La lunga storia di una crisi di sistema, scenari e proposte, intervista a Luciano Vasapollo
Con questa lunga e articolata intervista il professor Luciano Vasapollo offre una propria ricostruzione della crisi che sta sconvolgendo il capitalismo mondiale. Una crisi politica da cui non si può uscire con ricette palliative ma solo con una proposta di alternativa radicale (di stefano galieni per Controlacrisi.org)
– lunedì, 21 maggio 2012
La crisi attuale e le turbolenze in Europa di questi mesi vanno lette per Luciano Vasapollo, Professore di economia applicata all’Università La Sapienza e Direttore di Cestes – Proteo (Centro Studi dell’USB), all’interno di un processo storico-economico molto lungo di cui bisogna assolutamente tenere conto in maniera puntuale per capirne la reale entità.
«Quanto sta accadendo oggi è la conseguenza politico-economica di quanto avviene da molti anni e non è un dettaglio comprendere la tipologia, l’origine e gli effetti di questa crisi. Nel modo di produzione capitalista si possono, in termini marxiani definire e analizzare tre tipologie di crisi, quella a carattere congiunturale, quella strutturale e quella sistemica. Oggi tutti parlano di crisi sistemica ma pochi sanno veramente di cosa si tratta, ed inoltre quando noi analisti marxisti ne parlavamo in tempi non sospetti già negli anni novanta nessuno ci dava credito».
E quali sono le differenze sostanziali?
«La crisi congiunturale è da considerarsi “normale”, poiché non è vero che il modo di produzione capitalistico è in equilibrio o in costante crescita quantitativa. Aveva perfettamente ragione Marx quando individuava le crisi come fase interna del ciclo in un modello economico produttivo di disequilibrio, e quindi fasi di sovrapproduzione, situazione che obbliga alla conseguente irrinunciabile condizione di bruciare forze produttive, distruggendo cioè forza lavoro e capitali in eccesso, materiali, tecnologici e finanziari, per poter ricreare le condizioni di una crescita capace di realizzare masse e tassi di profitto reputati “soddisfacenti” e ottenuti attraverso gli investimenti di plusvalore in nuovi processi di accumulazione del capitale a maggiore profittabilità .
La grande crisi del 1929 assume invece caratteri di strutturalità poiché il capitale internazionale aveva bisogno di un nuovo e diverso modello di accumulazione, anche se la stessa crisi di allora appariva o veniva presentata come quella di oggi come fosse di carattere finanziario, ma in realtà partiva da una profonda crisi dei fondamentali macroeconomici dello stesso modo di produzione capitalistico. Si è usciti da tale crisi con la messa a produzione di massa del fordismo e del taylorismo, e applicando il modello keynesiano di sostenimento della domanda realizzando un grande intervento pubblico, cioè innalzando gli investimenti in spesa pubblica, che non si traduce immediatamente in spese sociali.
Tanto è che dalla crisi del 1929 non si è usciti con il new deal ma attraverso il keynesimo militare che esprime il suo massimo livello con la seconda guerra mondiale e con la stessa ricostruzione post- bellica. Gli Stati Uniti diventano la nuova locomotiva mondiale allo sviluppo capitalistico, infatti rafforzando l’apparato industriale militare nella preparazione alla guerra e non dovendosi neanche preoccupare a guerra finita della loro ricostruzione perché non subiscono danni nel loro territorio, possono dedicare risorse da destinare agli investimenti produttivi nella ricostruzione dopo i danni di guerra subiti dai paesi europei, realizzando così un forte interventismo statale attraverso la politica degli aiuti sul modello dei “Piani Marshall”.
Tale situazione permette agli USA di realizzare un proprio sviluppo economico basato soprattutto sull’import e sull’indebitamento, interno , esterno, pubblico e privato. Una economia così strutturata sull’indebitamento poiché basata sull’importazione, determina quantità di dollari e di titoli in dollari certamente superiori alla ricchezza realizzata dagli Stati Uniti, contravvenendo così alle regole basilari degli accordi di Bretton Woods.
