IL PALAZZO/ E ora la "maledizione" di Berlusconi colpisce anche Monti
lunedì 27 febbraio 2012
Incertezza. Chi si aspettava che il governo «salva-Italia», con il suo illustre bagaglio di professori e i relativi dossier di misure infallibili, dovesse mostrare tentennamenti, battute d’arresto, insicurezze? «Siamo preoccupati per l’incertezza del provvedimento riguardante l’Imu sui beni ecclesiastici», ha detto ieri monsignor Giuseppe Pennisi dando voce alle perplessità non solo della Cei, ma dell’intera opinione pubblica.
Mario Monti è partito sparato con il decreto «salva-Italia», ha tirato dritto con un secondo decreto «cresci-Italia», dove già aveva assaggiato che cosa significa scontrarsi con il muro corporativo che cinge il Paese. Quindi è stata la volta delle liberalizzazioni, tema spinosissimo quanto vasto e sfuggente. Il testo è stato riscritto un’infinità di volte e le correzioni non sembrano terminate. Dai tassisti ai farmacisti, dai preventivi degli avvocati ai concorsi per notai, la sensazione è che uno dei temi più cari al premier bocconiano (per dieci anni si è occupato proprio di libera concorrenza come commissario europeo) diventi la proverbiale montagna che partorisce il topolino.
Ora tocca al dibattito sulla riforma del lavoro, dove troneggia lo scoglio dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello che impone un pesante vincolo sulla possibilità di licenziare. Monti si sgola in ogni occasione - l’ultima sabato all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi - a dire che il governo ascolterà tutti e poi deciderà in autonomia. Ma il ministro Elsa Fornero non sta gestendo nel modo migliore la trattativa con il sindacato, alternando minacce ad accenni di dialogo che a un qualsiasi ministro del precedente esecutivo non sarebbero stati perdonati.
Sembra quasi che il tecnogoverno sia vittima della stessa paralisi che colpì Silvio Berlusconi agli inizi del suo ultimo mandato: efficace nell’emergenza (i rifiuti di Napoli, il dossier Alitalia, la ricostruzione nell’Abruzzo terremotato, il G8) quanto inconcludente nelle riforme per modernizzare l’Italia. Così Monti ha riguadagnato immediatamente credibilità internazionale imponendo sacrifici eccezionali senza che il Paese gli si rivoltasse contro, ma ora alla prova delle riforme più «politiche» e meno emergenziali (pressione fiscale, sburocratizzazione, lavoro, crescita) si trova impantanato.
Mario Monti è partito sparato con il decreto «salva-Italia», ha tirato dritto con un secondo decreto «cresci-Italia», dove già aveva assaggiato che cosa significa scontrarsi con il muro corporativo che cinge il Paese. Quindi è stata la volta delle liberalizzazioni, tema spinosissimo quanto vasto e sfuggente. Il testo è stato riscritto un’infinità di volte e le correzioni non sembrano terminate. Dai tassisti ai farmacisti, dai preventivi degli avvocati ai concorsi per notai, la sensazione è che uno dei temi più cari al premier bocconiano (per dieci anni si è occupato proprio di libera concorrenza come commissario europeo) diventi la proverbiale montagna che partorisce il topolino.
Ora tocca al dibattito sulla riforma del lavoro, dove troneggia lo scoglio dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello che impone un pesante vincolo sulla possibilità di licenziare. Monti si sgola in ogni occasione - l’ultima sabato all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi - a dire che il governo ascolterà tutti e poi deciderà in autonomia. Ma il ministro Elsa Fornero non sta gestendo nel modo migliore la trattativa con il sindacato, alternando minacce ad accenni di dialogo che a un qualsiasi ministro del precedente esecutivo non sarebbero stati perdonati.
Sembra quasi che il tecnogoverno sia vittima della stessa paralisi che colpì Silvio Berlusconi agli inizi del suo ultimo mandato: efficace nell’emergenza (i rifiuti di Napoli, il dossier Alitalia, la ricostruzione nell’Abruzzo terremotato, il G8) quanto inconcludente nelle riforme per modernizzare l’Italia. Così Monti ha riguadagnato immediatamente credibilità internazionale imponendo sacrifici eccezionali senza che il Paese gli si rivoltasse contro, ma ora alla prova delle riforme più «politiche» e meno emergenziali (pressione fiscale, sburocratizzazione, lavoro, crescita) si trova impantanato.
La strizzata «salva-Italia» ci avrà evitato il baratro; resta il fatto che negli ultimi mesi lo spread - benché ridotto - è rimasto a livelli allarmanti, la disoccupazione soprattutto giovanile è cresciuta, le discutibilissime agenzie internazionali di rating ci hanno declassati, la tassazione è ai massimi e alle viste non ci sono riduzioni. Si sta discutendo sulla costituzione di un apposito «tesoretto», Passera lo vuole, Grilli disillude, Monti traccheggia, ma nessuno crede veramente che nel 2014 pagheremo meno imposte.
Il «tesoretto», secondo quanto ha detto ieri il ministro Passera, dovrebbe essere alimentato dai proventi della lotta all’evasione fiscale, dalla «spending review» e dalla cessione di asset statali: ma nemmeno su questo c’è accordo nel governo. Intanto Eurostat comunica che salari e stipendi italiani sono i più bassi d’Europa ma il ministro Fornero si limita ad auspicare un recupero di produttività dei lavoratori. Incertezza, appunto. L’ultima cosa che ci si attendeva dal supergoverno dei professori
Il «tesoretto», secondo quanto ha detto ieri il ministro Passera, dovrebbe essere alimentato dai proventi della lotta all’evasione fiscale, dalla «spending review» e dalla cessione di asset statali: ma nemmeno su questo c’è accordo nel governo. Intanto Eurostat comunica che salari e stipendi italiani sono i più bassi d’Europa ma il ministro Fornero si limita ad auspicare un recupero di produttività dei lavoratori. Incertezza, appunto. L’ultima cosa che ci si attendeva dal supergoverno dei professori