il debito pubblico è come il famoso " Pollo a
testa"
Mi dispiace essere ripetitivo, ma anche stavolta faccio appello a chi ha ancora mantenuto un residuo di facoltà razionali (e d’amor patrio). È mai possibile ridurre a barzelletta un tema così essenziale, coinvolgendo anche i neonati e, specialmente, mettendola su un piano di “responsabilità individuale”?
Che cosa vuol dire, altrimenti, “bebè compresi”, se non enfatizzare il fatto che “siamo tutti sulla stessa barca” e che dobbiamo dunque “rimboccarci le maniche” per “risolvere il problema”? Un “problema” che, oltretutto, vien fatto percepire come un capriccio del fato, come una sciagura ineluttabile capitataci tra capo e collo, e non come un esito perseguito metodicamente da qualcheduno a suo proprio ed esclusivo beneficio. Eh sì, il “debito pubblico” diventa come la casa che va a fuoco, e tutti sono tenuti a gettare secchi d’acqua, senza porsi il dubbio su chi ha appiccato l’incendio e perché. Una spada, una ghigliottina che pende sulla testa di tutti quanti, “bebè compresi”, quindi bisogna prenderne atto e frugarsi le proverbiali tasche. Con la nemmeno troppo velata insinuazione che se questo “debito” c’è, la colpa è di tutti noi, nessuno escluso, che viviamo “sopra le righe” e dobbiamo perciò “tirare la cinghia”. Questo intendono farci pensare, ‘sta genia di filibustieri.
Peccato che la “soluzione”, per chi imposta la faccenda del “debito pubblico” in questo modo truffaldino, sia regolarmente quella di dover versare sempre più soldi nelle casse di uno Stato imbelle, gestito da camerieri dei banchieri e burattini della grande finanza. Uno Stato in mano a personaggi che sanno benissimo come funziona la “fabbrica del debito”, ma che manco per sogno – visto che sono lautamente pagati per tacere e sviare l’attenzione – si azzardano a metterne in discussione il meccanismo perverso e diabolico. Anzi, sono messi lì apposta per dare veste “legale” al più grande crimine della storia.
Al riguardo, la confusione regna sovrana nella testa della maggioranza delle persone, cosicché la truffa della “moneta-debito” prosegue indisturbata. Che ci si può fare se sono stati raggirati con tutta una serie di falsi problemi: fino a un po’ di tempo fa c’erano le ideologie ed i “partiti ideologici” ad infervorare il popolo-bue (per i più attempati, esistono ancora i sindacati), e se da vent’anni a questa parte il “problema Berlusconi” ha rappresentato un ottimo diversivo, con “la crisi”, l’unica preoccupazione pare essere diventata “la casta” dei politici spendaccioni e dissoluti, che avrebbero, in quanto specchio di un’Italia con le tasche bucate, alimentato la “spirale del debito” e delle esangui casse dello Stato (e di ogni altro ente pubblico).
In questo contesto deprimente, l’unica stupidaggine che circola, a livello di massa, sul tema della moneta, è la diatriba tra i favorevoli e i contrari all’Euro, come se la questione si riducesse al “ritorno alla lira”, che furbescamente ogni tanto qualche demagogo rispolvera dall’armamentario degli argomenti per i gonzi.
Ma nessuno pone la questione centrale della proprietà della moneta, perché è quella che permette di stabilire cosa farne e a beneficio di chi.
Ora, nel mondo cosiddetto “democratico”, la proprietà della moneta è in mani assolutamente private. Private come possono essere le mie o le vostre, o quelle di una qualsiasi S.p.A. Ma nell’informazione data in pasto al popolo non lo spiegano (e nemmeno i sedicenti “esperti” che scrivono sulle “pagine economiche”), non accennandovi nemmeno per sbaglio, privilegiando invece le baruffe chiozzotte sulle “primarie” o il “ritorno di Berlusconi”.
Eppure, se solo si pone caso ai dettagli, anche solo lessicali, delle notizie che circolano sugli stessi media ufficiali, ci si rende conto che c’è qualcosa che non va. Il problema è però che la maggior parte delle persone non presta attenzione ai particolari per risalire al generale, né è abituata a collegare tutti i pezzi di un “discorso” che nelle loro menti deve restare diviso in mille “argomenti” per essi senza alcuna interconnessione. A questo ci abituano sin dall’infanzia… Per questo è così facile per degli illusionisti da strapazzo confondere le idee in campagna elettorale e per tutto il resto dell’anno con argomenti di nessuna importanza elevati a livelli stratosferici per il solo fatto di parlarne di continuo.
