mercoledì 4 febbraio 2015

Per la tragedia greca il lieto fine non si vede





Dopo la vittoria di Syriza alle elezioni greche e la formazione di un governo con un partito di destra populista anti-tedesco, i toni tra Atene e l’Unione europea sono progressivamente inaspriti sino a una apparente polarizzazione: lo schieramento guidato da Alexis Tsipras e che ha nel suo ministro delle Finanze, l’economista Yanis Varoufakis, l’esponente sinora più visibile e duro, accantonate le iniziali richieste di taglio del valore nominale del debito chiede ora una ristrutturazione del debito, che per circa l’80 per cento è verso l’Unione europea, legandone il servizio (cioè il pagamento degli interessi) alla crescita dell’economia, e un abbattimento dell’avanzo primario (entrate meno le spese, al netto del costo del debito) chiesto dai creditori alla Grecia per rimborsare quel debito.
L’attuale 4,5 per cento annuo è visto come un cappio che sta strangolando il Paese con una austerità distruttiva. Per la Ue e per il governo tedesco è fuori discussione ogni ipotesi di riduzione del valore facciale del debito e si può invece ragionare su un taglio del suo valore attuale netto, mediante riduzione del tasso d’interesse e allungamento dei termini di rimborso. Prima delle elezioni il consenso degli osservatori e dei mercati era per un accordo relativamente indolore. Ma l’atteggiamento del governo greco, e di Varoufakis in particolare, sta portando i mercati a ricredersi, e a prezzare in modo crescente l’ipotesi di un esito traumatico, almeno per la Grecia, a giudicare dall’impennata di rendimenti dei titoli di stato ellenici. Varoufakis ha messo una pietra tombale sulla Troika, da sempre vissuta dai greci come potenza coloniale occupante.
Ma il tempo stringe, occorre trovare una soluzione entro il 28 febbraio, quando scadrà il mandato di assistenza finanziaria sovranazionale. Dopo questo termine, in assenza di accordo, le banche greche perderanno l’accesso alla liquidità della Bce, che ha sinora compensato i forti deflussi di depositi, e si troveranno di fatto prive di fonti di finanziamento. Se un simile scenario si materializzasse, non vi sarebbe alternativa all’uscita in modo rovinoso della Grecia dall’euro. Lo scenario di “accomodamento” negoziale era sinora apparso quello più probabile: la Grecia ha già negoziato con la Ue condizioni di rimborso del debito molto favorevoli, tali da portare l’incidenza del servizio del debito su Pil a circa il 2,5 per cento nel 2014, contro il 4-5 per cento degli altri Paesi maggiormente indebitati, tra cui l’Italia. Ciò avviene anche in virtù del fatto che la Banca centrale europea, che possiede circa un decimo del debito greco, restituisce ad Atene l’interesse sui titoli di Stato ellenici detenuti a Francoforte e dalle altre banche centrali nazionali. I debiti greci con le istituzioni europee e con singoli Paesi creditori hanno scadenza molto lunga, in virtù della quale la durata media del debito greco è di ben 16,5 anni. Discorso diverso per i circa 58 miliardi di euro di debito di Atene verso il Fondo Monetario Internazionale, che potrebbe comunque essere rinegoziato.
Il rapporto debito-Pil greco, pari al 175 per cento, non è il maggior problema. Il problema è quel 4,5 per cento di avanzo primario e il fatto che sinora la quasi totalità dei crediti forniti alla Grecia sono andati a servire il debito pregresso e ricapitalizzare le banche domestiche, che malgrado ciò affogano nel debito privato in sofferenza o inesigibile. Il governo Tsipras vuole liberare risorse per alleviare le sofferenze della popolazione, la Ue non vuole creare un precedente che darebbe fiato ai movimenti populisti e antisistema che stanno crescendo in Europa. Ma quanto è realistica la posizione del governo greco? Atene vuole liberare risorse di welfare ma promette conti pubblici in ordine grazie alla mitologica lotta a corruzione, evasione e sprechi. Quindi, sulla carta, nessuna dissipatezza fiscale. Ma quanto è fattibile? E di che qualità di spesa pubblica parliamo, nel caso della Grecia? Se le erogazioni sociali per i soggetti in reale condizione di povertà e disagio economico hanno senso, molto meno ne ha aumentare il salario minimo, così da rendere il Paese meno competitivo.
Inoltre, come segnalato da Mario Draghi, la pressione fiscale e contributiva greca era pari, a fine 2014, a circa il 34 per cento, molto meno della media europea. Ciò indica endemica presenza di evasione fiscale e di ampio sommerso. In questi anni la Grecia non pare aver fatto rilevanti progressi sul piano di efficacia ed efficienza dell’amministrazione pubblica, soprattutto di quella fiscale. Il quadro cambierà radicalmente, con l’arrivo di un economista come Varoufakis, che ha la delega a entrate e spesa pubblica? Lecito avere dubbi. Ma c’è un altro elemento di criticità che rende unico il caso greco. Malgrado la drastica riduzione delle retribuzioni, il Paese non è progredito nell’export (che include il turismo) e il riequilibrio di bilancia commerciale è sinora avvenuto in prevalenza attraverso distruzione della domanda interna, come segnalato dal think tank Bruegel. Un accordo con la Ue resta possibile ma l’economia greca appare minata dalle fondamenta dall’incapacità di trovare un modello di sviluppo, e rischia di sostituire una deriva autodistruttiva a quella inflittale dal memorandum della Troika. Difficile scommettere sul lieto fine.

