GEOFINANZA/ Cina-Usa, una nuova "guerra" che colpisce l’Ue
venerdì 17 febbraio 2012
Come vi ho detto ieri, la Cina ha ribadito la sua intenzione di aiutare l’Europa a sostenere il proprio debito. Al netto del fatto che è la quinta volta in un anno che da Pechino giungono rassicurazioni in tal senso, mai seguite dai fatti, e che le banche cinesi, al contrario, stanno scaricando le loro esposizioni sull’eurozona, qual è lo stato di salute del gigante asiatico? Già la scorsa settimana avevo parlato di dati tutt’altro che incoraggianti riguardo l’economia cinese, ma la messe di cattive notizie prosegue, quasi alluvionale.
La massa monetaria M1 cinese ha raggiunto il minimo da dieci anni a questa parte, il consumo cinese di energia elettrica è crollato del 7,5% in gennaio, anno su anno e tutte le volte che è avvenuto un crollo su base annuale del consumo di energia elettrica, si è registrata una diminuzione della produzione industriale cinese. Ricordate poi i dati sul Baltic Dry Index, ai minimi dai tempi della crisi Lehman Brothers e in grado di segnalare una crisi nera riguardo l’export e le spedizioni via mare (al netto della sovraccapacità di stiva creatasi per il boom di nuove navi tra il 2005 e il 2008)? Beh, c’è dell’altro.
La Lloyd’s List, indicatore specializzato nello shipping, ci dice chiaramente che il traffico container nel porto di Shanghai, il più grande del mondo, è sceso di 100mila unità a gennaio rispetto all’anno prima, un calo del 4%. I volumi, dal canto loro, sono scesi di oltre un milione di tonnellate. Certo, le festività per l’anno nuovo in Cina possono incidere minimamente su queste cifre, ma il rallentamento dell’operatività e il calo di volumi al porto di Shanghai vanno avanti da mesi. «Il mercato dello shipping cinese affronta sfide gravose e la situazione nel corso di quest’anno tenderà ad aggravarsi», conferma lo Shanghai International Shipping Institute. Ma qual è il settore che maggiormente ha colpito i volumi dell’hub portuale cinese? La rotta Asia-Europa. E i dati resi noti la scorsa settimana dal Fondo monetario internazionale parlano la lingua di «un pericolo chiaro e presente per la Cina che emana dall’Europa, un qualcosa che potrebbe erodere 4 punti percentuali di crescita, se la crisi dell’eurozona dovesse aggravarsi e culminare in una pesante recessione. Se questo scenario negativo dovesse tramutarsi in realtà, la Cina dovrebbe rispondere con l’adozione di un significativo pacchetto fiscale».
Un calo della crescita globale dell’1,75% potrebbe incidere sul taglio della crescita cinese per più del doppio, a meno che Pechino non intervenga con passi decisi per controllare lo shock, a dimostrazione di quanto sia diventato distorto il modello economico cinese. Per il Fmi, «la Cina potrebbe essere altamente esposta alla situazione europea attraverso i suoi link commerciali», chiaro segnale di Washington a Pechino per ricordargli quanto abbia da perdere in caso l’Europa vada a zampe all’aria: messaggio sottinteso, preparatevi a stampare moneta per un eventuale super-fondo d’emergenza a nostra guida e gestione.
Al contempo, però, sempre il Fmi mette in guardia la Cina da tentazioni riguardo un nuovo blitz attraverso il sistema bancario o nuovi progetti infrastrutturali: «La Cina ha di fronte a sé ancora un periodo abbastanza lungo per digerire gli effetti collaterali della crescita del credito negli anni in cui nasceva la crisi globale. Un grosso shock esterno potrebbe quindi portare agli estremi questi rischi domestici». Ovvero, bolla bancaria e infrastrutturale pronta a scoppiare insieme all’eurozona. Anche perché il Fmi ha detto chiaramente che la Cina ha già portato il proprio debito ben oltre i limiti di sicurezza, visto che la ratio tra prestiti e Pil è raddoppiata giungendo al 200% negli ultimi cinque anni, un balzo in avanti molto maggiore di quello registrato negli Usa durante la bolla dei subprime.
Una situazione che si è riverberata nella proprietà, settore già esacerbato dai tassi d’interesse sui conti correnti che lo scorso anno hanno toccato il -3% in termini reali, fattispecie che ha spinto gli investitori verso hard assets. Il primo soggetto cinese nell’edilizia, China Vanke, ha registrato un calo di vendite immobiliari del 39% nel mese di gennaio, mentre la Guangzhou R&F addirittura del 57%. Dati che fanno vedere scuro al vice-presidente della Vanke, Mao Daqing, secondo cui «le cose saranno davvero difficili nel 2012: sarà un test per l’intera industria, visto che la battaglia dei prezzi combattuta prima di Natale non ha sortito l’effetto di bloccare il crollo delle vendite». Moody’s, per quanto le sue valutazioni siano credibili, ha avanzato dubbi sul fatto che i giganti delle costruzioni di Hong Kong riusciranno a rifinanziare il loro debito estero quest’anno, mentre per il Caixin Magazine il mercato della proprietà da «surriscaldato si è tramutato in polare».
Insomma, se servirà un stimolo per bloccare la bolla, per il Fmi le autorità cinesi dovranno ricorrere a un enorme deficit di budget che vada a colpire trasferimenti e benefit per i disoccupati. Addirittura, definendo «un pacchetto fiscale come la prima linea della difesa», il Fmi ha proposto alla Cina sussidi diretti per l’acquisto di elettrodomestici, una sorta di versione cinese del “cash-for-clunkers”, la nostra rottamazione per capirci ma legata all’efficienza dei consumi e alla riduzione dell’impatto ambientale. Insomma, la Cina farebbe meglio a salvare se stessa, prima di salvare l’eurozona. Sarà per questo che nel corso della sua visita a Washington, il vicepresidente cinese, Xi Jinping, ha parlato di «un nuovo storico inizio delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, un fiume inarrestabile che continua a scorrere».