venerdì 25 maggio 2012

Spagna in ginocchio per la crisi


Spagna in ginocchio per la crisi: a Madrid si rubano anche i tombini dalle strade e le portiere delle auto




(Corbis)(Corbis)
Portiere delle automobili, ruote, specchietti retrovisori, qualsiasia cosa si possa rubare non viene tralasciata, nemmeno i tombini. Accade sia nelle vie della capitale Madrid, sia in altre città spagnole dove i furti sono in aumento.
Nella calle Santiago de Compostela vicino a un ufficio della polizia, racconta El Mundo, da settimane è parcheggiata un'auto Volvo a cui sono state tolte le portiere, ma non è l'unico episodio. Se a Madrid la razzia nelle strade includono anche l'arredo urbano, qualsiasi cosa che possa avere un mercato, a Bilbao tre ragazzi di 24 e 26 anni sono stati arrestati mentre caricavano su un furgone decine di tombini prelevati dalle strade. A Toledo invece sono le ruote ad essere prese di mira, soprattutto nei parcheggi di scambio vicino alle stazioni ferroviarie.
Anche il borseggio sta modificando le sue modalità operative. A Marbella è stata arrestata una cinese che offriva massaggi ai bagnanti e approfittando della loro scarsa attenzione rubava i portafogli. Tra i crimini segnalati nelle sezioni di cronaca dei siti locali in questi giorni ci sono poi il furto di cavi per la fibra ottica, benzina dai serbatoi dai camion e dalle barche ormeggiate. Ma il caso più eclatante è il furto in diretta del telefono cellulare di una giornalista che stava seguendo la manifestazione degli indignados a Puerta del Sol a Madrid.
Nella capitale secondo i dati raccolti dal ministero degli Interni spagnolo riferiti al primo trimestre 2012 il crimine violento è aumentato del 12,9 %, da 5.644 casi nel primo trimestre del 2011 a 6.373 di quest'anno. Tra questi, furti e intimidazioni hanno avuto un'impennata del +14,5% (da 5.079 a 5.813 casi). L.B.

A Siviglia pensionati e famiglie occupano un condominio sfitto da anni


A Siviglia pensionati e famiglie occupano un condominio sfitto da anni


Non sono artisti, né giovani: sono semplicemente famiglie, vecchi senza più una casa che, dal 15 maggio, hanno deciso di occupare un condominio a Siviglia. La piccola colonia, aiutata dal movimento degli indignados, ha fatto irruzione in una palazzina di 4 piani, mai abitata e mai venduta, che fa parte della speculazione edilizia travolta dallosboom immobiliare.

Ana Lopez Corrales, 67 anni, un marito settantenne malato e infermo, racconta la sua storia: «Le donne che come me hanno preso questa decisione sono rimaste senza casa. Ad alcune è stata pignorata, altre sono state buttate fuori perché non riuscivano più a pagare 500 euro di affitto. Non c'era altra soluzione per continuare a vivere con dignità».
«Questa palazzina è chiusa da almeno un paio di anni. Nessuno la reclama, il costruttore probabilmente è fallito, perché continuare a tenere chiusa questa proprietà, mentre molti di noi vivono sulla strada?».

Si calcola che ci siano in Spagna almeno un milione di immobili invenduti, e 58.000 famiglie sono state sfrattate solo nel 2011. L'Andalusia è tra le regioni più colpite dalla crisi con almeno 10.00 sfratti avvenuti nell'ultimo anno. Le famiglie, sono consapevoli che quando arriverà l'ordine di sgombero non potranno fare niente per opporsi, ma nel frattempo cercano di vivere questa situazione nella normalità -dice Ana «ogni mattina accompagno i miei tre figli a scuola e vado a lavorare»- grazie anche a un atteggiamento benevolo della polizia che per il momento li "protegge"
.

Come negli anni 50/60 E' 'corsa' a emigrare in Australia


E' 'corsa' a emigrare in Australia

Opportunità per tecnici e specializzati lavoro_curriculum_296Un salto indietro nel tempo, a cent'anni fa. Sì, perché se ai primi del '900 erano migliaia e migliaia gli italiani che partivano alla ricerca di fortuna verso l'Australia, oggi l'assenza di lavoro e la recessione, spingono tanti nostri connazionali a 'vestire' i panni degli emigranti, come tanti anni prima i loro nonni e trisavoli, per cercare una 'nuova frontiera' verso la terra dei canguri. O almeno a provarci.