I paesi creditori accumulano così valuta USA in un mondo fortemente “dollarizzato”. Si arriva al punto a fine anni ’60 che i dollari in circolazione a livello mondiale sono almeno sei volte la ricchezza degli Stati Uniti e quindi di fatto gli accordi di Bretton Woods inevitabilmente saltano per una imposizione unilaterale da parte degli Usa, che vogliono campo libero per un ulteriore sviluppo del loro modello importatore-debitorio da imporre al mondo in termini politico-commerciale o anche politico-militare espansionistici.
Anche perché intanto muta lo scenario mondiale?
«Infatti nel frattempo entrano in campo due nuovi competitori internazionali, cioè i Paesi sconfitti nel conflitto, la Germania e il Giappone, che scelgono per la ricostruzione e il rafforzamento del proprio sistema di sviluppo interno, un modello capitalistico diverso da quello statunitense, meno aggressivo. Tale modello è stato definito renano – nipponico, e si basava soprattutto su un forte e riqualificato apparato industriale, in funzione di una articolata e competitiva propensione all’esport, mantenendo un ruolo importante dell’impresa pubblica; un modello sostenuto da un consociativismo con le forze sindacali controbilanciato da un capitalismo più a carattere sociale rispetto a quello USA, o meglio anglosassone, definito anche capitalismo aggressivo e selvaggio. Il modello renano-nipponico ha permesso a tali paesi un forte rafforzamento dell’apparato industriale interno, mantenendo salari relativamente più alti, imponendo così una condizione di bassa conflittualità sociale. Tale strutturazione ha creato da subito problemi competitivi agli Usa che verso il Giappone hanno scatenato una vera guerra speculativa per diminuire la competitività internazionale del Giappone e dello yen. La Germania nel frattempo continua il proprio rafforzamento industriale con una forte capacità esportatrice e per poter mantenere tale modello aveva bisogno di una moneta forte e di un’area europea che assumesse i caratteri di polo economico-commerciale e monetario a guida tedesca, e per far ciò necessitava eliminare competitori interni a tale nuovo polo geoeconomico deindustrializzandoli e rendendoli dipendenti dall’esport della Germania..
È allora che comincia la crisi sistemica che oggi vediamo chiaramente.
Intanto con la fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 si evidenzia anche l’inizio dell’attuale crisi sistemica, a causa delle stesse difficoltà nel realizzare da parte del capitale internazionale un nuovo modello di accumulazione in grado da permettere non solo la crescita della massa complessiva del plusvalore ma tale che sappia mantenere per i paesi a capitalismo avanzato quei tassi di profitto reputati congrui per far ripartire il sistema ai livelli di crescita alla profittabilità desiderata .
Gli effetti di tale crisi portano necessariamente all’acuirsi della competizione globale, che viene definita come la nuova fase della globalizzazione; in effetti una nuova fase della mondializzazione capitalista in cui a globalizzarsi in effetti è l’espansione soffocante della finanza. In effetti la crisi sistemica del capitale necessita della globalizzazione neoliberista che sviluppa politiche economiche restrittive tese a contrarre i salari diretti, indiretti e differiti e contemporaneamente a tentare di aumentare la massa dei ricavi, per compensare la evidente caduta tendenziale del saggio di profitto. Si cerca così di invadere nuovi mercati attraverso nuovi progetti e modalità di presentarsi degli imperialismi, a matrice USA ed euro-germanica, a carattere economico-politico-militare per tentare di risolvere la crisi. Agli altri paesi europei viene imposta la deindustrializzazione e la delocalizzazione dell’attività produttiva in un nuovo disegno della divisione internazionale del lavoro.
Si sviluppa in tal modo la cosiddetta fase della globalizzazione neoliberista partendo da forti processi di deregolamentazione dei mercati, abbattendo il ruolo interventista nell’economia da parte degli Stati, puntando ad un modello di competizione globale che sviluppa in primis un attacco senza precedenti al costo del lavoro e contemporaneamente processi di delocalizzazione produttiva (in paesi con lavoro a basso costo ma specializzato, non normato e non sindacalizzato, in questo modo si fa piazza pulita dell’industria dei maggiori competitori europei con la Germania), esternalizzazioni, privatizzazioni e dirottando risorse su una finanza aggressiva e destabilizzante, tentando di realizzare con le rendite quanto non si riusciva ad ottenere in termini di profitti.