Che cos’è, altrimenti, una cosa completamente insensata come “
il costo del denaro” di cui si sente continuamente parlare? Sì,
ogni tanto qualcuno si lamenta dei “tassi” che la BCE applica all’Italia piuttosto che alla Germania, ma sono discorsi fatti giusto per allungare il brodo e alimentare, già che ci siamo, un “nazionalismo” innocuo ed un sentimento anti-tedesco che ha fatto il suo tempo (e si faccia caso che nessuno s’azzarda mai a seminare sentimenti anti-inglesi).
Ora, se il denaro è un comodo strumento di pagamento (oltre che una misura del valore di un bene o un servizio), come fa ad avere un “costo”??? Mica è una merce! Non si vorrà credere che siamo giunti al punto da considerare “normale” il fatto di “comprare i soldi”!?
È proprio così: gli Stati comprano i soldi (di cui ovviamente hanno bisogno i loro cittadini, le imprese private e gli enti pubblici), da organismi privatissimi che sono le Banche centrali. Chi ha aderito all’euro adesso deve rivolgersi alla Banca Centrale Europea (BCE, che tra l’altro non è nemmeno la proprietaria dell’euro), che lo “presta” a fronte dell’emissione di titoli del “debito pubblico”, gravati da un interesse e garantiti, come ogni prestito che si ‘rispetti’, da beni (pubblici) concreti in caso d’insolvenza (la fine che sta facendo la Grecia).
Pensate un po’ che capolavoro: i diciassette Stati dell’Unione europea che hanno aderito all’euro, sono obbligati, se hanno bisogno di denaro, a prenderlo a prestito, ad usura, dalla BCE. Ecco il perché di tutta quest’attesa salvifica prima di ogni “asta” di titoli: c’è da capire se ce li prenderanno e a quale interesse verranno piazzati presso gli “investitori istituzionali”.
Si noti, per inciso, che è proprio l’applicazione d’un interesse a questa “moneta-debito” prestata di proprietà dei banchieri privati a creare uno dei grandi problemi monetari che da quando siamo nati ci viene sbattuto sui denti a mo’ di ricatto: l’inflazione. Poniamo infatti che io presti un libro ad un amico. Quello, dopo un po’, cosa farà: mi riporterà il medesimo libro oppure un’enciclopedia? Evidentemente non può ridarmi quello che non ha, né sarebbe sensato che indietro gli chiedessi due, tre o più libri, ma coi soldi ha finito per funzionare diversamente perché s’è instaurato un meccanismo perverso: l’usura. Per far fronte a quest’esosa richiesta di soldi in più (gli interessi), ecco che un privato indebitato alzerà i prezzi di beni o servizi, mentre uno Stato indebitato aumenterà le tasse, inventandosene sempre di nuove. Ecco spiegato il “mistero” dell’inflazione: questo denaro perde costantemente di valore perché è gravato dagli interessi!
È o no una follia? Uno Stato, che dovrebbe detenere la massima autorità, e tutelare i propri cittadini (compresa la loro capacità economica), prende a prestito il denaro che gli serve, e per far questo s’indebita con dei privati, che dunque si dimostrano più potenti dello Stato stesso! Lo Stato è ridotto per l’appunto come un poveraccio che per avere una casa si fa un mutuo e finirà per pagarla il doppio del suo valore di mercato. O come un malato terminale, che per sopravvivere si fa fare delle “iniezioni di liquidità” (il linguaggio è sempre rivelatore).
Ma questo può avvenire solo ad una condizione, ed è bene ripeterlo perché c’è in giro troppa sopravvalutazione della cosiddetta “casta” dei politici: che a governare gli Stati siano messi, da parte dei “signori del denaro”, delle mezze calzette acquiescenti e sempre disponibili ad indebitare sempre più i loro connazionali, “bebè compresi”.
Lo Stato, una volta che ha rinunciato alla prerogativa di “battere moneta” (oggi ce l’ha solo per quanto riguarda le monete metalliche), è perciò un puro contenitore vuoto. Da riempire, però, con il gettito di tasse e tributi che verranno richiesti con sempre maggiore insistenza ai cittadini, sotto forme sempre più esose, vessatorie ed assurde, com’è il caso dell’IMU, una tassa per poter stare in casa propria!