"Certo, negli ultimi tempi -spiega Vincenzo Romiti, presidente dell'associazione 'Italia-Australia', attiva dal 1976- c'è stato un forte incremento delle persone che cercano informazioni e dati, rivolgendosi anche a noi, su come trasferirsi in Australia per lavoro. Anche se poi alla fine il numero di chi decide davvero di emigrare, e ci riesce, non supera, da quanto ne sappiamo, le 300-400 unità all'anno".

Infatti, è possibile emigrare in Australia per lavoro solo se si è in possesso di una serie di requisiti sulla base dell'età' (che deve essere inferiore a 45 anni), studio, esperienza professionale e conoscenza della lingua. La conoscenza dell'inglese infatti è fondamentale non solo per ottenere un lavoro, ma anche per sostenere un colloquio.

"Si deve capire che andare in Australia -sottolinea Romiti- non vuol dire trasferirsi in un'altra provincia italiana, ma recarsi in un paese anglo-sassone e anche un po' asiatico. Se non conosci bene l'inglese non puoi fare l'impiegato in Australia. E i titoli di studio conseguiti in Italia devono essere prima riconosciuti in Australia, altrimenti non hanno alcun valore, non vi è alcun riconoscimento automatico".

Quindi attenzione a non scambiare l'Australia per un Eldorado che non c'è. Anche se, come, e forse più, di tanti anni fa, resta un Paese con tante opportunità per chi le sa cogliere. "Chi ha idee e tecnologie, e un po' di capitale da poter investire - sottolinea Romiti- ha in quel Paese la possibilità per potere crescere, a differenza che in Italia dove invece non praticamente è possibile. Prendiamo tecnici e operai specializzati restati in questi mesi senza lavoro per via della crisi in Italia. Sono loro a possedere delle competenze fondamentali – aggiunge - che, unite con un piccolo capitale iniziale, potrebbero utilizzare per lanciare qualche nuova attività produttiva in Australia".

Mentre, per chi invece sceglie di provare a fare l'impiegato o comunque il lavoratore dipendente, "ci deve pensare bene, perché ha sì magari uno stipendio più alto, ma si trova ad avere a che fare con un costo delle vita più alto, e in un Paese straniero".

Ma per chi non ha intenzione di abbandonare l'Italia, ma solo di conoscere un Paese nuovo, e fare un po' di esperienza, l'Australia ha più o meno le 'porte aperte'.

I cittadini italiani tra i 18 e i 30 anni possono ottenere, infatti, un visto vacanze-lavoro valido per un anno, rinnovabile una seconda volta se nel primo anno si svolgono attività nelle zone rurali per almeno tre mesi come bracciante, raccoglitore di frutta, giardiniere.

"Nel settore agricolo -conclude Romiti- c'e' molta possibilità per il lavoro stagionale. Ci sono 1.400-1.500 fattorie australiane, che in collaborazione con la nostra associazione, offrono vitto e alloggio in cambio di collaborazione nel lavoro in fattoria. Ma le richieste dall'Italia sono al massimo qualche decina all'anno".

Nuove specie biologiche


Nuove specie biologiche


Biodiversità, da cactus che ‘cammina’ a minivespe

La Top Ten presentata dall’univtà dell'Arizona              scimmia_naso_296

Millepiedi giganti, vermi del diavolo, vespe cacciatrici e cactus ''che camminano'' sono solo alcune tra le bizzarre creature inserite nella Top Ten delle nuove specie biologiche, presentate nel catalogo sulla biodiversità pubblicato dall'Istituto Internazionale sull'Esplorazione delle Specie dell'università dell'Arizona e reso noto oggi,nell'anniversario di nascita di Carlo Linneo, il noto botanico svedese al quale si deve il moderno sistema di classificazioni di piante ed animali. 

La Top Ten comprende animali dalle caratteristiche straordinarie, come la scimmia che starnutisce quando piove, scoperta in Myanmar oppure una stupenda e velenosa medusa, avvistata nelle Antille Olandesi. Il verme del diavolo, lungo circa 0,5 millimetri, è stato scoperto nelle profondità di una miniera africana, mentre l'orchidea che fiorisce di notte e' stata individuata in Papua Nuova Guinea. 

