GRILLO/ il merito è di Berlusconi e Bersani
INT.
Claudio Sardo
giovedì 24 maggio 2012
A pochi giorni dalle elezioni amministrative i bilanci e le valutazioni sulle prospettive del sistema politico per il 2013 si rincorrono. Se l’esperienza del Terzo Polo era già stata archiviata alla vigilia da Pier Ferdinando Casini, nel Pdl si torna a parlare di un azzeramento dei vertici e di una clamorosa “novità” da presentare a giorni. Nel Partito Democratico, invece, l’opposizione interna, a partire dal “rottamatore” Renzi, prende di mira le dichiarazioni di vittoria di Pier Luigi Bersani. «Penso che il segretario abbia compiuto una forzatura dialettica – spiega aIlSussidiario.net il direttore de l’Unità, Claudio Sardo –. Insistere sul concetto di vittoria significava infatti contrastare il pensiero unico secondo cui “i partiti hanno perso e sono tutti uguali”. Una lettura ideologica, che tra l’altro accomuna giornali come Il Fatto Quotidiano, Liberoe Il Giornale, secondo la quale l’unico vincitore di questa tornata sarebbe Beppe Grillo, mentre la classe dirigente italiana consisterebbe in una massa uniforme nella quale non esistono differenze tra chi ha sostenuto Berlusconi e Tremonti e chi invece ha fatto opposizione».
Al netto di questa preoccupazione, qual è il suo bilancio?
Io credo che il Pd possa iscriversi di diritto nella lista dei vincitori, ma non debba negare l’esistenza di alcune profonde fragilità. Innanzitutto a livello di sistema: siamo alla fine di una stagione politica e i democratici non devono commettere l’errore che i loro “antenati” fecero nel ’93, quando si accontentarono di approfittare delle regole esistenti e non riformarono il sistema, preparando la discesa in campo di Berlusconi e andando incontro alla disfatta.
In secondo luogo esistono delle fragilità interne. Le primarie, ad esempio, dopo alcuni esisti positivi, sono state drammaticamente fallimentari.
Si riferisce al caso di Palermo?
Non solo, sia nel capoluogo siciliano, sia a Cuneo abbiamo assistito a un fenomeno preoccupante. Due componenti del centrosinistra, una più radicale a Palermo, una più moderata in Piemonte, hanno deciso di ribellarsi alla sconfitta, vincendo poi le elezioni.
Quale lezione dovrebbe imparare quindi il Pd?
Le primarie sono uno strumento utile se c’è una convergenza di strategie, se invece servono soltanto a regolare i conti in sospeso tra i partiti o a mettere in discussione lo schema delle alleanze si rivelano un autentico disastro. D’altra parte, il Pd è l’unica forza politica che non si vergogna di chiamarsi “partito”, ma non può compensare con alcuni strumenti esterni l’incapacità di prendere decisioni politiche.
Quali sarebbero invece gli altri punti deboli sul piano interno?
Nel panorama italiano il Pd è senza dubbio il partito con la più grande capacità aggregativa. A mio avviso, però, il punto di partenza per costruire alleanze stabili è la prospettiva internazionale. Quali alleanze a livello europeo si vogliono mettere in campo? I progressisti europei sapranno rimettere al primo piano la crescita e l’integrazione europea?
Se si parte da queste domande le alleanze sul piano nazionale saranno solo una conseguenza. Credo, ad esempio, che ci siano molte affinità con Sel, ma molte meno con un’Italia dei Valori che strizza l’occhio al radicalismo di Grillo.
Se il Partito Democratico non dovesse sciogliere questi nodi quali sarebbero i rischi?
Il Pd potrebbe anche vincere le elezioni politiche, ma all’interno di un quadro instabile, segnato dalla più grave crisi economica dal Dopoguerra, e con un forte senso di delegittimazione che viene dal basso.
Per questo, a mio avviso, deve cercare in questi mesi di portare a termine, assieme alle altre forze politiche, la riforma elettorale e quella del finanziamento pubblico dei partiti. Un’operazione non esente da rischi, ma che secondo me è il caso di correre.
A cosa si riferisce?
Costruire le alleanze e vincere le elezioni sulla base di un sistema di regole che si è rivelato fallimentare è una tentazione pericolosa, ma non bisogna rassegnarsi all’attuale schema.
