lunedì 27 febbraio 2012

Mediobanca e le sfide aperte dal "caso Fonsai"


Mediobanca e le sfide aperte dal "caso Fonsai"

lunedì 27 febbraio 2012
FINANZA & POLITICA/ Mediobanca e le sfide aperte dal caso FonsaiInfophoto


Poco più di un mese fa, su Il Sussidiario, segnalavamo come una “buona notizia” l’annuncio dell’accordo preliminare fra Mediobanca e Unipol per la messa in sicurezza di FonSai. In particolare, la ristrutturazione della compagnia del gruppo Ligresti attraverso l’aggregazione con un’altra compagnia italiana appariva come un’opportuna operazione-Paese dopo le perdita recente di aziende strategiche come Parmalat - o come la stessa Fiat - nei cui riassetti l’Azienda-Italia aveva investito molto. Ponevamo peraltro tre spunti di riflessione: a) la debolezza di Mediobanca - nella sua “core mission” di banca d’affari - nell’aver trascinato per un anno la crisi finanziaria e industriale di un suo storico socio-satellite; b) la pressione certa di candidature estere all’acquisto (citavamo Groupama e Munich Re), autorevolissime sul piano del business assicurativo e probabile garanzia di una maggiore linearità borsistica, anche a tutela dei piccoli azionisti FonSai; c) l’apparente caduta di un muro fra il grande capitalismo di Mediobanca e il nuovo capitalismo della Lega Coop, dopo il violento scontro su Bnl nel 2005.
A distanza di cinque settimane, dopo il clamoroso ingresso in campo di Palladio, la prospettiva analitica non ci appare stravolta. Emerge l’evidente difficoltà di Mediobanca di dominare una partita “nel proprio cortile di casa”: questa volta, peraltro, nel ruolo scomodo di creditrice di FonSai, non solo di azionista e advisor. D’altro canto (lo si notava già) per il giovane management di Piazzetta Cuccia non era - e non è - pensabile “rottamare” un personaggio del calibro di Salvatore Ligresti semplicemente tirando fuori su Il Corriere della Sera una vecchia lettera critica di Vincenzo Maranghi (e in controluce si scorgono ancora gli strappi dell’ancor recente defenestrazione di Cesare Geronzi dalle Generali).
Grandi gruppi europei (tra cui, quasi sicuramente, quelli che erano già stati avvistati all’orizzonte) continuano nel frattempo a rimanere vigili sullo scacchiere italiano delle polizze: e l’intervento di un agente speculativo come la finanziaria veneta filiata da vecchi dirigenti Mediobanca non rappresenta affatto una complicazione, anzi. Ancora, la questione-Paese resta centrale, ma con sviluppi curiosi: dietro l’imboscata di Palladio vi è chi continua a vedere l’ombra delle Generali, che - al di là delle smentite - resterebbero fortemente infastidite dalla decisione di Mediobanca di rafforzare il “pendant” FonSai con Unipol sul mercato assicurativo domestico.
Last but not least: sottrarre FonSai alla famiglia Ligresti e consegnarlo alle coop rosse è un passo più lungo e complesso di quanto potesse sembrare. Anche nell’Italia della “democrazia sospesa” di Mario Monti, bocconiano, corrierista, geneticamente mediobanchista. E poi Renato Pagliaro e Alberto Nagel, presidente e amministratore delegato di Mediobanca, non sono e non potranno mai essere Enrico Cuccia e Maranghi. Questi ultimi un industriale-finanziere come Ligresti lo cooptavano e lo sostenevano per cementare un’alleanza con un premier del profilo di Bettino Craxi.