La temibile vespa parassita, scoperta a Madrid, vola a solo un centimetro da terra a caccia di ignare formiche. Del tutto innocuo e' il fungo chiamato come il personaggio di un cartone animato, SpongeBob: una vera e propria spugna che vive in Malesia, nelle foreste del Borneo. Il giallo papavero nepalese, a differenza dei suoi cugini europei, fiorisce d'autunno. Grazie ai suoi 16 centimetri di lunghezza, il millepiedi gigante e' il piu' grande millepiedi in natura, scoperto in Tanzania. Il cactus che cammina e' in realtà un verme corazzato appartenente al gruppo Lobopodia corazzata, ormai estinto, e il cui fossile e' stato ritrovato nella Cina sud occidentale. Infine c'e' l'iridescente tarantola Sazima dal colore blu, scoperta in Brasile. 

''Tutto quello che attira l'attenzione sulla biodiversità, come questa iniziativa, fa comodo alla nostra causa'' commenta Stefano Taiti dell'Istituto sugli Ecosistemi del Centro nazionale delle ricerche. ''La biodiversità è un problema grosso, poco conosciuto e causato dalla deforestazione, dai cambiamenti climatici e dall'antropizzazione in generale ovvero dalle specie invasive che vengono introdotte dall'uomo''. 

''Per esempio il Procambarus clarkii, il cosiddetto gambero killer, una volta importato in Italia dalla Louisiana ha praticamente soppiantato il nostro gambero di fiume. Stessa cosa sta accadendo con lo scoiattolo grigio giunto dal Nord America, che sta prendendo il posto dello scoiattolo rosso europeo''. Le nuove specie individuate ogni anno sono numerose, ''ne descriviamo tantissime anche qui in Italia, ad esempio, occupandomi di crostacei, descriverò tra le 50 e le 100 nuove specie all'anno. Soltanto in Italia ne ho individuate circa una ventina negli ultimi due anni''. 

Il problema non è descriverle ma trovarle, ''fra 5, 10 anni in Italia non ci sarà più nessuno in grado di descrivere le specie animali in modo scientifico, soprattutto quelle invertebrate, che sono la maggior parte in termini di biomassa''. La tassonomia, la disciplina che classifica le specie, è alla base della scienza ambientale, '' sta scomparendo, non ci sono fondi, non c'e' la certezza di una carriera scientifica e l'ecologia sugli invertebrati rischia di non avere futuro''.

La lunga storia di una crisi di sistema, scenari e proposte, intervista a Luciano Vasapollo


La lunga storia di una crisi di sistema, scenari e proposte, intervista a Luciano Vasapollo

Con questa lunga e articolata intervista il professor Luciano Vasapollo offre una propria ricostruzione della crisi che sta sconvolgendo il capitalismo mondiale. Una crisi politica da cui non si può uscire con ricette palliative ma solo con una proposta di alternativa radicale (di stefano galieni per Controlacrisi.org)


  lunedì, 21 maggio 2012
La crisi attuale e le turbolenze in Europa di questi mesi vanno lette per Luciano Vasapollo, Professore di economia applicata all’Università La Sapienza e Direttore di  Cestes – Proteo (Centro Studi dell’USB), all’interno di un processo storico-economico  molto lungo di cui bisogna assolutamente tenere conto in maniera puntuale per capirne la reale entità.

«Quanto sta accadendo oggi è la conseguenza politico-economica  di quanto avviene da molti anni e non è un  dettaglio comprendere la tipologia, l’origine e gli effetti di questa crisi. Nel modo di produzione capitalista si possono, in termini marxiani definire e analizzare tre tipologie di crisi, quella a carattere congiunturale, quella strutturale e quella sistemica. Oggi tutti parlano di crisi sistemica ma pochi sanno veramente di cosa si tratta, ed inoltre quando noi analisti marxisti ne parlavamo in tempi non sospetti già negli anni novanta nessuno ci dava credito».

E quali sono le differenze sostanziali?
«La crisi congiunturale è da considerarsi “normale”, poiché non è vero che il modo di produzione capitalistico è in equilibrio o in costante crescita quantitativa. Aveva perfettamente ragione Marx quando individuava le crisi come fase interna del ciclo in un modello economico produttivo di disequilibrio, e quindi  fasi di sovrapproduzione, situazione che obbliga alla conseguente irrinunciabile condizione di  bruciare forze produttive, distruggendo cioè forza lavoro e capitali in eccesso, materiali, tecnologici e finanziari, per poter ricreare le condizioni di una crescita capace di realizzare masse e tassi di profitto reputati “soddisfacenti” e ottenuti  attraverso gli investimenti di plusvalore in nuovi processi di accumulazione del capitale a maggiore profittabilità . 
La grande  crisi del 1929  assume invece caratteri di strutturalità poiché il capitale internazionale aveva bisogno di un nuovo e diverso modello di accumulazione, anche se  la stessa crisi di allora appariva o veniva presentata come quella di oggi come fosse di carattere finanziario, ma in realtà partiva da una profonda crisi dei fondamentali macroeconomici dello stesso modo di produzione capitalistico. Si è usciti da tale crisi con la messa a produzione di massa del fordismo e del taylorismo, e  applicando il modello keynesiano di sostenimento della domanda  realizzando un grande intervento pubblico, cioè innalzando gli investimenti in spesa pubblica, che non si traduce immediatamente in spese sociali. 

