La crisi morde sempre più e il governo Monti colpisce i più deboli –
cioè i redditi e i consumi popolari – con l’aumento dell’IVA, il
congelamento delle pensioni attuali e la dilazione di quelle future e
l’attacco ai contratti nazionali (è la politica dettata in primo luogo
da Marchionne). Con i tagli alle amministrazioni locali si sta andando
verso la fine dello stato sociale.
Molte imprese chiudono rami produttivi e licenziano, con ciò si
avvantaggiano diminuendo la produzione per allinearsi all’andamento del
mercato, ma pesano sulla società con il ricorso alla cassa integrazione e
sul sistema produttivo provocando un ulteriore calo dei consumi.
Dalla crisi e dalle manovre vengono colpiti anche altri ceti
(imprenditori piccoli e medi, padroncini, professionisti) oltre ai
lavoratori dipendenti e ai pensionati. Crescono precari e sottoccupati,
sotto il ricatto del licenziamento, e chi ha un contratto vero “a tempo
indeterminato” si sente un privilegiato al loro confronto, anche se
niente gli garantisce che l’attività non verrà chiusa o de localizzata.
Tutto questo frena le lotte, che spesso si riducono a occupare l’azienda
o bloccarne gli accessi e a salire su tetti e torri oppure sciamare in
autostrade e stazioni quando ormai il padronato ha deciso lo
smantellamento.
Con i cambiamenti in atto nelle forme di lavoro e nell’organizzazione
stessa della società la lotta di classe ha uno sviluppo particolare per
cui in questa fase le proteste vengono più da altri settori che dalle
fabbriche.
Il capitalismo è senza testa, pensa solo all’oggi e se programma il
futuro lo fa solo in funzione della singola impresa e senza una visione
complessiva dello sviluppo sociale. L’anarchia produttiva e la
speculazione selvaggia sono connaturati ad esso.
L’euro è una grande delusione rispetto alle sue potenzialità di
alternativa e riequilibrio rispetto al dollaro. I politici e gli
analisti economici puntano il dito sulla mancanza di governo centrale
della politica e della finanza in Europa, ma non si tratta solo di
questo: stipendi e stato sociale sono molto diversi da paese a paese, le
principali produzioni non sono integrate tra loro, e non c’è nessuno
sforzo di rendere più omogenea almeno l’eurozona, mentre sarebbe
necessaria e urgente una politica collettiva in questo senso. Il paese
più forte,la Germania si è rafforzata come paese esportatore di prodotti
ad alto contenuto tecnologico ma, importando beni di consumo a basso
costo dall’Asia , ha messo in difficoltà i paesi europei che producono
gli stessi beni . Di conseguenza se non viene avanti una politica che
migliori la qualità produttiva dell’insieme dei paesi della UE ,
l’Europa si troverà indebolita ed anche la stessa Germania .Grandi paesi
come Russia, Cina, Giappone cercano di allearsi per non essere divorati
dall’attacco dei grandi colossi, mentre da noi c’è chi sogna di uscire
dall’Europa e dall’euro. Il ritorno alla lira è impensabile, avrebbe
costi economici e sociali altissimi (es. rialzi pazzeschi dei mutui) e
provocherebbe un attacco della speculazione internazionale rispetto al
quale quello che subiamo adesso è irrisorio.
L’Italia è comunque sotto assedio, l’attacco è condotto a tutto il
sistema Italia (in quanto punto debole dell’eurozona) , direttamente al
debito pubblico e poi a banche e grandi imprese pubbliche. Ne consegue
il rafforzamento delle funzioni dell’esecutivo: vedi l’insolitamente
ampio consenso – quasi tutta l’ex maggioranza più quasi tutta l’ex
opposizione – al governo Monti e ai suoi decreti legge, che potrebbe
preludere a un sistema di governo più duro e autoritario; ne abbiamo
visto un sintomo nella repressione dei pescatori davanti a Montecitorio.
Come uscire da questa situazione? La speculazione finanziaria si può
combattere con una certa efficacia solo a livello almeno europeo. Quello
che può fare l’Italia è guardare all’economia reale, al fatto di essere
un paese fortemente manifatturiero dell’eurozona.
Occorre tassare seriamente le rendite e riequilibrare il peso fiscale
che grava su lavoratori dipendenti, pensionati e piccole imprese.
E’ essenziale finanziare la ricerca, ma la ricerca pura può occupare
circa l’1% della forza lavoro e a sua volta l’università più che
un’istituzione per la ricerca è una sala d’attesa per futuri precari e
disoccupati. Un reale vantaggio per l’occupazione si ha solo se dalla
ricerca si sviluppano settori innovativi nell’industria e nei servizi.
C’è inoltre l’abbandono delle scuole di mestiere e questo significa che
non si ha alcuna visione di uno sviluppo industriale, che sarebbe
assolutamente necessaria.
Lo stato può e deve offrire lavoro con piani organici per recuperare
territorio (riassetto idrogeologico, rimboschimenti, risanamento di
terreni inquinati o con costruzioni abusive), per restaurare monumenti e
paesaggio, per la manutenzione il riuso e il rinnovo dell’edilizia
pubblica (scuole, ospedali), per infrastrutture e loro industrie
(ferrovie e motrici, trasporto marittimo e cantieri, trasporto locale e
autobus), per servizi (es. banda larga).
Resta vitale produrre dove si consuma: mantenere qui le industrie
esistenti, sviluppare industrie basate sulle nuove tecnologie, garantire
industrie per il consumo di massa anche imponendo controlli di qualità e
lotta al lavoro nero e alla contraffazione (per es. va abolita la legge
per cui una piccola rifinitura o il semplice confezionamento consente
di applicare a un prodotto estero l’etichetta made in Italy).