Su un altro versante stiamo in parte assistendo a un regolamento di conti tra i “nipotini” del fondatore: tra Nagel e Pagliaro (e il direttore generale Francesco Saverio Vinci) e alcuni illustri “espulsi” da Via Filodrammatici. Il primo è certo Matteo Arpe, ex “gemello” di Nagel, allontanato senza motivazione ufficiale dopo l’apparente trionfo dell’Opa Telecom. Arpe ha avuto poi una “seconda vita” come amministratore delegato di Capitalia, soccombendo però a Geronzi e rimanendo ora confinato nel piccolo limbo di Banca Profilo-Sator. Ma anche il “primogenito” della seconda generazione Mediobanca ha fatto capolino sullo scacchiere FonSai: Gerardo Braggiotti, curiosamente caduto dopo il fallimento di un’operazione assicurativa (l’Opa di Generali su Agf). Infine, c’è Giorgio Drago: l’amministratore delegato di Palladio è il prototipo di allievo di quella selezionata “Mediobanca Academy” che sembrava destinata a mantenere nel tempo la sua integrità di lobby come network più ampi e potenti, McKinsey o Goldman Sachs. Invece no. Nel caso FonSai c’è molto dell’Italia “mutante”. E - come per la vicenda principale - è difficile scommettere sull’esito finale.


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IL PALAZZO/ E ora la "maledizione" di Berlusconi colpisce anche Monti

lunedì 27 febbraio 2012
IL PALAZZO/ E ora la maledizione di Berlusconi colpisce anche MontiMario Monti e Elsa Fornero (Infophoto)

Incertezza. Chi si aspettava che il governo «salva-Italia», con il suo illustre bagaglio di professori e i relativi dossier di misure infallibili, dovesse mostrare tentennamenti, battute d’arresto, insicurezze? «Siamo preoccupati per l’incertezza del provvedimento riguardante l’Imu sui beni ecclesiastici», ha detto ieri monsignor Giuseppe Pennisi dando voce alle perplessità non solo della Cei, ma dell’intera opinione pubblica.

Mario Monti è partito sparato con il decreto «salva-Italia», ha tirato dritto con un secondo decreto «cresci-Italia», dove già aveva assaggiato che cosa significa scontrarsi con il muro corporativo che cinge il Paese. Quindi è stata la volta delle liberalizzazioni, tema spinosissimo quanto vasto e sfuggente. Il testo è stato riscritto un’infinità di volte e le correzioni non sembrano terminate. Dai tassisti ai farmacisti, dai preventivi degli avvocati ai concorsi per notai, la sensazione è che uno dei temi più cari al premier bocconiano (per dieci anni si è occupato proprio di libera concorrenza come commissario europeo) diventi la proverbiale montagna che partorisce il topolino.

Ora tocca al dibattito sulla riforma del lavoro, dove troneggia lo scoglio dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello che impone un pesante vincolo sulla possibilità di licenziare. Monti si sgola in ogni occasione - l’ultima sabato all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi - a dire che il governo ascolterà tutti e poi deciderà in autonomia. Ma il ministro Elsa Fornero non sta gestendo nel modo migliore la trattativa con il sindacato, alternando minacce ad accenni di dialogo che a un qualsiasi ministro del precedente esecutivo non sarebbero stati perdonati.

Sembra quasi che il tecnogoverno sia vittima della stessa paralisi che colpì Silvio Berlusconi agli inizi del suo ultimo mandato: efficace nell’emergenza (i rifiuti di Napoli, il dossier Alitalia, la ricostruzione nell’Abruzzo terremotato, il G8) quanto inconcludente nelle riforme per modernizzare l’Italia. Così Monti ha riguadagnato immediatamente credibilità internazionale imponendo sacrifici eccezionali senza che il Paese gli si rivoltasse contro, ma ora alla prova delle riforme più «politiche» e meno emergenziali (pressione fiscale, sburocratizzazione, lavoro, crescita) si trova impantanato.
La strizzata «salva-Italia» ci avrà evitato il baratro; resta il fatto che negli ultimi mesi lo spread - benché ridotto - è rimasto a livelli allarmanti, la disoccupazione soprattutto giovanile è cresciuta, le discutibilissime agenzie internazionali di rating ci hanno declassati, la tassazione è ai massimi e alle viste non ci sono riduzioni. Si sta discutendo sulla costituzione di un apposito «tesoretto», Passera lo vuole, Grilli disillude, Monti traccheggia, ma nessuno crede veramente che nel 2014 pagheremo meno imposte.