Si tratta, per chi ha capito l’essenziale del meccanismo perverso della “moneta-debito”, di un gorgo potenzialmente senza fondo, perché la spirale dell’indebitamento attraverso l’emissione di “titoli del debito pubblico” gravati da interesse – che finiscono per giunta in mano agli stessi “padroni dell’euro”, i quali potranno rimetterli sui “mercati” per specularci e far salire il tasso d’interesse (il famoso “spread” che sale è legato a questo) -, questa spirale, dicevo, è di quelle al cui fondo c’è solo la fagocitazione dei beni di tutti quanti non saranno in grado di esaudire le richieste in denaro di uno Stato sempre più tirannico perché con l’acqua alla gola, pressato dai “signori del denaro” che esigono il pagamento degli interessi (il capitale è praticamente inesigibile, ma la logica dello strozzino non prevede forse che lo strozzato gli rimanga perennemente legato?).
Ma, peggio ancora, alla fine c’è solo la schiavitù vera e propria, perché tutti (dall’imprenditore all’operaio) sono costretti a lavorare come asini da soma per procurarsi questi stramaledetti soldi che poi, tra tasse, imposte e “scadenze” (si pensi alle “assicurazioni”, alle “revisioni” eccetera eccetera) finiranno tutti di nuovo nelle mani dei loro autentici ed unici proprietari.
Quindi una cosa è da capire bene: che i “signori del denaro” usano lo strumento del denaro non per arricchirsi (questo è l’obiettivo della massa, dall’imprenditore al mentecatto che compra i “gratta e vinci”), ma per dominare le vite altrui derubando innanzitutto la cosa più preziosa di cui ciascuno dispone: il tempo.
Come dicevo, non veniamo mai abituati a mettere insieme i vari pezzi del discorso, sebbene la scuola insista sull’importanza del “ragionare”, ma se tanto mi dà tanto le famose “corvée” (le giornate di lavoro del servo della gleba destinate al “signore”) non sono forse la stessa cosa delle giornate che, conti alla mano, uno lavora per ridare tutto indietro allo Stato? E che dire della “decima”, questo spauracchio che deve terrorizzare gli ignari studenti, da abituare all’idea che la religione ha sempre tiranneggiato la vita delle persone? Magari oggi che la potessimo risolvere con un decimo!
Ma a questo punto arriva l’obiezione che mira a mettere k.o. ogni argomentazione alternativa al vigente andazzo: “Come si fa a garantire i “servizi pubblici” se lo Stato non (tar)tassa i cittadini? Vogliamo rinunciare all’acqua in casa, ai trasporti pubblici, all’illuminazione, alle scuole, alla sanità pubblica eccetera?”.
Certamente no, ma tra “municipalizzate” compartecipate da privati che ragionano in termini di profitto (fino allo scandalo dei tentativi di privatizzare l’acqua!); tasse che richiedono una copertura sempre più consistente del servizio erogato (è di questi giorni la novità della Tares, al posto della Tarsu, la quale oltre alla nettezza urbana coprirà anche le spese per l’illuminazione pubblica e la manutenzione delle strade); un biglietto di bus e metro carissimo (1,50 euro) che incoraggia l’uso dell’auto per tragitti medio-brevi e spostamenti familiari; una scuola pubblica sempre più “parcheggio”, destituita di autorevolezza, che infarcisce i giovani di un conformismo atto a farli diventare da adulti delle brave “pecore da tosare”; un’obiettiva insana abitudine a recarsi di continuo dal dottore e in ospedale da parte degli anziani (che anziché essere in pace con se stessi sono “attaccati” al mondo come solo la prospettiva atea può far fare); tra tutte queste cose, scelte a titolo d’esempio, ci rende conto che questi famosi “servizi” non sono poi così a buon mercato, né convenienti, né di buon livello (tranne le classiche eccezioni che confermano la regola), né utilizzati in maniera consapevole e sensata, ed infine nemmeno tanto “pubblici”, visto che il “privato” ci si è intrufolato sempre di più.
Allora, a fronte della fatidica domanda di cui sopra, uno si chiede: ma come faceva lo stesso Stato, ancora negli anni Settanta, a garantire servizi complessivamente migliori e a costi nettamente inferiori per le tasche dei cittadini? Si pensi solo alla nettezza urbana, con un personale (il famoso “spazzino”) che aveva un lavoro vero, sicuro, ancorché modesto (ma tanto, tale è rimasto); oppure agli autobus cittadini, dove esisteva la figura del bigliettaio… Questo non per fare del “passatismo”, ma per rispondere implicitamente a quelli che, con le bave alla bocca, imbeccati dai soliti in malafede, ritengono che nel “pubblico” ci sia solo da “tagliare” col machete.