Il Marco non può farcela a reggere alla competizione internazionale con l’area del dollaro se non si crea un polo economico commerciale europeo che metta la moneta tedesca in condizione di competere col dollaro e con un’economia della Germania che possa ambire a diventare la nuova locomotiva del capitalismo internazionale.
Insomma fin dagli anni ’70 si gettano le basi per la costruzione dell’Europa dell’euro e del polo imperialista europeo».
Quindi l’euro è di fatto una moneta che sostituisce il marco?
«La costruzione del polo imperialista europeo di fatto avviene sulle necessita competitive internazionali della Germania; pertanto lo stesso euro è da considerarsi una sorta di Super Marco, ed infatti i tassi di cambio imposti agli altri paesi europei non sono stati pesati in base alla ricchezza dei singoli Stati ma in funzione delle necessità competitive politico-economiche e politico-monetarie della Germania. Non è un caso che nei mesi successivi all’introduzione dell’euro, ad esempio, in Italia. il potere d’acquisto dei salari di fatto si dimezza poiché con un euro si acquista in pratica più o meno ciò che pochi mesi prima si acquistava con mille lire e non con le 1936 imposte dalla quotazione di cambio dell’euro.
La costruzione del polo euro-germanico necessita di una nuova divisione europea del lavoro nel quale i paesi dell’Europa meridionale-mediterranea si trasformino in aree di importazione, infatti proprio i dati di maggio 2012 confermano che il 45% delle esportazioni tedesche si riversano proprio nell’are europea. Si risolvono così, quindi, le necessità competitive del modello tedesco che evidenzia significativi surplus della bilancia dei pagamenti che trovano possibilità di investimento ad alto rendimento acquisendo il deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi europei in particolare quelli mediterranei, cioè acquistandone i loro titoli del debito pubblico. Il surplus tedesco è determinato dal proprio modello di esportazione che realizza profitti sull’import degli altri paesi europei, i quali essendo ormai deindustrializzati sono costretti ad indebitarsi sempre più e alla fine il surplus finanziario tedesco realizza rendite dall’acquisto dei titoli del debito pubblico dei PIIG. Ci sono surplus finanziari che non possono restare immobili quindi la Germania si compra i titoli del debito pubblico dei PIIGS.( volgare acronimo, che significa maiali, utilizzato dai potentati del capitale per identificare la marginalità resa utile e indispensabile per sorreggere l’impianto imperialista euro-tedesco) ».
Ma il problema è il debito pubblico?
«In realtà i dati ci confermano che ad essere fuori controllo è il debito privato, soprattutto delle banche e delle grandi imprese, e il debito pubblico si è formato nel tempo non per l’eccessiva spesa sociale. Infatti ad esempio in Italia l’impennarsi del debito pubblico è dovuto alle scelte dei governi già dagli anni ’70 di accettare per ragioni politico-clientelari livelli incompatibili di evasione fiscale funzionale al sistema partitico e politico-economico; elargizioni clientelari al sistema di impresa attraverso incentivi, defiscalizzazioni, rottamazioni, ecc.; stanziamenti di cifre altissime per grandi opere pubbliche mai realizzate e utili solo per foraggiare il circolo perverso di imprenditoria criminale, tangenti politico-partitiche, malaffare e criminalità organizzata; sperpero di spesa pubblica ma non sociale con finanziamenti legali, illegittimi e illegali al sistema dei partiti e alla politica affaristica.
Il debito pubblico serve a determinare le condizioni di delegittimazione del ruolo dei singoli stati in campo economico e politico per creare lo Stato sovranazionale europeo, cioè il passaggio al super Stato politico europeo che necessariamente porta a creare deficit di democrazia, a stabilire la sovranità della super Germania.
I piani di ristrutturazione della Bce verso i PIGS sono serviti a costruire questa Europa e la Bce sta facendo quello che l’Fmi ha fatto per l’America latina, attraverso i piani di aggiustamento strutturale, Pas, o piani di austerità, agendo con privatizzazioni, abbattimento della spesa sociale, riduzione del costo del lavoro e creazione di precariato giovanile e non.
Ma ora la stessa costruzione del sovrastato europeo è messa in ginocchio dalla crisi di sovrapproduzione che sta realizzando anche quella di sottoconsumo per contrazione dei redditi da lavoro. L’austerità non può andare di pari passo con la crescita; le politiche restrittive servono solo per ultimare la resa dei conti di classe contro il movimento dei lavoratori e per delegittimare definitivamente il ruolo degli Stati-nazione abbattendo ciò che rimane dell’economia pubblica.