La BCE pensa solo alle Banche :Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano

Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano


In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.
«Mettiamola in questi termini», riassume Marcello Foa: oggi la Bce «stampa più moneta per permettere alle banchecentrali nazionali di comprare titoli di Stato, ovvero debito pubblico, con lo scopo dichiarato di rilanciare l’economia(crescita del Pil) e Eurolo scopo effettivo immediato di sgravare i bilanci dellebanche private». Se il “quantitative easing” può essere considerata «un’aberrazione, in quanto viola le leggi di mercato basate sulla domanda e sull’offerta», lascia però intatta «la vera catena che imprigiona le asfittiche economie occidentali: quella del debito», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, equiparando quindi paesi occidentali con debito sovrano – Usa e Gran Bretagna – a paesi con debito non più sovrano, cioè i membri dell’Eurozona. In realtà, spiega un economista come Nino Galloni, il debito pubblico italiano è diventato «una catena» soltanto a partire dal 1981, con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia: fino ad allora, infatti, il debito pubblico era stato ciò che dovrebbe essere, e che è tuttora nei paesi sovrani: la più importante leva strategica di sviluppo, attraverso la quale un paese produce investimenti (a deficit) destinati a far crescere l’economia in modo diffuso.
«Se la Ue e la Bce volessero davvero rilanciare l’economia – aggiunge Foa nel suo post – dovrebbero avere il coraggio di andare fino in fondo, ovvero non di stampare moneta per comprare debito ma di stampare moneta per cancellare il debito, accompagnando questo passo da misure altrettanto rivoluzionarie e benefiche come la simultanea riduzione delle imposte sia sulle imprese che sulle persone fisiche e magari varando investimenti infrastrutturali». Qui, ancora, Foa non spiega di che debito parla: se il debito è sovrano non può costituire un problema, come dimostra il debito del Giappone al 250% del Pil. Sarebbero certo “rivoluzionario” cancellare il debito non-sovrano, quello cioè accumulato da quando in paesi dell’Eurozona hanno cessato di indebitarsi in proprio, cioè “anticipando” denaro alle rispettive comunità nazionali, e preferendo acquistare denaro – ad alti tassi di interesse – presso il mercato finanziario privato internazionale. Quindi il problema non è il debito in sé, ma la fonte del debito: se lo Stato si è indebitato coi suoi cittadini (ha speso denaro per loro, in anticipo) il problema non esiste. Se invece i soldi li ha acquistati sui “mercati”, gli interessi sono da ripagare. Se poi lo Stato non ha più la possibilità di intervenire con emissione di valuta propria, allora il collasso è garantito. Di qui la stretta fiscale, per spremere denaro ai cittadini anziché anticiparglielo come avveniva un tempo.
«Oggi – riconosce Foa – l’Italia è già in avanzo primario, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, ma il debito pubblico continua a salire perché la spesa pubblica è gravata dagli interessi sul debito». Interessi, appunto, contratti coi mercati finanziari internazionali: quelli verso cui, grazie a Ciampi e Andreatta, l’Italia si orientò improvvisamente nel 1981, disponendo che la banca centrale cessasse di finanziare il governo a costo zero, come aveva sempre fatto. Da allora, il debito pubblico è diventato un dramma, aggravato negli ultimi anni dalla catastrofe dell’euro, su cui la nazione non ha alcuna possibilità di governo. «L’Italia – conclude Foa – è in una spirale da cui difficilmente uscirà, per quanti sforzi faccia. Ma questo né la Ue, né la Bce, né il Fmi lo ammetteranno mai; anzi, continuano ad alimentare la retorica delle riforme, ovviamente Foastrutturali». Foa sogna un “giubileo del debito”, col taglio lineare di un terzo dell’attuale euro-debito di ogni paese e simultanea riduzione delle imposte per un periodo di almeno 5 anni.
«Basterebbe una semplice operazione contabile creando denaro dal nulla (ovvero con un semplice click, come peraltro si apprestano già a fare), per togliere definitivamente dal mercato una parte del debito pubblico», scrive Foa, secondo cui il risultato sarebbe «un boom economico paragonabile agli effetti di un nuovo Piano Marshall». Starebbero meglio tutti, dice Foa: «I consumatori che si troverebbero con più liquidità in tasca, le aziende che sarebbero fortemente incentivate a investire nella zona Ue, lo Stato che troverebbe le risorse sia per le grandi opere che per altre riforme. Le stesse banche private che non sarebbero più costrette a comprare titoli di Stato pubblici e vedrebbero diminuire drasticamente le sofferenze bancarie nel giro di pochi mesi proprio grazie alla ripresa dell’economia reale». La macchina, insomma, si rimetterebbe in moto. «A “rimetterci” sarebbero solo la Bce, la Commissione Europea e analoghe istituzioni transnazionali, il cui potere implicito di condizionamento si ridurrebbe drasticamente».
Questo è appunto il motivo per cui tutto ciò non avverrà, secondo l’analisi degli economisti non liberisti: perché quel “potere di condizionamento” è esattamente la ragione sociale dell’euro, piano strategico concepito per togliere allo Stato la facoltà sovrana di spesa pubblica, cioè di produrre debito pubblico strategico (deficit positivo) senza il quale, dall’avvento della moneta moderna, nessun paese al mondo può garantire benessere diffuso. La demonizzazione del debito è tipica del neoliberismo, che vuole spogliare lo Stato della sua sovranità e ridurlo in bolletta, come una qualsiasi azienda o famiglia, dipendente dal sistema finanziario privato. Il liberismo teme lo Stato, in quanto ingombrante concorrente economico: ildebito pubblico “deve” quindi diventare un problema, in modo che lo Stato ceda i suoi asset strategici e si rassegni alla loro privatizzazione. La via d’uscita non è dunque la cancellazione del debito – gli investimenti di cui parla Foa si possono realizzare solo mediante deficit – ma l’eliminazione del debito non sovrano. Missione impossibile, se si resta nel lager monetario chiamato euro, appositamente progettato dall’élite finanziaria perché gli Stati permanessero all’infinito sotto il ricatto di un debito divenuto insostenibile, in quanto non garantibile con valuta propria.