Tanto è che dalla crisi del 1929 non si è usciti con il new deal ma attraverso il  keynesimo militare che esprime il suo massimo livello con la seconda guerra mondiale e con la stessa ricostruzione post- bellica. Gli Stati Uniti diventano la nuova locomotiva mondiale allo sviluppo capitalistico, infatti rafforzando l’apparato industriale militare nella preparazione alla guerra e non dovendosi neanche preoccupare a guerra finita della loro ricostruzione perché non subiscono danni nel loro territorio, possono dedicare risorse da destinare agli investimenti produttivi nella ricostruzione dopo i danni di guerra subiti dai paesi europei, realizzando così un forte interventismo statale  attraverso la politica degli aiuti sul modello dei “Piani Marshall”. 
Tale situazione permette agli USA di  realizzare un proprio  sviluppo economico basato soprattutto sull’import e sull’indebitamento, interno , esterno, pubblico e privato. Una economia così strutturata sull’indebitamento poiché basata sull’importazione, determina quantità di dollari e di titoli in dollari certamente superiori alla ricchezza realizzata dagli Stati Uniti, contravvenendo così alle regole basilari degli accordi di Bretton Woods. 

I paesi creditori accumulano così valuta USA in un mondo fortemente  “dollarizzato”. Si arriva al punto a fine anni ’60 che i dollari in circolazione a livello mondiale sono almeno sei volte la ricchezza degli Stati Uniti e quindi di fatto gli accordi di Bretton Woods inevitabilmente saltano per una imposizione unilaterale da parte degli Usa, che vogliono campo libero per un ulteriore sviluppo del loro modello importatore-debitorio da imporre al mondo  in termini politico-commerciale o anche politico-militare espansionistici. 

Anche perché intanto muta lo scenario mondiale?
«Infatti nel frattempo entrano in campo due nuovi competitori internazionali, cioè i Paesi sconfitti nel conflitto, la Germania e il Giappone, che scelgono per la  ricostruzione e il rafforzamento del proprio sistema di sviluppo interno, un modello capitalistico diverso da quello statunitense, meno aggressivo. Tale modello è stato definito renano – nipponico, e si basava soprattutto su un forte e riqualificato apparato industriale, in funzione di una articolata e competitiva propensione all’esport, mantenendo un ruolo importante dell’impresa pubblica; un modello sostenuto da un consociativismo con le forze sindacali controbilanciato da un capitalismo più a carattere sociale rispetto a quello USA, o meglio anglosassone, definito anche capitalismo aggressivo e selvaggio. Il modello renano-nipponico ha permesso a tali paesi un forte rafforzamento dell’apparato industriale interno, mantenendo salari relativamente più alti, imponendo così una condizione di bassa conflittualità sociale.  Tale strutturazione ha creato da subito problemi competitivi agli Usa che verso il Giappone hanno scatenato una vera guerra speculativa per diminuire la competitività internazionale del Giappone e dello yen. La Germania nel frattempo continua il proprio rafforzamento industriale con una forte capacità esportatrice e per poter mantenere tale modello aveva bisogno di una moneta forte e di un’area europea che assumesse i caratteri di polo economico-commerciale e monetario a guida tedesca, e per far ciò necessitava eliminare competitori interni a tale nuovo polo geoeconomico deindustrializzandoli  e rendendoli dipendenti dall’esport della Germania.. 
È allora che comincia la crisi sistemica che oggi vediamo chiaramente. 