Ma è evidente che non esistono soluzioni di carattere economico alla crisi sistemica. Non si possono certo risolvere i problemi della crisi, come vorrebbero la maggior parte dei partiti della sinistra europea e gli economisti keynesiani che a volte ancora si autodefiniscono marxisti, dando il ruolo di prestatore di ultima istanza alla Bce (che oggi presta denaro alle banche con un interesse all’1% mentre i titoli emessi hanno il 6% di interesse) e permettendo le emissioni di eurobond che dovrebbero servire a coprire il debito. Seguendo le ricette imposte siamo come soggetti che sanno quale è il proprio boia, danno il proprio collo e preparano il nodo. Non se ne esce certo da una crisi sistemica del capitale internazionale con improbabili e anacronistiche soluzioni economico – keynesiano che puntano all’impossibile coniugazione fra austerità e politiche espansive per la crescita in quanto illogiche sul piano macr4oeconomico oltre ad essere impossibili sul piano politico-economico. Nelle regole dell’economia si parte da un equilibrio ma se mancano le risorse bisogna andare a prenderle da qualche parte. Per arrivare ad oggi i titoli greci sono in mano tedesca, potrebbero mettere in conto di abbandonare Atene ma piazzare i titoli al 2,5%».
Tu quindi chiedi una soluzione politica?
«Le ricette di partiti come il Pd che appoggiano in todo il governo Monti sono suicide e indietro storicamente, economicamente e politicamente anche rispetto a quello che pensano molti uomini politici ed economisti che si richiamano alla destra berlusconiana o addirittura più radicale. Inutile offrirsi all’altare sacrificale imposto dalla Germania sperando di entrare fra i potenti addossando tutti i costi della crisi ai lavoratori. Quello che sta attuando il governo dei professori bocconiani e clerico-confindustriali contro il mondo del lavoro non era riuscito a farlo neanche Berlusconi, poiché si sta subendo totalmente la ristrutturazione imposta dalla borghesia tedesca. Quanto accaduto attraverso le politiche economiche negli ultimi otto mesi rischia di costituire le fondamenta per costruire la nuova forma-Stato d’Europa per i prossimi 30 anni. Ma sta rinascendo un forte conflitto sociale, malgrado anche la posizione accondiscendente e consociativa del partito di Bersani e dei suoi utili alleati dei sindacati confederali, che fingono inappropriate proteste ma accettano la filosofia del disegno politico complessivo. Il parlamento abbatte lo stato di diritto e modifica la Costituzione con una maggioranza trasversale, ma sono ormai politicamente talmente deboli e non rappresentativi della società reale che sono bastate le proteste di massa contro Equitalia per annunciare l’utilizzo dell’esercito rievocando i tristi periodi della democrazia repressiva antipopolare e a connotato fascistoide».
Le elezioni in Grecia potrebbero essere decisive in tutti i sensi anche a favore del rilancio di un forte e organizzato movimento dei lavoratori europeo?
« Auspico una vittoria delle sinistre di classe in Grecia perché potrebbero riaffermare un forte protagonismo sociale e le possibilità di uno sviluppo autodeterminato in molti paesi europei. Oggi la sinistra di classe greca, che non può assolutamente prescindere dal ruolo chiave del KKE e dalla forza conflittuale del sindacato del PAME, potrebbe porsi come punta più avanzata del conflitto sociale europeo contro le politiche dell’euro e della troika.
I compagni greci si devono assumere la responsabilità politica insieme alle altre organizzazioni sociali e del sindacato conflittuale di indicare al movimento dei lavoratori europeo, a partire da quelli dei paesi PIIGS, una soluzione tutta politica rilanciando una battaglia per la fuoriuscita dall’Europa dell’euro su un terreno di classe; un percorso di lotte e organizzazione per far convivere i momenti rivendicativi tattici con la capacità di rilanciare attraverso la lotta il protagonismo sociale e sindacale che si sappia coniugare con la prospettiva strategica sull’orizzonte della trasformazione radicale in chiave socialista. Per far ciò serve una proposta e un percorso tutto politico e non di accettazione delle compatibilità economiche per quanto edulcorate e a carattere apparentemente sociale, ponendosi da subito fuori dall’euro dell’Europa imperialista e per la costruzione di un’area che si muova da subito sul terreno dell’anticapitalismo.
