MERKEL-DRAGHI/ Le
nuove mosse lasciano l'Italia nei guai
La tregua è finita? L’incontro tra Angela Merkel e Mario Draghi,
così come l’intera missione berlinese del presidente della Bce, induce a
rispondere di sì. La svolta estiva ha avuto il suo effetto e ha recato sollievo
alla crisi dell’euro. Ma ora che arriva l’autunno tornano in superficie tutte
le contraddizioni che l’astuta operazione di Draghi ha aiutato a tenere
sott’acqua. “Ci vogliono le riforme, senza di esse la Bce non interverrà”,
ha dichiarato il banchiere centrale davanti alla Confindustria tedesca alla
quale ha spiegato la propria linea interventista: “La scelta era tra un
no su tutto o agire, e la Bce ha deciso di agire”. La Kanzlerin, dal
canto suo, ha rammentato che “ci sono ancora molti compiti a casa da
completare”. Ciò vale per la Spagna, che si accinge a chiedere l’aiuto
del Fondo salva-stati, e ancor più per l’Italia, soprattutto se non vuole far
ricorso alla ciambella europea.
Tra la Merkel e Draghi si è notata una grande sintonia su questo
aspetto. Il presidente della Bce, che si era esposto al punto da mettersi
apertamente contro la Bundesbank, è in piena frenata? Non esattamente. Il
fiscal compact è una sua idea e Draghi ha sempre sottolineato che gli aiuti si concedono
sotto chiare e talvolta dure condizioni. Su questo non c’è nessuna divergenza
né con il recente passato, né con la Merkel, la quale lo ha lasciato fare con
abile mossa tattica, ma intende tenere ferma l’ortodossia. “Il debito non
va condiviso”, ha ripetuto. Del resto, a giugno aveva detto che non
avrebbe mai approvato gli eurobonds, “mai finché vivo” aveva
aggiunto tanto per essere chiara.
Il fatto è che, scampato il pericolo immediato, tutti sono
tornati a suonare le loro vecchie musiche. In Germania già si annusa aria
elettorale (si vota tra un anno) e di qui ad allora non c’è da attendersi
nessuna svolta: né un allentamento fiscale interno (del tipo riduzione delle
tasse come hanno fatto gli svedesi), né minor rigore. Anzi, la posizione di Jens
Weidmann, il capo della Buba, diventerà il mantra che tutti i politici
reciteranno - chi da destra come i cristiano-sociali furibondi per il lassismo
mediterraneo, chi da sinistra come i socialdemocratici che vorrebbero far
aumentare i salari, ma non l’inflazione.
Nei paesi in difficoltà rispuntano gli antichi vizietti. In
Grecia si scopre che il vero buco è il doppio del previsto e supera i 20
miliardi. In Spagna, Mariano Rajoy tentenna mentre i catalani scatenati
vorrebbero tenersi tutti i loro introiti fiscali nel nome dell’autonomia se non
dell’indipendenza, aprendo una voragine nel bilancio nazionale. In Italia
arriva la valanga della finanza locale e, purtroppo, ancora una volta sarà la
magistratura a dare la spinta. Se i quattrini dei contribuenti italiani servono
per ostriche e champagne, come si fa a convincere Frau Merkel che dobbiamo
essere aiutati dai contribuenti tedeschi? E non è solo questione di malaffare,
né una questione di casta. Perché dietro c’è un problema più generale: la spesa
pubblica viene usata come sostituto monetario delle riforme. Una riflessione
che nessun partito né a destra, né a sinistra vuol fare, tanto meno a sei mesi
dalle urne, perché tocca il cuore del sistema.
Dobbiamo aspettarci, dunque, che la Germania faccia di nuovo la
voce grossa. Le prime avvisaglie si vedono sul Fondo salva-stati e sull’unione
bancaria. Il meccanismo di stabilità è ancora da costruire e avrà 500 miliardi
di euro a disposizione. Troppo pochi. Si pensa che con l’effetto leva possano
salire e nei giorni scorsi c’è chi ha ipotizzato la cifra di 2000 miliardi.
“Voi siete matti”, hanno replicato le autorità berlinesi. Una tale massa di
moneta gettata sul mercato significa prima o poi inflazione. Finora non è
accaduto e i keynesiani ribattono che la nuova liquidità ha compensato quella
distrutta dalla recessione. La Bce insiste a mostrare che la massa monetaria è
invariata. Ma la scuola classica tedesca tiene duro su un punto che a che fare
non solo con la teoria, ma soprattutto con la psicologia collettiva, anzi con
il Volksgeist.
Le resistenze sono ancora maggiori sulle banche. Berlino vuole
che tutto il sistema delle casse locali sia sottratto alla vigilanza della Bce.
Lì è annidata la bolla immobiliare, ma anche una bella quota di debito pubblico
più o meno occulto. Soprattutto, di lì passa il potere nelle regioni e nei
comuni, lo scambio tra consenso politico, crescita, benessere, aiuti,
clientele. Dunque, non si tratta di teoria della moneta, ma di corpose, nodose
resistenze sistemiche. Alcuni pensano che il governo tedesco possa
mercanteggiare: un consenso all’uso meno rigido del salva-stati in cambio di
guarentigie bancarie. Forse. Per ora si sentono soltanto due grandi Nein a
Draghi.
Ma l’autunno porta venti gelidi anche fuori d’Europa. Gli Stati
Uniti restano appesi a una crescita asfittica. Mentre il rallentamento
dell’economia cinese sta già provocando un primo effetto domino: persino
colossi come Daimler e Siemens annunciano una caduta dei profitti a causa dello
scivolone asiatico, mentre le conseguenze si cominciano a sentire anche per i
grandi marchi italiani del lusso o nel settore delle componenti meccaniche.
In teoria, tutto ciò potrebbe rendere più convincente la tesi di
chi chiede meno austerità nei paesi che se lo possono permettere (l’Italia
purtroppo è fuori dal giro). Ma qui torna in ballo la sindrome tedesca. E il
cerchio si chiude in un drammatico circolo vizioso.