Intanto con  la fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 si evidenzia anche l’inizio dell’attuale crisi sistemica, a causa delle stesse difficoltà nel realizzare da parte del capitale internazionale un nuovo modello di accumulazione in grado da permettere non solo la crescita della massa complessiva del plusvalore ma tale che sappia mantenere per i paesi a capitalismo avanzato quei tassi di profitto reputati congrui per far ripartire il sistema ai livelli di crescita alla profittabilità desiderata .
Gli effetti di tale crisi portano necessariamente all’acuirsi della competizione globale, che viene definita come la nuova fase della globalizzazione; in effetti una nuova fase della mondializzazione capitalista in cui a globalizzarsi in effetti è l’espansione soffocante della finanza. In effetti la crisi sistemica del capitale necessita della globalizzazione neoliberista che sviluppa politiche economiche restrittive  tese a contrarre i salari diretti, indiretti e differiti e contemporaneamente a tentare di aumentare la massa dei ricavi, per compensare la evidente caduta tendenziale del saggio di profitto. Si cerca così di invadere nuovi mercati attraverso nuovi progetti e modalità di presentarsi degli imperialismi, a matrice USA ed euro-germanica, a carattere economico-politico-militare per tentare di risolvere la crisi. Agli altri paesi europei viene imposta la deindustrializzazione e la delocalizzazione dell’attività produttiva in un nuovo disegno della divisione internazionale del lavoro. 

Si sviluppa in tal modo la cosiddetta fase della globalizzazione neoliberista partendo da forti processi di deregolamentazione dei mercati, abbattendo il ruolo interventista nell’economia da parte degli Stati, puntando ad un modello di competizione globale che sviluppa in primis un attacco senza precedenti al costo del lavoro e contemporaneamente processi di delocalizzazione produttiva (in paesi con lavoro a basso costo ma specializzato, non normato e non sindacalizzato, in questo modo si fa piazza pulita dell’industria dei maggiori  competitori europei con la Germania), esternalizzazioni, privatizzazioni e dirottando risorse su una finanza aggressiva e destabilizzante, tentando di realizzare con le rendite quanto non si riusciva ad ottenere  in termini di profitti. 
Il Marco non può farcela a reggere alla competizione internazionale con l’area del dollaro se non si crea un polo economico commerciale europeo che metta la moneta tedesca in condizione di competere col dollaro e con un’economia della Germania che possa ambire a diventare la nuova locomotiva del capitalismo internazionale. 
Insomma fin dagli anni ’70 si gettano le basi per la costruzione dell’Europa dell’euro e del polo imperialista europeo». 

 Quindi l’euro è di fatto una moneta che sostituisce il marco?
«La costruzione del polo imperialista europeo di fatto  avviene sulle necessita competitive internazionali della Germania; pertanto lo stesso euro è da considerarsi una sorta di Super Marco, ed infatti i tassi di cambio imposti agli altri paesi europei non sono stati pesati  in base alla ricchezza dei singoli Stati ma in funzione delle necessità competitive politico-economiche e politico-monetarie della Germania. Non è un caso che nei mesi successivi all’introduzione dell’euro, ad esempio, in Italia.  il potere d’acquisto dei  salari di fatto si dimezza poiché con un euro si acquista in pratica più o meno ciò che pochi mesi prima si acquistava con mille lire e non con le 1936 imposte dalla quotazione di cambio dell’euro. 
La costruzione del polo euro-germanico necessita di una nuova divisione europea del lavoro nel quale i paesi dell’Europa meridionale-mediterranea si trasformino in  aree di importazione, infatti proprio i dati di maggio 2012 confermano  che il 45% delle esportazioni tedesche si riversano proprio nell’are europea. Si risolvono così, quindi, le necessità competitive del modello tedesco che evidenzia significativi surplus  della bilancia dei pagamenti che trovano possibilità di investimento ad alto rendimento acquisendo il deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi europei in particolare quelli mediterranei, cioè acquistandone i loro titoli  del debito pubblico. Il surplus tedesco è determinato dal proprio modello di esportazione che realizza profitti sull’import degli altri paesi europei, i quali essendo ormai deindustrializzati sono costretti ad indebitarsi sempre più e alla fine il surplus finanziario tedesco realizza rendite dall’acquisto dei titoli del debito pubblico dei PIIG. Ci sono surplus  finanziari che non possono restare immobili quindi la Germania si compra i titoli del debito pubblico dei PIIGS.( volgare acronimo, che significa maiali, utilizzato dai potentati del capitale per identificare la marginalità resa utile e indispensabile per sorreggere l’impianto imperialista euro-tedesco) ».

