giovedì 2 febbraio 2012




Gulag America

di Giuliano Santoro
Mentre state leggendo queste righe, negli Stati uniti ci sono 6 milioni di persone soggette a restrizione della libertà personale. È una cifra impressionante, che ha portato Adam Gopnick a scrivere sulle pagine dell’autorevole New Yorker che nella cosiddetta “Terra dei liberi” ci sono più detenuti “che nell’Unione sovietica dell’Arcipelago Gulag di Stalin al suo apice”.
Così, mentre comincia la lunga campagna elettorale che ci condurrà alle presidenziali d’autunno, il settimanale liberal della Grande Mela pubblica un saggio accurato e impietoso sullo stato della carcerazione di massa negli Stati Uniti. Sullo sfondo, Obama sorride in videochat su YouTube, cercando di far dimenticare le timidezze che hanno segnato il suo primo mandato, e prova ad accreditarsi a sinistra rivendicando la necessità di “tassare di più i ricchi”.

L’articolo del New Yorker comincia mettendo in fila alcuni termini di raffronto, per capire le dimensioni e le caratteristiche dell’America imprigionata. La detenzione di massa è cresciuta dopo gli anni Ottanta: prima del 1980, c’erano 220 detenuti ogni 100 mila americani. Il numero delle persone in cella adesso è più che triplicato: ogni 100 mila cittadini, ci sono 731 galeotti. Ogni giorno 50 mila persone, una massa di gente che farebbe il tutto esaurito allo Yankee Stadium, si svegliano in cella d’isolamento. Ogni anno 70 mila detenuti subiscono violenze sessuali. Da venti anni a questa parte, inoltre, la somma che viene investita per le carceri supera di sette volte quella che si spende nella formazione superiore. La relazione tra formazione e detenzione non è casuale: si calcola che la metà degli afroamericani che non ha un diploma in tasca prima o poi finisca in galera.

Il fattore etnico è fondamentale. I milioni di uomini e donne che popolano l’immaginaria città dei detenuti e dei controllati dalla legge, ribattezzata da Gopnick “Lockuptown”, costituiscono la seconda metropoli del paese. È una città, quella delle sbarre e delle manette, dove ancora nonostante il “presidente nero”, vige una qualche forma di apartheid. “La detenzione di massa – scrive Gopnick – ha influenza sulla società contemporanea come avveniva per la schiavitù nel 1850”. Infatti, autorevoli studi dimostrano come il sistema penitenziario americano di oggi sia la continuazione con altri mezzi (neanche tanto diversi) del regime segregazionista.

Se gli afroamericani vengono arrestati in misura sette volte superiore ai cittadini bianchi, dunque, è perché l’America razzista non ha mai smesso di condurre la sua battaglia: travolta dal movimento per i diritti civili degli anni Sessanta e Settanta ha continuato a lavorare sotto traccia. E ad agire di concerto con il perverso sistema delle prigioni private, che producono profitti solo massimizzando il numero dei detenuti e risparmiando al massimo sul loro reinserimento. Inutile dire che le lobby della detenzione privata oliano il meccanismo diabolico che Gopnick descrive con spietata sincerità parafrasando Brecht: si tratta di “un’impresa capitalistica che si nutre dell’uomo cercando di impedire che si faccia qualcosa per impedire quella miseria”. È un modello inquietante quello della “galera for profit”, che si vorrebbe importare anche nel nostro paese, con la scusa delle “liberalizzazioni” di Monti.

Quanto agli Stati Uniti, la sintesi viene dalla giurista, laurea a Stanford e cattedra in Ohio, Michelle Alexander: “Il sistema di incarcerazione di massa afroamericano lavora per incatenare gli afroamericani in gabbie reali e virtuali”. Insomma, sarebbe ora che Obama si scrolli davvero di dosso quella che Paul Krugman tempo fa ha definito efficacemente la “sindrome di Anzio”: dopo essere sbarcato, non dovrebbe indugiare sul bagnasciuga.

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