud.
Non stupisce, allora, che il Rapporto sullo stato di attuazione delle raccomandazioni Onu sottolinei la necessità di “sottrarre i Cie alla condizione di extraterritorialità sanitaria e di ricondurre la titolarità e l’organizzazione dell’assistenza sanitaria nei centri al Servizio sanitario nazionale attraverso le Asl di riferimento in modo da tutelare adeguatamente il diritto alla salute dei trattenuti”. Così come non stupisce che il Rapporto si concluda affermando la necessità di “abbandonare l’attuale sistema e prevederne uno più rispettoso per i diritti umani”.