Il «tesoretto», secondo quanto ha detto ieri il ministro Passera, dovrebbe essere alimentato dai proventi della lotta all’evasione fiscale, dalla «spending review» e dalla cessione di asset statali: ma nemmeno su questo c’è accordo nel governo. Intanto Eurostat comunica che salari e stipendi italiani sono i più bassi d’Europa ma il ministro Fornero si limita ad auspicare un recupero di produttività dei lavoratori. Incertezza, appunto. L’ultima cosa che ci si attendeva dal supergoverno dei professori

Egregio Presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia Mario Monti,


Egregio Presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia Mario Monti,
sottopongo alla sua attenzione le variazioni del prezzo del greggio, del cambio Euro-Dollaro e del conseguente prezzo della benzina.

A)- A febbraio 2008 il prezzo del greggio al barile era di $.90 circa e il Cambio €=$ pari a 1,521.
Prezzo al litro della benzina : 1,271
A luglio 2008 il prezzo del greggio al barile era di $.147,27 e il Cambio €= $ pari a1.44.
Prezzo al litro della benzina : 1.380.
A dicembre 2008 il prezzo del greggio al barile era di $.119,48 e il Cambio €= $pari a 1.415.
Prezzo al litro della benzina : 1.092.

B)- luglio 2009 il prezzo del greggio al barile era di $ 70,00 circa. Cambio €= $pari a 1,30 circa
Prezzo al litro della benzina : 1.270.

C)- luglio 2010 il prezzo del greggio al barile e' di $ 77,00 circa. Cambio €= $ pari a 1,36 circa
Prezzo al litro della benzina : 1.364.

D)- luglio 2011 il prezzo del greggio al barile e' $.100,00 circa . Cambio € = $ pari a 1,4111
Prezzo al litro della benzina : €.1,621.

E)- 26 Febbraio 2012 il prezzo del greggio al barile e' $.126,00 circa. Cambio €=$pari a 1.3412 $    
Prezzo al litro della benzina : 1,820.

L'impressione che se ne ricava è che non importa come possa variare il prezzo del greggio o il cambio Euro-Dollaro, sembra che il prezzo della benzina dipenda non da un processo logico ma da  banali estrazioni di numeri al lotto!!!

Chi è che decide gli aumenti? Chi è che deve controllare?? Non è possibile che le differenze tra le varie società siano sempre dell’ordine di un misero 0,01 – 0,05?Tutte hanno gli stessi costi di gestione?

Non è possibile che prima di fare un pieno di benzina bisogna fare una rapina in banca!
A Lei Egregio Presidente, noi cittadini chiediamo che si facciamo dei controlli seri!!!

Bertone al Salone di Ginevra


Bertone Nuccio al Salone di Ginevra, il bolide futuristico ispirato alla Lancia Stratos Zero

Bertone Nuccio al Salone di Ginevra, il bolide futuristico ispirato alla Lancia Stratos Zero
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Non si sa ancora se sarà tra le protagoniste, ma di certo al Salone di Ginevra la Nuccio Bertone potrà vantarsi di una grande tradizione. La storica carrozzeria torinese presenta in Svizzera una supercar costruita in occasione dei suoi primi 100 anni di vita. La Bertone, che ha regalato agli appassionati vetture mitiche del calibro di Lamborghini Miura e Alfa Romeo Giulietta SS, ha visto recentemente la sua collezione riconosciuta formalmente dal Ministero dei Beni Culurali. L'ultima creazione è un bolide ispirato alla Lancia Stratos, creata dallo stesso Nuccio nel 1970. Linee futuristiche e motore V8 da 4,3 litri e 480 cavalli, la Nuccio Bertone non è adatta agli stomaci deboli (ed ai portafogli sguarniti).