Creati vasi sanguigni artificiali con una stampante 3D




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Combinando mini-stampate in 3D con la tecnica di 'elettro-spinning' (o filatura elettrostatica), i ricercatori del Rapid Manufacturing Engineering Center della Shanghai University (Cina) guidati da Liu Yuanyuan hanno sviluppato per la prima volta un innesto vascolare composto da tre strati artificiali. Il vaso sanguigno 'tri-strato' ha permesso agli scienziati di utilizzare materiali diversi, che possiedono sia resistenza meccanica che capacità di promuovere la crescita di nuove cellule. Una doppia qualità difficile da ottenere quando gli innesti vengono creati con un singolo o un doppio strato.
I vasi sanguigni artificiali creati fino a oggi - ricorda la rivista 'Aip Advances' - funzionavano sostituendo le parti danneggiate con materiali provenienti dal corpo del paziente o da un donatore compatibile. Tuttavia queste fonti sono spesso insufficienti e possono essere afflitte dagli stessi problemi che hanno provocato il danno. Di conseguenza, è da tempo che la ricerca si sta indirizzando verso lo sviluppo di vasi sintetici che possano mimare quelli naturali, consentendo a cellule nuove di crescere intorno a loro, per poi riassorbirsi.
L'electrofilatura è un processo che consente di ottenere mini-filamenti di materiale sintetico a partire da un liquido, i cui componenti si degradano naturalmente entro un anno, lasciando che al suo posto si formi un vaso sanguigno intatto. La struttura risultante, tuttavia, non è molto rigida, l'unico 'neo' di molti modelli precedenti di vasi sanguigni artificiali. Per compensare questo inconveniente, i ricercatori hanno progettato un modello a tre strati, in cui il composto è stato elettrofilato su entrambi i lati con uno strato di polidiossanone, un polimero biodegradabile comunemente usato nelle applicazioni biomediche. Le estremità di questa 'scheda' sono poi stati piegati e fissati fino a formare un tubicino.
Liu e il suo team hanno infine seminato il vaso con cellule di fibroblasti di ratto, candidati ideali per la loro facilità di coltivazione e il tasso di crescita rapida, per testare l'efficacia del 'ponteggio' nel promuovere l'espansione e l'integrazione cellulare. I ricercatori hanno confermato che le cellule su queste 'impalcature' proliferavano rapidamente. C'è ancora da lavorare prima che possa esserci la prospettiva di una sperimentazione umana, ma Liu e il suo gruppo sono ottimisti sul futuro della loro ricerca. Il loro prossimo progetto è quello di testare gli impianti su modello animale, per osservare l'efficacia della struttura con cellule vascolari vive.