Un forte e organizzato movimento di classe a partire dall’Europa Mediterranea , potrebbe imporre attraverso una forte e radicale legge patrimoniale,una congrua tassazione di tutti i capitali, una effettiva redistribuzione del reddito ma soprattutto della ricchezza già a partire da riforme strutturali che riconoscano il reddito minimo garantito universale, la gratuità di tutti i servizi essenziali, un piano di edilizia pubblica e popolare, la protezione e il salario pieno per tutti i lavoratori.
Il fulcro centrale della proposta deve però partire dalla nazionalizzazione delle banche per il controllo sociale dei flussi di credito da indirizzare prioritariamente a investimenti socialmente utili ponendo da subito la questione della nazionalizzazione dei settori strategici e la statalizzazione dei cosiddetti settori in crisi.
Basti pensare a quanto accaduto nei paesi dell’ALBA in America latina, dove si è realizzata una vera e propria inversione di tendenza sociale attraverso il distacco degli organismi del capitale, come l’FMI, con le nazionalizzazioni dei settori strategici come le comunicazioni, l’energia, i trasporti , con forti investimenti sociali sorretti da una propria Banca del Sur.
Da noi bisogna realizzare lotte e percorsi di un nuovo protagonismo sociale capace di invertire i rapporti di forza da parte delle organizzazioni di classe per elaborare un programma tattico e strategico.
Se si esce da soli dall’euro, cioè con una decisione unilaterale di un solo paese, si viene certamente investiti dalla speculazione internazionale capace di spezzare le possibilità di uno sviluppo autodeterminato.
Se la sinistra greca vince dovrebbe pensare a mettersi alla guida del movimento di classe europeo per costruire una vasta area dell’alternativa anticapitalista, che prendendo di petto la questione del debito e imponendo il suo non pagamento alle banche europee e alle società finanziarie internazionali sappia porre le basi per la costruzione di un’area di paesi che si doti di una propria moneta e di un auto centrato modello di sviluppo fuori dalle logiche del profitto e dello sfruttamento capitalista (nel nostro libro “Il risveglio dei maiali PIIGS”, già alla seconda edizione 2012 per l’editore Jaca Book, chiamiamo tale moneta LIBERA per l’area ALIAS che potrebbe comprendere i paesi dell’Europa Mediterranea, dell’Africa Mediterranea inglobando anche alcuni paesi dell’Est Europeo).
Ma tutto ciò è utopia? E’ davvero nel mondo irrealizzabile di alcuni “sognatori marxisti”?
«La crisi del capitale è sistemica e profonda, e sempre più si trasformerà in una crisi sociale senza precedenti. La storia non ha percorsi lineari ma procede con salti e rotture in funzione delle determinanti del conflitto sociale, basato su sempre nuove e più articolate relazioni sociali che modificano i rapporti di forza e che vanno indirizzati a favore del movimento dei lavoratori, con intelligenza tattica ma senza nulla concedere al capitale accettando impossibili ruoli di cogestione della crisi. Di esempi ne abbiamo tanti: dal progetto alternativo antimperialista, anticapitalista e di sistema dell’ALBA, fino a soluzioni legate specificatamente solo alla risoluzione del problema del debito, come ad esempio anche in Europa l’Islanda, che non ha avuto problemi a fare una scelta coraggiosa dichiarando il non pagamento del debito pubblico alle società finanziarie e alle banche inglesi e olandesi restituendo invece i soldi dei titoli pubblici ai piccoli risparmiatori ma non ai potenti. In America Latina ci sono stati casi di percorsi di default programmato, come l’Argentina che a inizio di questo nuovo secolo veniva data per spacciata, ha invece seguito un proprio modello di sviluppo nazionale sottraendosi dal cappio dello strozzinaggio dei potentati finanziari internazionali ed oggi è una potenza emergente. Per far tutto questo c’è bisogno di una virtù che oggi in Italia e in Europa fatica ad emergere, il coraggio politico di una sinistra di classe che scelga da subito il terreno conflittuale per la prospettiva dell’alternativa di sistema in chiave socialista».
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