Hanno davvero ucciso due pescatori innocenti scambiandoli per pirati, sparando da una nave che non si trovava affatto in acque internazionali ma vicina alla costa indiana. Una volta arrestati, non hanno trascorso un solo giorno in carcere ma sono stati sempre ospitati in strutture confortevoli e hotel di lusso. Il governo italiano ha ammesso il loro errore e, intanto, ha provveduto in via extragiudiziale a risarcire le famiglie delle vittime. Questa la vera
storia dei due marò del San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trasformati in eroi nazionali: per “Giap”, il magazine curato dalla Wu Ming Foundation, si tratta di «una delle più farsesche “narrazioni tossiche” degli ultimi tempi». Verso Natale, la “narrazione tossica” «ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della Repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore…), ma erano e sono celebrate come… eroi nazionali. “Eroi” per aver fatto cosa, esattamente?».
La fonte della ricostruzione di “Giap” è il giornalista Matteo Miavaldi, che vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito “China Files”,
specializzato in notizie dal continente asiatico. «Il 22 dicembre scorso – scrive Miavaldi – Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei “nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria», anche se il semplice resoconti dei fatti – ormai accertati dal tribunale indiano e di fatto accettati anche dalle autorità italiane – racconta tutta un’altra
storia, dolorosa e tragica ma non certo eroica.
E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud-occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati: un rischio concreto, lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16.30 si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony e uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un
attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi.
La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari non finiscano in un normale carcere ma siano tenuti in custodia presso una “guesthouse” della Cisf (Central Industrial Security Force), il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici. «Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento – continua Miavaldi – è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide», capitanata dal quotidiano “Il Giornale”, che ha coinvolto persino l’ufficio stampa della Ferrari di Luca Cordero di Montezemolo, pronto a sventolare il tricolore mescolando Formula Uno e marò del San Marco.
Per il governo Monti, scrive il giornalista italiano di “China Files”, il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, «escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’
abbronzatura di Obama, della
culona inchiavabile, del
lettone di Putin, della
nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni». Qualche esempio di strumentalizzazione? Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre «riesce finalmente a fare notizia, offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale». La segue a ruota Ignazio La Russa, Pdl, che il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito, “Fratelli d’Italia”. «L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli
stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane».
Il governo italiano, continua Miavaldi nella sua ricostruzione, ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate “rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana, l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dai contrapposti campanilismi della stampa indiana e italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero: hanno ragione gli indiani. Lo hanno dimostrato il 18 maggio gli investigatori: secondo i dati recuperati dal Gps della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta “zona contigua”, cioè il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.
Sgombrato il campo da un’altra tesi fantastica (non sono stati i marò a sparare, ma qualcun altro, a bordo di una seconda nave che incrociava nelle vicinanze), a inchiodare i militari italiani è anche la perizia balistica, che parte dai 16 fori di proiettile rilevati sul peschereccio: gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony, precisa sempre Miavaldi. Lo ammette persino il diplomatico Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri del governo Monti: «La morte dei due
pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo: i nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo».
A questo punto, conclude “China Files”, possiamo tranquillamente sostenere che l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali, e che i due marò hanno effettivamente sparato e ucciso. «Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione». Questo infatti è l’unico punto ancora in discussione: secondo la legge italiana e i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati. La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.
A livello internazionale, spiega Miavaldi, vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (Sua Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India. «La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in
futuro», aggiunge il reporter di “China Files”. «Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare
il paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale».
Descritti come “prigionieri di guerra in terra straniera” o militari italiani “dietro le sbarre”, Latorre e Girone in realtà «non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane». I due militari del San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su “L’Espresso”, in India sono trattati col massimo riguardo e, in più di otto mesi, hanno sempre evitato le terribile celle dell’India, «alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola». Tecnicamente, “dietro le sbarre” non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso, accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea sempre su “China Files” il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile.
Tutto questo, mentre in Italia si scatenava la peggiore propaganda sciovinista. Lo stesso governo Monti non è rimasto certo con le mani in mano, cercando in ogni modo di «evitare la sentenza dei giudici indiani», ricorrendo persino all’intercessione della Chiesa. «Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana», rivela Miavaldi, che racconta come le autorità italiane abbiano coinvolto un prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Lo stesso De Mistura «si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio». L’ingerenza della Chiesa di Roma «non è stata apprezzata dalla comunità locale» che, secondo il quotidiano “Tehelka”, «ha accusato i ministri della
fede di “immischiarsi in un caso penale”, convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori».
Il culmine dell’ipocrisia risale al 24 aprile, quando il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario: alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300.000 euro. Dopo la firma, aggiunge Miavaldi, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. «Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori». Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile». Eppure, secondo il ministro della difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, si è trattato solo di «una donazione», di «un atto di generosità» addirittura «slegato dal processo». Commovente, no?