Grande Valentino Rossi


Motomondiale - Rossi correrà con Simoncelli in "testa"

dom, 26 feb 09:59:00 2012

Valentino Rossi ha svelato su Twitter un'anteprima del suo nuovo casco in vista dei prossimi test di Sepang: elmetto che presenterà un 58 in ricordo dell'amico scomparso proprio in Malesia lo scorso 23 ottobre
2012 - Valentino Rossi helmet Simoncelli - 0
Valentino Rossi ha presentato in anteprima su Twitter il suo nuovo casco che sfoggerà a Sepang settimana prossima nella seconda settimana di test in vista della prossima stagione.
Il Dottore ha infatti deciso che questa volta correrà con un casco particolare, dedicato a Marco Simoncelli scomparso proprio 4 mesi fa sul tracciato malese.
Un piccolo gesto che il campione di Tavullia ha voluto anticipare a tutti i suoi followers per ricordare un amico che quest'anno purtroppo non potrà dar gas a manetta sulle piste del Motomondiale e divertire gli appassionati attaccati ai televisori da casa col suo ruspante accento nel post gara.
Il casco presenterà un grosso e fiammeggiante 58, il numero simbolo del Sic, che il Dottore sfoggerà con orgoglio sulla pista di Sepang da martedì 28 febbraio a giovedì 1 marzo.

Mps e quella solidarietà in pegno al Monte,Un consiglio ad Alessandro Profumo


 Mps e quella solidarietà in pegno al Monte

giovedì 23 febbraio 2012
Il Montepaschi chiede “solidarietà” ai suoi dipendenti: in concreto una riduzione dello stipendio. Non è la prima grande azienda italiana che domanda sacrifici ai suoi lavoratori: la Fiat lo ha fatto - parecchio a modo suo - a Pomigliano, anche se a Il Sussidiario preferiremmo che la cronaca si occupasse di più di quelle migliaia di imprese minori in cui proprietari, dirigenti, addetti solidarizzano assieme a favore dell’azienda stessa e della ripresa della più ampia Azienda-Italia. A quest’ultima, in realtà, il governo Monti ha già imposto senza troppi complimenti un gigantesco “obbligo di solidarietà”, che discenderà pure da un “inderogabile” principio costituzionale, ma risulta sempre più ostico mano a mano che i ministri tecnici rivelano redditi, patrimoni, situazioni di privilegio, per quanto legale: e sono in buon numero alti funzionari pubblici, posto fisso e garantito.
Quando però a sollecitare “solidarietà” è una banca - e questa banca è il Montepaschi - il malumore si moltiplica. E non perché l’istituzione senese faccia il paio con i banchieri apolidi che hanno fatto un boccone della buona fede o al massimo della “piccola e legittima avidità” di milioni di risparmiatori in giro per il mondo. Invece Rocca Salimbeni ha fatto l’esatto contrario: ha levato le castagne dal fuoco al gigante spagnolo Banco Santander, che a sua volta aveva in fondo levato le castagne dal fuoco al colosso olandese Abn Amro, che aveva acquistato l’italiana AntonVeneta solo per avvertire il mondo che in un mercato come quello italiano era la City a dettare le regole, non il locale Governatore della banca centrale, Antonio Fazio, poi esemplarmente condannato.
Peccato che l’Opa Abn-AntonVeneta stesse in piedi anche meno di quella congegnata dalla Popolare Italiana di Giampiero Fiorani. E che già un anno dopo la fatidica estate 2005, Abn Amro fosse al centro di un ennesimo “gioco dell’Opa” consegnandosi a Santander e Royal Bank of Scotland: in realtà, era una banca già semifallita, come si rivelarono nel 2008 le sorelle olandesi Ing e Fortis. Come la stessa Rbs, che oggi appartiene al 66% allo Stato britannico (anche se nessuno lo ricorda mai). Così come il Santander della famiglia Botìn è stata la banca europea a cui l’Eba ha rilevato il più alto deficit di capitale (25 miliardi di euro).
Non sorprende che nel 2007 - in Banca d’Italia era già governatore Mario Draghi - il gruppo spagnolo abbia subito ri-offerto all’Italia l’Antonveneta. Il Montepaschi, ci mise del suo: nel senso che accettò di versare 9 miliardi di euro per cassa, mettendo a repentaglio gli equilibri della banca in nome della plurisecolare pretesa della Fondazione-città di non condividere mai con nessuno Rocca Salimbeni. Resta però il fatto che quella stessa Bankitalia che oggi tuona contro i banchieri che soffocano le imprese con il “credit crunch” allora non ebbe nulla da dire sul fatto che un’azienda bancaria Antonveneta fosse stata “comprata e venduta” due volte, regalando patrimonio e commissioni a banche estere.
Il vertice del Monte (il presidente Giuseppe Mussari, che guida anche l’Abi e ad aprile lascerà Siena; il direttore generale Pierluigi Vigni che si è dimesso e il successore Fabrizio Viola) hanno avuto coraggio a chiedere “solidarietà” ai propri collaboratori e questi troveranno certamente il coraggio di rispondere, anche se la vera “sussidiarietà” interna all’azienda sarebbe aumentare la produttività a costi più bassi. Però il coraggio deve ancora tornare a molti altri: ad esempio, alle forze politiche, che stanno continuando ad abdicare alle proprie responsabilità di governo democratico, troppo serie per le spalle ricurve e gli abiti costosi di professori ricchi e attempati.

