Alleanza Atlantica da museo: un pezzo di
storia, secolo scorso. A Monaco, durante la “Conferenza internazionale sulla sicurezza” di febbraio, il vicepresidente statunitense Joe Biden ha indicato i due obiettivi strategici a breve termine per il suo paese. Uno, l’Iran, per bloccarne «l’illecito e destabilizzante programma nucleare». Due, lo spostamento strategico dell’interesse statunitense dall’Atlantico al Pacifico, divenuto nuovo baricentro geopolitico. Provando a tradurre: cari lontani cugini europei, le grane del bacino mediterraneo e mediorientali sono ormai tutte vostre. Avete la Nato, sotto il nostro comando, ma soldi e armi ora toccano a voi. Esempio? Libia e Mali, dove noi vi diamo satelliti e, al massimo, qualche drone assassino per i lavori più sporchi. In Siria in realtà stiamo facendo qualche cosa in più, ma solo per giocare di sponda contro l’Iran. Perché sia chiaro, direbbe Biden o lo stesso Obama: tutto ciò che minaccia Israele resta “cosa nostra”. Chiarito ciò, il resto sono affari vostri.
Gli
Usa sono proprio intenzionati a “cambiare oceano”, secondo l’analisi che Ennio Remondino affida al newsmagazine “
Globalist”. «La
crisi finanziaria
che ha indebolito
Usa e Occidente – scrive Remondino – ha disegnato una geopolitica nuova per due scenari affrontati da Biden a Monaco: altri paesi emergono come protagonisti». Brasile, Russia, India,
Cina, Sudafrica: i “Brics”. Sempre più importanti, sul piano economico e ormai anche strategico. In più, «intendono difendere i propri interessi senza dover chiedere il “Washington Consensus”». Mentre la
Cina è ormai la prima potenza commerciale del mondo, gli
Usa devono fare i conti con il costo delle guerre in Afghanistan e Iraq che, secondo lo studio della “Brown University of Providence”, già nel 2011 erano vicini ai 4 trilioni di dollari (4.000 mila miliardi), con costi umani di almeno 250.000 morti, tra cui 6.100 militari
Usa, e oltre 125.000 morti in Iraq e 14.000 in Afghanistan, senza contare migliaio di caduti in Pakistan e la marea dei profughi: 7-8 milioni di persone.
Superpotenza addio? «Il declino statunitense è percepito soprattutto dalla sua middle class», allarmata dal declassamento deciso nell’agosto 2011 dall’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, che tolse agli
Usa la “tripla A”, seguita dall’agenzia cinese “Dagong”. La stessa
Cina, con 1,6 trilioni di dollari in buoni del Tesoro sul debito complessivo americano, guarda con preoccupazione a un eventuale deprezzamento della valuta statunitense, che comporterebbe un grave danno alla sua stessa
economia: Pechino vuole evitare il calo delle sue esportazioni negli States e le rendite dei suoi investimenti
Usa, aumentati (dal 2003 al 2011) da 255 a 1159 miliardi di dollari. «Di fatto, la Repubblica Popolare ha ancora bisogno degli Stati Uniti consumatori dei suoi prodotti». Ma la
Cina non aspetta, e ha elaborato una serie di obiettivi: potenziare la domanda interna investendo in istruzione e sanità, incentivare l’
economia verde, modernizzare le proprie capacità
militari per «rafforzare la sicurezza della
Cina e proteggere il suo sviluppo pacifico».
Su quest’ultimo punto, aggiunge Remondino, il bilancio per la difesa ha aumentato gli investimenti nel 2012 dell’11,2% rispetto all’anno precedente, e il piano nucleare cinese viene definito dall’aviazione americana «il più attivo programma di sviluppo di missili balistici al mondo». Così, la sfida strategica e militare alla
Cina, potenza egemone nel Pacifico, viene lanciata il 17 novembre 2011 dal presidente Obama davanti al Parlamento australiano a Darwin, città portuale del nord, situata a 820 chilometri dalle coste indonesiane e non lontano del Mar Cinese. Proprio Darwin diventa «nuova base strategica per l’area “Asia-Pacifico”», in base al programma “Pacific pivot”. Nel 2012, Darwin ha già accolto una portaerei e truppe speciali, che diventeranno migliaia di soldati nel giro di quattro anni, per un costo di miliardi di dollari. Pechino stigmatizza, e critica le continue operazioni militari statunitensi condotte con gli alleati giapponesi, filippini e coreani. E protesta per la presenza americana, per la prima volta, al vertice dell’“Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico”, dove i rappresentanti statunitensi hanno potuto dire la loro sulle dispute nel Mare Cinese.