Solo in questo modo si potrebbe dare un senso alla transizione guidata da Mario Monti, dato che i compiti a casa che il Professore ci ha fatto fare non erano quelli giusti. Oggi, grazie a Hollande e a Obama, si aprono nuove possibilità nell’impostazione della politica economica, ma il sistema politico deve fare la sua parte.
In Grecia, il fallimento della Grande coalizione ha distrutto un sistema che era decisamente stabile. Noi dobbiamo impedire che questo accada anche in Italia.
GRILLO/ il merito è di Berlusconi e Bersani
INT.
Claudio Sardo
A pochi giorni dalle elezioni amministrative i bilanci e le valutazioni sulle prospettive del sistema politico per il 2013 si rincorrono. Se l’esperienza del Terzo Polo era già stata archiviata alla vigilia da Pier Ferdinando Casini, nel Pdl si torna a parlare di un azzeramento dei vertici e di una clamorosa “novità” da presentare a giorni. Nel Partito Democratico, invece, l’opposizione interna, a partire dal “rottamatore” Renzi, prende di mira le dichiarazioni di vittoria di Pier Luigi Bersani. «Penso che il segretario abbia compiuto una forzatura dialettica – spiega aIlSussidiario.net il direttore de l’Unità, Claudio Sardo –. Insistere sul concetto di vittoria significava infatti contrastare il pensiero unico secondo cui “i partiti hanno perso e sono tutti uguali”. Una lettura ideologica, che tra l’altro accomuna giornali come Il Fatto Quotidiano, Liberoe Il Giornale, secondo la quale l’unico vincitore di questa tornata sarebbe Beppe Grillo, mentre la classe dirigente italiana consisterebbe in una massa uniforme nella quale non esistono differenze tra chi ha sostenuto Berlusconi e Tremonti e chi invece ha fatto opposizione».
Al netto di questa preoccupazione, qual è il suo bilancio?
Io credo che il Pd possa iscriversi di diritto nella lista dei vincitori, ma non debba negare l’esistenza di alcune profonde fragilità. Innanzitutto a livello di sistema: siamo alla fine di una stagione politica e i democratici non devono commettere l’errore che i loro “antenati” fecero nel ’93, quando si accontentarono di approfittare delle regole esistenti e non riformarono il sistema, preparando la discesa in campo di Berlusconi e andando incontro alla disfatta.
In secondo luogo esistono delle fragilità interne. Le primarie, ad esempio, dopo alcuni esisti positivi, sono state drammaticamente fallimentari.
Si riferisce al caso di Palermo?
Non solo, sia nel capoluogo siciliano, sia a Cuneo abbiamo assistito a un fenomeno preoccupante. Due componenti del centrosinistra, una più radicale a Palermo, una più moderata in Piemonte, hanno deciso di ribellarsi alla sconfitta, vincendo poi le elezioni.
Quale lezione dovrebbe imparare quindi il Pd?
Le primarie sono uno strumento utile se c’è una convergenza di strategie, se invece servono soltanto a regolare i conti in sospeso tra i partiti o a mettere in discussione lo schema delle alleanze si rivelano un autentico disastro. D’altra parte, il Pd è l’unica forza politica che non si vergogna di chiamarsi “partito”, ma non può compensare con alcuni strumenti esterni l’incapacità di prendere decisioni politiche.
Quali sarebbero invece gli altri punti deboli sul piano interno?
Nel panorama italiano il Pd è senza dubbio il partito con la più grande capacità aggregativa. A mio avviso, però, il punto di partenza per costruire alleanze stabili è la prospettiva internazionale. Quali alleanze a livello europeo si vogliono mettere in campo? I progressisti europei sapranno rimettere al primo piano la crescita e l’integrazione europea?
Se si parte da queste domande le alleanze sul piano nazionale saranno solo una conseguenza. Credo, ad esempio, che ci siano molte affinità con Sel, ma molte meno con un’Italia dei Valori che strizza l’occhio al radicalismo di Grillo.
Se il Partito Democratico non dovesse sciogliere questi nodi quali sarebbero i rischi?
Al netto di questa preoccupazione, qual è il suo bilancio?