P.S.: Un consiglio ad Alessandro Profumo, che è un banchiere bravo e onesto (checché ne abbiano pensato gli azionisti di UniCredit o ne pensino oggi alcuni magistrati milanesi): vada lui a presiedere il Montepaschi, perché è il migliore in circolazione per fare quel maledetto lavoro. Ma lo faccia per un euro all’anno: almeno il primo. E investa subito in azioni del Monte almeno uno dei 40 milioni che ha ricevuto come buonuscita da Piazza Cordusio Così ci convinceremo che lui era e resta - almeno un po’ - diverso da tanti suoi colleghi che hanno sempre fatto il contrario: incassare stipendi altissimi già al terzo mese e acquistare azioni “in opzione”, soltanto per rivenderle subito se (in qualche modo) andavano 

Ordinativi all'industria: +8% in dicembre


Ordinativi all'industria: +8% in dicembre

Dati positivi per l'Italia dalle rilevazioni Eurostat. In zona euro aumento complessivo dell'1,9%

MILANO - Segno positivo a dicembre 2011 per gli ordinativi all'industria nei Paesi della zona euro che hanno registrato un aumento dell'1,9% rispetto a novembre 2011 quando erano in flessione dell'1,1%.
L'Italia a dicembre 2011 ha registrato una crescita dell'8%, rispetto al -1,4% di novembre 2011. Lo ha reso noto Eurostat. Nella Ue-27, a dicembre, gli ordini sono saliti dell'1,3% dopo un calo dell'1,2% a novembre. Esclusi costruzione navale, ferrovie e aerospaziale la crescita ‚ stata del 2,5% nella Ue-17 e del 2,6% nella Ue-27 (fonte Ansa)

E' triste affermarlo ..ma rimpiango Amdreotti e Craxi


FIAT/ Cosa c'è dietro la retromarcia "americana" di Marchionne?

lunedì 27 febbraio 2012
FIAT/ Cosa c'è dietro la retromarcia americana di Marchionne?Sergio Marchionne (Foto Imagoeconomica)


