ARTE/ Marlene Dumas, può il dolore convivere con la bellezza?
mercoledì 18 aprile 2012
Marlene Dumas, Homage to Michelangelo, 2012 (courtesy l’artista, ph.©Peter Cox)
Parlare
del dolore è difficile. Parlarne da artisti, si intende. Altrimenti è
facile: si sa che lo spettacolo delle disgrazie alza gli ascolti, e
qualunque attore vi dirà che si fa meno fatica a far piangere che a far
ridere. Non per niente neiPromessi Sposi Manzoni
interrompe la storia di Renzo e Lucia quando i loro guai sono finiti
perché, spiega ironicamente, dopo il sospirato matrimonio la loro storia
diventa “una delle più placide, delle più felici, delle più
invidiabili; talché, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a
morte”.
Al
dolore Marlene Dumas (Cape Town, Sud Africa, 1953), esponente tra le
più significative della pittura realista contemporanea, ha dedicato la
sua ultima mostra alla Fondazione Stelline di Milano, a cura di Camillo
Fornasieri e Alassendra Klimciuk.
Dipingendo
la figura umana, che è l’unico soggetto delle sue opere, Marlene Dumas
affronta i temi più drammatici: la morte, l’abbandono, la sofferenza
della madre che ha perso un figlio e dei figli che non hanno mai avuto
una madre. Era una scommessa rischiosa, la sua. Bisognava evitare che il pathos diventasse
patetismo, che il pianto si trasformasse in pianto greco e che
l’angoscia divenisse teatro o, peggio, accademia dell’angoscia, per
usare la perfida espressione di Longhi. L’artista voleva insomma, come
ha dichiarato lei stessa, che il dolore convivesse con qualche forma di
bellezza.
Nata
nell’Africa dell’apartheid, dove è vissuta fino a ventiquattro anni
prima di trasferirsi in Olanda, Marlene Dumas di drammi ne ha
conosciuti. A quelli politici si sono aggiunti quelli privati perché è
rimasta orfana di padre a dodici anni e, per continuare gli studi, ha
dovuto chiudersi in un collegio dove si è sentita orfana anche di madre.
Il punto di forza dei suoi lavori, però, non è l’espressione del
negativo, ma la capacità di reinventarlo in un modo insieme coinvolto e
meditato.
Dumas
descrive uomini e donne con quello che i critici definiscono
“contaminazione di codici linguistici”. Cioè, per dirla come la gente
normale, dipinge ispirandosi al cinema e alle fotografie, sia quelle dei
giornali che quelle scattate da lei. Immerge poi la figura (un po’
sull’esempio del Picasso del periodo blu) in un colore mentale tra il
blu, il nero e il grigio, usando un segno quasi liquido che dà
all’immagine l’immediatezza di uno schizzo e l’inconsistenza di
un’apparizione.
Con
questo linguaggio realista e irreale, alternando iconografie sacre e
icone profane – la Madre di Dio e la madre di Pasolini, Cristo
crocifisso e il Cristo del cinema – Marlene Dumas racconta i drammi che
riserva il destino. “Sorte” si intitola appunto la mostra, e a gridarlo
dalla copertina del catalogo c’è Mamma Roma, la donna di vita del film
pasoliniano.
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