«Lo spostamento dell’asse strategico
Usa verso la regione Asia-Pacifico diventa ufficiale al “vertice sulla sicurezza” a Singapore lo scorso giugno», ricorda Remondino. «Il segretario alla difesa Leon Panetta affermò allora che entro il 2020 il 60% della flotta – 282 navi da
guerra – sarà posizionata nell’area del Pacifico e il restante 40% nell’Atlantico, contro l’attuale 50% fra i due oceani». Panetta assicura che la decisione «non rappresenta una minaccia o una sfida alla
Cina», ma non convince Pechino, anche perché gli
Usa prevedono un aumento delle esercitazioni militari nel Pacifico e l’apertura di nuove basi in un’area di alta valenza strategica per le rotte del Mar Cinese del Sud e dello Stretto di Malacca verso il Medio Oriente, maggiore fornitore energetico per la
Cina. Intanto, Pechino vigila sui cantieri militari avviati sulla piccola isola sudcoreana di Cheju, destinata dal
governo di Seul ad ospitare una grande base navale, da un miliardo di dollari, per navi da
guerra e sottomarini
Usa.
«Nel Pacifico – racconta Remondino su “Globalist” – saranno dislocate sei portaerei, la maggioranza degli incrociatori, cacciatorpedinieri, navi da combattimento e sottomarini». La sfida
Usa alla
Cina prosegue poi con missioni mirate nei paesi del sud-est asiatico come Laos, Cambogia e Vietnam, paese che teme l’espansionismo cinese e ha già messo a disposizione degli
Usa alcune basi militari, mentre la Cambogia ha accettato l’assistenza militare statunitense per “addestramento anti-terrorismo”. Stessa politica di “infiltrazione” in Africa, in paesi come Senegal, Uganda, Sud Sudan, Kenya, Malawi, Sudafrica, Nigeria, Ghana e Benin. Nel continente nero «le compagnie petrolifere statunitensi sono dominanti, specie in Nigeria e Sud Sudan, e quelle agricole si accaparrano terre fertili e preziose materie prime, in aperta concorrenza con la
Cina». Ben 5 milioni di cinesi sono presenti in Africa, dove costruiscono porti, aeroporti, strade e ferrovie, oltre a essere uno dei maggiori fruitori energetici. Gli
Usa, per contrastare la penetrazione cinese, si avvalgono, dell’Africom, la “Nato africana”, che sostiene di «difendere gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti rafforzando le capacità di difesa degli Stati africani», fino a condurre «operazioni militari per fornire un ambiente
di sicurezza adatto al buon governo».
Ma il baricentro della sfida resta il Pacifico, e l’America «vuole mettere becco nelle controversie tra
Cina e Giappone sulle isole contese, ricche di giacimenti energetici off-shore». E’ il caso delle isole Diaoyu o Senkaku, «formalmente giapponesi e rivendicate da
Cina e Taiwan». Oppure le Scarborough, contese da
Cina, Filippine, Taiwan e Indonesia. O, ancora, le Spratleys, che oppongono la
Cina a paesi come Filippine, Malaysia, Taiwan e Vietnam. «Perché tante bramosie? Tra le isole transitano merci per 5 trilioni di dollari e i fondali oceanici sono ricchissimi di petrolio, gas, minerali e “terre rare”, i 17 metalli indispensabili nell’
industria hi-tech. Quindi – spiega Remondino – l’egemonia sul Pacifico significa assicurarsi le materie prime a costi contenuti e conquistare la leadership nel mondo». Per questo gli
Usa stanno riposizionando nel Pacifico la loro potenza militare, mentre la
Cina ha stipulato con la Russia il “Patto dell’
Energia” e sta rinnovando le forze armate. Si stanno delineando nuovi alleati e nuovi nemici: tra la
Cina che
acquista i debiti dei concorrenti e gli
Usache finanziano gli alleati, potenziali nemici di Pechino come Brunei, Cambogia, Filippine, Malaysia, Singapore, Thailandia e Vietnam.
Finora, la
Cina ha sempre dichiarato di voler risolvere i contenziosi bilaterali attraverso la diplomazia, senza uso di armi. Ma domani? Per la prima volta, il vertice degli Stati asiatici si è concluso senza una risoluzione comune. E il Giappone ha ventilato l’ipotesi di riformare la Costituzione, consentendo il ricorso all’uso della forza per risolvere le dispute internazionali. Fin del ripudio della
guerra, più di mezzo secolo dopo Hiroshima? «Una dichiarazione forte – sottolinea Remondino – legata alla contesa con la
Cina sulle isole Senkaku». Una settimana prima della storica esternazione del premier nipponico Shinzo Abe, nel Mar Cinese Orientale un cacciatorpediniere giapponese sarebbe stato inquadrato nel radar di puntamento di una fregata cinese. Insomma: «Un Oceano niente affatto Pacifico».