C’è un passaggio clou dell’intervista che Sergio Marchionne ha rilasciato a Il Corriere della Sera la scorsa settimana che dice più di molte dissertazioni sulla crisi, di tante polemiche sulla flessibilità del lavoro e della corsa alla successione al vertice di Confindustria. Massimo Mucchetti ha domandato a Marchionne: “La Fiat Auto ha lasciato Termini Imerese. Le restano Mirafiori, Cassino, Atessa, Melfi e Pomigliano. Se non funzionassero le esportazioni verso gli Stati Uniti, quanti sarebbero i siti eccedenti?”. La risposta dell’amministratore delegato della Fiat è stata la seguente: “Tutti gli stabilimenti staranno al loro posto. Abbiamo tutto per riuscire a cogliere l’opportunità di lavorare in modo competitivo anche per gli Stati Uniti, ma se non accadesse dovremmo ritirarci da 2 siti dei 5 in attività”.
Nelle parole di Marchionne ci sono novità rilevanti. Fino alla scorsa settimana tutta l’azione del capo azienda del Lingotto era stata rivolta in Italia ad affermare alcuni principi per molti versi rivoluzionari nel nostro Paese: l’organizzazione dei grandi stabilimenti manifatturieri va ripensata, serve collaborazione e non antagonismo da parte dei sindacati, l’impresa deve aumentare al massimo la produttività, gli stipendi devono essere commisurati al merito, la flessibilità anche in uscita non va demonizzata.
I concetti di Marchionne si racchiudevano in una frase ben comprensibile agli addetti ai lavori: le intese aziendali devono essere esigibili. Ossia, gli accordi aziendali devono essere poi gestiti dalle organizzazioni che firmano questi accordi innovativi, senza intoppi, intralci e azioni di disturbo. Da questa impostazione nascono le intese di Pomigliano, di Mirafiori e di Grugliasco firmate da Cisl, Uil, Ugl e Fismic, e non dalla Fiom-Cgil.
L’intervista al Corriere fa segnare una svolta nel Marchionne-pensiero. Infatti, il capo azienda del gruppo torinese dice implicitamente: l’esigibilità dei contratti, pur assicurata negli stabilimenti italiani della Fiat grazie a sindacati riformatori e non antagonisti, non basta alla sopravvivenza degli stessi. Una bella differenza rispetto a quanto sostenuto fino a qualche giorno fa. Ma anche un altro bagno di realismo che arriva dal Marchionne-pensiero. Prima, tutto rivolto all’incremento della produttività, alla lotta ai fannulloni e agli assenteisti. Ora, quasi un contrordine: non basta la produttività, non bastano gli accordi aziendali innovativi, non basta avere rappresentanze sindacali che non si ispirano all’antagonismo politico e sociale. Il messaggio chiave, adesso, diventa il seguente: tutto dipende dalla domanda. Ovvero: se i consumatori (soprattutto americani) continueranno a comprare meno autoveicoli, io non posso garantire che manterrò attivi gli stabilimenti italiani. E visto che in Europa c’è già capacità produttiva in eccesso, non solo in casa Fiat, il messaggio è meno sibillino di quanto possa sembrare.
Quali stabilimenti chiuderà se si avvereranno i presagi peggiori? Marchionne non ha precisato quali, ma si può escludere Atessa dove si fanno veicoli commerciali e Melfi, il centro riconosciuto più efficiente anche da un osservatore come Mucchetti. I maggiori indiziati restano Pomigliano d’Arco, Mirafiori (che produce un quinto del necessario a stare in equilibrio) e Cassino (tanti robot, ma modelli non sempre di successo). Proprio quelli dove il pensiero all’americana di Marchionne si è tradotto, o si sta traducendo, in realtà.
Ma la sortita del capo azienda della Fiat avrà riverberi anche nella successione in corso alla presidenza di Confindustria. Alberto Bombassei, patron di Brembo, appoggiato da Marchionne nella corsa alla successione a Emma Marcegaglia, non potrà non avere effetti negativi dall’esternazione di Marchionne. Già l’amministratore delegato della Fiat non riscuote troppi consensi tra gli imprenditori italiani, almeno nelle dichiarazioni pubbliche. E ora con l’intervista al Corriere chi - come il candidato Giorgio Squinzi di Mapei - non ha mai speso parole di elogio o almeno di condivisione per le idee di Marchionne potrà affermare: ci ha dato lezioni di relazioni industriali all’americana, e ora nonostante gli accordi aziendali della Fiat firmati a sua immagine e indicati come un modello di innovazione e prosperità ci dice che è pronto a chiudere altri due stabilimenti in Italia.

Ici, attacco alla carità


Ici, attacco alla carità

lunedì 27 febbraio 2012
Ici, attacco alla caritàU
Si doveva far chiarezza ma con l’emendamento Monti, se non chiarito, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Prima per non pagare l’Ici bastava dire che eri una non profit adesso tutto ruota intorno al concetto di “attività commerciale”. Sembra semplice, ma apre un mondo di interpretazioni e i comuni che riscuotono l’imposta non hanno voglia di molte interpretazioni ma di molti soldi.