Come faceva allora quello stesso Stato (non stiamo parlando dell’Unione Sovietica o della Corea del Nord!) a garantire tutto ciò, in un contesto che non prevedeva affatto gli attuali esosi e soffocanti livelli di tassazione? Molto semplicemente, era uno Stato che ancora aveva un controllo della politica monetaria. Non era la situazione perfetta, ma molto molto meglio di adesso, per tutti quanti, sia per il dipendente pubblico, che neppure immaginava di dover diventare schiavo di qualche “cooperativa di servizi”, sia per l’utente del servizio. Stiamo parlando, inoltre, di una situazione reale, non di un’ipotesi, nella quale uno solo, il maschio, nella maggior parte dei casi mandava avanti la baracca più che dignitosamente. Ciascuno tragga le sue conclusioni.
Ora, di fronte ad uno Stato che s’indebita sempre più (il “debito pubblico” è ovviamente salito anche con questo “governo tecnico”), con la moneta saldamente in mano a privati che lo strangolano volutamente, la soluzione è d’una semplicità disarmante.
Basta rifiutarsi di “pagare il debito” (dove sono finiti i cantanti “alternativi” che indicavano questa strada ai “paesi del Terzo mondo”?) e contemporaneamente riprendere il controllo dello strumento monetario. In fondo non ci vuole molto a mettere su una tipografia, no? Perché è quello che è, a ben vedere, la BCE e qualsiasi altra “banca centrale” che fa pagare a chi s’indebita (gli Stati) il valore nominale scritto sulla banconota mentre i costi di stampa sono nell’ordine di qualche centesimo!
Avete capito bene: la Banca centrale – che ora è la superbanca centrale europea, sommatoria delle finte banche “nazionali”in realtà private – stampa le banconote e le presta agli Stati al valore nominale: 50 euro costano allo Stato 50 euro più gli interessi, eppure quei 50 euro hanno solo un costo tipografico! Un’altra truffa nella truffa.
Oltretutto, si rifletta su una cosa comica ma che in realtà è tragica: che differenza c’è tra i falsari dei film alla Totò e le banche di emissione? Nessuna, perché entrambi stampano soldi come una tipografia: anzi, allo Stato, se proprio non ci tiene a riappropriarsi della moneta, costerebbe certamente meno comprare i soldi dai falsari a Napoli, che magari 50 euro te li vendono a 10 facendoci comunque un superguadagno perché la stampa di una banconota costerà qualche centesimo di euro!
Non si capisce davvero razionalmente quale convenienza vi sia nel proseguire su questa strada, se non rammentandosi sempre che nelle posizioni che contano hanno piazzato esclusivamente uomini di loro fiducia. Gli Stati non sono interessati a riappropriarsi della proprietà della moneta, del diritto di “battere moneta” che da sempre è una delle prerogative dell’autorità (assieme a quello del “monopolio della forza”), perché sono occupati, in tutti i loro gangli, da fedelissimi del sistema bancario-finanziario, e tutti fanno “la bella vita” votando le leggi che danno “legittimità” a questo crimine che non ha pari nella storia dell’umanità.
A ripristinare una normalità ci vorrebbe solo un impavido manipolo di patrioti – o meglio ancora un santo – che, azzerando tutte queste “leggi”, riportassero la banca, finalmente nazionale per davvero, a svolgere un ruolo di sostegno all’attività politica dello Stato. Lo Stato, perciò, dovrebbe emettere per proprio conto, senza rivolgersi a nessun privato camuffato da “banca centrale”, il denaro di cui ha bisogno per la propria vita economica.
Ma nel vigente regime, l’indebitamento è strutturale, non una “stortura”. Gli Stati, e perciò le nazioni, le collettività, s’indebitano per il semplice fatto che non detengono più la proprietà della moneta.
La situazione appena delineata, già allucinante, diventa follia allo stato puro quando si sente aleggiare la minaccia del “fallimento dell’Italia”, e per evitarlo si propone di “salvare le banche”! Punto primo, uno Stato, se con ciò s’intende correttamente una collettività nazionale che gli preesiste, non può fallire, eppure la cosa tragica è che fior fior di “esperti” assicurano il contrario. A questa gentaglia senza coscienza andrebbe posta una semplice domanda: “Secondo lei, la gallina smette di fare le uova se – accettando questa demenziale prospettiva – ‘l’Italia fallisce’?”. “E sempre nella medesima demenziale prospettiva, l’uovo non troverebbe nessuno che se lo mangia e sia disposto perciò a comprarlo?”. I soliti “esperti” hanno pronta la risposta: “Eh, ma se non ci sono i soldi per comprare l’uovo…”. Ma brutti delinquenti, allora ditelo che il problema è l’indisponibilità della moneta, dello strumento di pagamento!