Io credo che il Pd possa iscriversi di diritto nella lista dei vincitori, ma non debba negare l’esistenza di alcune profonde fragilità. Innanzitutto a livello di sistema: siamo alla fine di una stagione politica e i democratici non devono commettere l’errore che i loro “antenati” fecero nel ’93, quando si accontentarono di approfittare delle regole esistenti e non riformarono il sistema, preparando la discesa in campo di Berlusconi e andando incontro alla disfatta.
In secondo luogo esistono delle fragilità interne. Le primarie, ad esempio, dopo alcuni esisti positivi, sono state drammaticamente fallimentari.
Si riferisce al caso di Palermo?
Non solo, sia nel capoluogo siciliano, sia a Cuneo abbiamo assistito a un fenomeno preoccupante. Due componenti del centrosinistra, una più radicale a Palermo, una più moderata in Piemonte, hanno deciso di ribellarsi alla sconfitta, vincendo poi le elezioni.
Quale lezione dovrebbe imparare quindi il Pd?
Le primarie sono uno strumento utile se c’è una convergenza di strategie, se invece servono soltanto a regolare i conti in sospeso tra i partiti o a mettere in discussione lo schema delle alleanze si rivelano un autentico disastro. D’altra parte, il Pd è l’unica forza politica che non si vergogna di chiamarsi “partito”, ma non può compensare con alcuni strumenti esterni l’incapacità di prendere decisioni politiche.
Quali sarebbero invece gli altri punti deboli sul piano interno?
Nel panorama italiano il Pd è senza dubbio il partito con la più grande capacità aggregativa. A mio avviso, però, il punto di partenza per costruire alleanze stabili è la prospettiva internazionale. Quali alleanze a livello europeo si vogliono mettere in campo? I progressisti europei sapranno rimettere al primo piano la crescita e l’integrazione europea?
Se si parte da queste domande le alleanze sul piano nazionale saranno solo una conseguenza. Credo, ad esempio, che ci siano molte affinità con Sel, ma molte meno con un’Italia dei Valori che strizza l’occhio al radicalismo di Grillo.
Se il Partito Democratico non dovesse sciogliere questi nodi quali sarebbero i rischi?
Il Pd potrebbe anche vincere le elezioni politiche, ma all’interno di un quadro instabile, segnato dalla più grave crisi economica dal Dopoguerra, e con un forte senso di delegittimazione che viene dal basso.
Per questo, a mio avviso, deve cercare in questi mesi di portare a termine, assieme alle altre forze politiche, la riforma elettorale e quella del finanziamento pubblico dei partiti. Un’operazione non esente da rischi, ma che secondo me è il caso di correre.
A cosa si riferisce?
Costruire le alleanze e vincere le elezioni sulla base di un sistema di regole che si è rivelato fallimentare è una tentazione pericolosa, ma non bisogna rassegnarsi all’attuale schema.
Solo in questo modo si potrebbe dare un senso alla transizione guidata da Mario Monti, dato che i compiti a casa che il Professore ci ha fatto fare non erano quelli giusti. Oggi, grazie a Hollande e a Obama, si aprono nuove possibilità nell’impostazione della politica economica, ma il sistema politico deve fare la sua parte.
In Grecia, il fallimento della Grande coalizione ha distrutto un sistema che era decisamente stabile. Noi dobbiamo impedire che questo accada anche in Italia.
Per questo, a mio avviso, deve cercare in questi mesi di portare a termine, assieme alle altre forze politiche, la riforma elettorale e quella del finanziamento pubblico dei partiti. Un’operazione non esente da rischi, ma che secondo me è il caso di correre.
A cosa si riferisce?
Costruire le alleanze e vincere le elezioni sulla base di un sistema di regole che si è rivelato fallimentare è una tentazione pericolosa, ma non bisogna rassegnarsi all’attuale schema.
Solo in questo modo si potrebbe dare un senso alla transizione guidata da Mario Monti, dato che i compiti a casa che il Professore ci ha fatto fare non erano quelli giusti. Oggi, grazie a Hollande e a Obama, si aprono nuove possibilità nell’impostazione della politica economica, ma il sistema politico deve fare la sua parte.
In Grecia, il fallimento della Grande coalizione ha distrutto un sistema che era decisamente stabile. Noi dobbiamo impedire che questo accada anche in Italia.