Prima però occorre fare un po’ di storia dell’esenzione Ici. Basterebbe poco per farsi un’idea sul perché alcuni immobili non pagano l’Ici o l’Imu e di conseguenza arrivare alla conclusione che è un bene non far pagare alcunchè. Prima di dare un giudizio bisognerebbe fare un elenco di tutti coloro che l’Ici non la pagano.

Non pagano l’Ici tutti i locali pubblici: scuole, università, musei, teatri lirici, lo stadio comunale, gli impianti sportivi, le Ipab ovvero le case di riposo pubbliche, gli ospedali, le sedi Asl. Che senso avrebbe infatti fare pagare un’imposta a chi svolge attività pubblica cioè per tutti? È per la stessa ragione che non pagano l’Ici le scuole paritarie, i teatri degli oratori, l’impianto sportivo di una società dilettantistica, una casa di riposo gestita da una onlus, un circolo ricreativo come le case del popolo o l’Arci, la sede della Misericordia o della Pubblica assistenza. Non la pagano per la stessa ragione ovvero perché svolgono attività pubblica cioè rivolta a tutti.

Alla bontà della normativa sulle esenzioni che io continuo a difendere, negli anni alcuni, pochi, immobili non hanno pagato l’imposta pur svolgendo attività profit o parzialmente utilizzando locali a fini commerciali. Dopo alcuni ricorsi dei radicali a livello europeo e una sentenza era necessaria una norma chiarificatrice ed è arrivato l’emendamento del governo di venerdì sera. Con la novità dell’emendamento Monti al Senato però il rischio, se non si chiarisce l’interpretazione, è quello di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. La chiarezza sulla questione Imu è necessaria, ma l’emendamento proposto va chiarito, così com'è rischia di mettere in difficoltà e di far chiudere tante realtà che operano per tutti: scuole paritarie, asili, ospizi, mense per indigenti. L’emendamento infatti, se nessuno lo definirà meglio, si basa sul concetto che l’esenzione non è più prevista per quei soggetti, anche del non profit, che svolgono un’attività commerciale. Se prima l’esenzione si basava sulla proprietà del locale o sull’attività svolta, adesso si baserà sul fatto che l’attività svolga o meno attività commerciale. Sembra facile ma il concetto “attività commerciale” apre una voragine interpretativa.

Un’attività o è commerciale o non lo è. Come si fa a gestire una scuola, un asilo, un ospizio, un ospedale, ma anche una mensa per indigenti o un’assistenza domiciliare senza modalità commerciali? Come è possibile farlo senza rette, passaggi di denaro, convenzioni con l’ente pubblico? Chi per gestire finalità utili a tutti riuscirà a pagare uno stipendio di un insegnante, la luce, il gas o la benzina per un auto senza porre in essere in qualche modo “attività commerciale”? 
La onlus che fa assistenza domiciliare ai malati oncologici, raccoglie fondi per pagare infermieri e medici che hanno contratti con l’ente, una mensa per indigenti può anche avere una convenzione con un ente locale per pagare parte delle spese come l’acquisto di generi alimentari, in un ospizio gestito anche da religiose ci possono essere contratti di lavoro per il personale ausiliare, un asilo non statale ha le rette e servono per pagare gli insegnanti. Tutte azioni commerciali eppure fatte da non profit.

Poi non capisco perché si continua a scrivere che l’emendamento è fatto per i beni della Chiesa. Ricordo che non pagano l’Ici o l’Imu i beni delle confessioni religiose che hanno stipulato con lo Stato un concordato e tutte le non profit, le fondazioni e quindi anche partiti e sindacati. Che sia chiaro, l’emendamento del Governo se cambia la legge non la cambia alle opere che nascono dalla Chiesa cattolica ma modificherà la norma per tutti. Dico questo perchè sono assolutamente convinto che tutto l’argomento è nato contro la Chiesa cattolica e non certo contro partiti, sindacati e circoli Arci.