E ci venite pure a raccontare – sempre col ricatto della volatilizzazione dei nostri risparmi – che dovremo dissanguarci per “salvare le banche”? Che sono aziende private, quindi soggette a fallimento come tutte le altre, ma evidentemente dall’orecchio del “libero mercato”, adorato quando fa comodo, non ci sentono proprio.
Mettiamocelo bene in testa, dal momento che ci si avvicina alle prossime elezioni, in un crescendo di promesse da marinaio, frasi ad effetto e cortine fumogene: uno Stato governato secondo sani principi è proprietario, per conto dei cittadini, della moneta nazionale, e le banche dovrebbero tornare fondamentalmente a svolgere la custodia di denaro ed altri valori, percependo per questo un compenso. Mentre adesso prestano ad interesse, sfruttando il fatto che solo una piccola parte dei depositi viene ritirata dai correntisti: se solo fossimo un minimo svegli pretenderemmo la corresponsione d’un interesse (che le banche non danno più), perché i soldi giacenti sui nostri conti vengono prestati di continuo a tassi usurari, magari proprio a noi stessi!
Tutto ciò è profondamente immorale ed ingiusto. Ma ci siamo mai chiesti perché tutte le religioni postulano l’illegalità d’ogni interesse? Perché stabiliscono che è proibito fare soldi dai soldi? No, meglio impressionare gli ignari studenti con la “decima” percepita dal clero: la scuola, si sa, dev’essere “progressista”!
Eppure, l’unica tassa che avrebbe senso sarebbe una tassa di natura religiosa, come l’islamicazakât, che trovando la sua ragion d’essere in una “purificazione” della propria ricchezza, ci riporta al piano che è più consono ad un ordinamento sano e a misura d’uomo, d’un uomo che intende elevarsi e non stare sulla terra a fare la pelle al prossimo. La tassa, dunque, come abitudine al distacco dal superfluo, incoraggiando la circolazione del denaro perché in questo modo tutti ne beneficiano. La zakât, infatti, colpisce i capitali fermi da un anno, e l’etimologia, collegata al verbo zakkâ (“purificare”), ci ricorda la sua natura “edificante”.
Guarda caso, l’attuale “crisi” è “crisi di liquidità”: lo sa bene chi ha in mano il ‘rubinetto del denaro’. Per qualche anno apre il ‘rubinetto’ (erogazione di prestiti con estrema facilità, e tutti si comprano di tutto, pure esagerando), poi comincia a chiuderlo, e in un regime di esosa tassazione, cronica inflazione e disoccupazione crescente (gli stessi piccoli imprenditori, con l’acqua alla gola, devono licenziare), esplode il numero degli insolventi, di quelli che non ce la fanno a stare al passo, col risultato che mentre li han fatti trottare una vita per pagare rate ed interessi, beni reali (comprati “a rate”) finiscono fagocitati dai “prestatori di denaro”. Il gorgo di cui parlavo, alla cui fine c’è la schiavitù pura e semplice, perché cosa resterà a chi ha perso tutto se non prendere atto che la sua vita è nelle mani di costoro?
Il“debito” è poi già una cosa negativa di per sé, anche se non volessimo muovere da una prospettiva religiosa. Ma fanno di tutto per assuefarci ad una sua “normalità”. Dai “debiti scolastici” che abituano lo studente all’andazzo che lo attenderà da grande, a queste uscite senza senso secondo le quali un “bebè” verrebbe al mondo con un’ipoteca sulla sua piccola testolina di circa 33.000 euro.
Non so se si rendono conto dello schifo che fanno certe affermazioni, anche per il solo fatto di averle pronunciate. Come si fa a pensare ad un neonato, ad una creatura così pura e senza peccato, e collegarlo all’idea di un “debito”? C’è senz’altro della perfidia e della malvagità, dal chiaro marchio di fabbrica, dietro a quelle che non vanno valutate come innocue battute.
Questa storia dei 33.000 euro di “debito” sulla crapa di ciascuno di noi ricorda tanto quella del “pollo a testa”. Ma come esistono quelli che di polli ne mangiano a sazietà, con l’ovvia controparte di chi dovrà accontentarsi del ‘pollo’ della statistica, c’è chi sulla sua coscienza ha tutta l’esclusiva responsabilità dei 2.000 e passa miliardi di cosiddetto “debito pubblico”.