Io invece continuo a difendere il principio che è contenuto nella legge del 1992 che istituì le esenzioni Ici, prevedendola anche per gli enti non profit. Chi svolge attività senza fini di lucro ha diritto all’esenzione perché svolge attività pubblica cioè per tutti. Io continuo a difendere l’esenzione per tutti anche per i circoli Arci che hanno la pizzeria e fanno quindi attività commerciale, ma quell’attività serve per far rimanere aperto tutto il circolo, dove si fanno ancora discussioni politiche, sempre che a sinistra ci sia ancora qualcuno che voglia discutere di politica.

ICI E CHIESA/


 per punire il Vaticano Monti fa fuori il non profit

lunedì 27 febbraio 2012
ICI E CHIESA/ Sapelli: per punire il Vaticano Monti fa fuori il non profitInfophoto

Chissà se i gelati che compravo all’oratorio salesiano da piccolo erano attività commerciali per don Romano, il quale dismetteva la sua figura di calciatore espertissimo nonostante la tonaca per improvvisarsi gelataio e di lì a poco divenire operatore cinematografico in una sala certamente con scarse dotazioni di sicurezza rispetto a quelle oggi richieste (eppure mai un incidente successe o un disguido si verificò all’entrata e all’uscita). Certo, una volta non mi lasciò entrare al cinema perché non avevo i soldi, e me la presi così male sino a quando non capii che voleva in tal modo ch’io imparassi ad amministrare le poche lire che mia mamma mi dava la domenica per passare all’oratorio tanto la mattina quanto il pomeriggio, e il cui importo a don Romano era noto, domenica per domenica…
I gelati e il cinema per lui erano opere di apostolato da cui traeva non il suo sostentamento, ma appena i denari per pagarne i costi. Il mezzo era mezzo e solo mezzo: il fine era salvare le anime. E se si salvano le anime, l’Ici non si deve pagare. Non esiste una contabilità della teodicea, ossia della salvezza. Non riesco a entrare nella logica della discussione dell’Ici alla Chiesa, ossia proprio non riesco a distinguere cos’è commerciale nell’attività della più grande organizzazione benefica del mondo.
E lo ammetto anche quando penso, io vecchio operaista, che tra queste attività ci sono, e c’erano nella mia infanzia, le scuole per i ricchi, o che noi ritenevamo tali, per i quali il solo bene che si può fare è di renderli meno crudeli ed egoisti… ma anche questo è operare per il bene e diminuire le armi di distruzione di massa che la ricchezza può lanciare contro il bene e la grazia nel mondo.
Insomma: la discussione mi pare veramente di lana caprina. Distinguere ciò che è profit e ciò che è not for profit nell’ambito ecclesiale è cosa affatto diversa da qualsiasi altra sfera di vita esistente al mondo. E questo vale per i cattolici come per le altre fedi. Nell’Islam a nessuno verrebbe mai in mente di tassare le Fratellanze Musulmane e le loro attività e non per fanatismo, ma perché si riconosce che vi è una sfera della vita associata che sfugge e deve sfuggire alla reificazione del mercato.
Il gelato che mi gustavo nell’oratorio torinese di San Luigi era uno di questi beni che sfuggono alla reificazione di mercato, perché era inserito in un contesto di azioni che derivano dritte dritte dal Discorso delle Beatitudini, ossia sono un’opera di carità attiva e operante. A parer mio la Chiesa Cattolica Apostolica Romana è sottoposta in questi anni a un attacco inaudito: dalla pedofilia agli scandali economici, alle lotte intestine nella Santa Sede. Sono nauseato: in tv si vedono i corvi che gracchiano senza che sia consentito a chi corvo non è di accennare a una risposta, a una controdeduzione. La Chiesa risponde troppo debolmente.
La sfera di Cesare deve fermarsi dinanzi a quella di Dio: rispetto non vuol dire aprire le porte a coloro che debbono entrare in punta di piedi in Chiesa perché c’è il Santissimo e invece si mettono a gridare. So che dico cose innominabili in primo luogo per i cattolici adulti. Il fatto è che io non so pensarmi e non so agire sempre se con come un minorenne, ossia come un cattolico, peccatore, ma fedele.