Ma il problema è il debito pubblico?
«In realtà i dati ci confermano che ad essere fuori controllo è il debito privato, soprattutto delle banche e delle grandi imprese, e il debito pubblico si è formato nel tempo non per l’eccessiva spesa sociale. Infatti ad esempio in Italia l’impennarsi del debito pubblico è dovuto alle scelte dei governi già dagli anni ’70 di accettare per ragioni politico-clientelari livelli incompatibili di evasione fiscale funzionale al sistema partitico e politico-economico; elargizioni clientelari al sistema di impresa attraverso incentivi, defiscalizzazioni, rottamazioni, ecc.; stanziamenti di cifre altissime per grandi opere pubbliche mai realizzate e utili solo per foraggiare il circolo perverso di imprenditoria criminale, tangenti politico-partitiche, malaffare e criminalità organizzata; sperpero di spesa pubblica ma non sociale con finanziamenti legali, illegittimi e illegali al sistema dei partiti e alla politica affaristica. 
Il debito pubblico serve a determinare le condizioni di delegittimazione del ruolo dei singoli stati in campo economico e politico  per creare lo Stato sovranazionale europeo, cioè il passaggio al super Stato politico europeo che necessariamente porta a creare deficit di democrazia, a stabilire la sovranità della super Germania. 

I piani di ristrutturazione della Bce verso i PIGS sono serviti a costruire questa Europa e  la Bce sta facendo  quello che l’Fmi ha fatto per l’America latina, attraverso i piani di aggiustamento strutturale, Pas, o piani di austerità, agendo con privatizzazioni, abbattimento della spesa sociale, riduzione del costo del lavoro e creazione di precariato giovanile e non. 
Ma ora la stessa costruzione del sovrastato europeo è messa in ginocchio dalla crisi di sovrapproduzione che sta realizzando anche quella di sottoconsumo per contrazione dei redditi da lavoro. L’austerità non può andare di pari passo con la crescita; le politiche restrittive servono solo per ultimare la resa dei conti di classe contro il movimento dei lavoratori e per delegittimare definitivamente il ruolo degli Stati-nazione abbattendo ciò che rimane dell’economia pubblica. 

Ma è evidente che  non esistono soluzioni di carattere economico alla crisi sistemica. Non si possono  certo risolvere i problemi della crisi, come vorrebbero la maggior parte dei partiti della sinistra europea e gli economisti keynesiani che a volte ancora si autodefiniscono marxisti,  dando il ruolo di prestatore di ultima istanza alla Bce (che oggi  presta denaro alle banche con un interesse all’1% mentre i titoli emessi hanno il 6% di interesse)  e permettendo le emissioni di eurobond che dovrebbero servire a coprire il debito. Seguendo le ricette imposte siamo come soggetti che sanno quale è il proprio boia, danno il proprio collo e preparano il nodo. Non se ne esce certo da una crisi sistemica del capitale internazionale con improbabili e anacronistiche soluzioni economico – keynesiano che puntano all’impossibile coniugazione fra  austerità e politiche espansive per la crescita in quanto illogiche sul piano macr4oeconomico oltre ad essere impossibili sul piano politico-economico. Nelle regole dell’economia si parte da un equilibrio  ma se mancano le risorse bisogna andare a prenderle da qualche parte. Per arrivare ad oggi i titoli greci sono in mano tedesca, potrebbero mettere in conto di abbandonare Atene ma piazzare i titoli al 2,5%».

Tu quindi chiedi una soluzione politica?
«Le ricette di partiti come il Pd che appoggiano in todo il governo Monti sono suicide e indietro storicamente, economicamente e politicamente anche rispetto a quello che pensano molti uomini politici ed economisti  che si richiamano  alla destra berlusconiana o addirittura più radicale. Inutile offrirsi all’altare sacrificale imposto dalla Germania sperando di entrare fra i potenti addossando tutti i costi della crisi ai lavoratori. Quello che sta attuando il governo dei professori bocconiani e clerico-confindustriali contro il mondo del lavoro non era riuscito a farlo neanche Berlusconi, poiché si sta subendo totalmente la ristrutturazione imposta dalla borghesia tedesca. Quanto accaduto attraverso le politiche economiche negli ultimi otto mesi rischia di costituire  le fondamenta per costruire la nuova forma-Stato d’Europa per i prossimi 30 anni. Ma sta rinascendo un forte conflitto sociale, malgrado anche la posizione accondiscendente e consociativa del partito di Bersani e dei suoi utili alleati dei sindacati confederali, che fingono inappropriate proteste ma accettano la filosofia del disegno politico complessivo. Il parlamento abbatte lo stato di diritto e modifica la Costituzione con una maggioranza trasversale, ma sono ormai politicamente talmente deboli e non rappresentativi della società reale che sono bastate le proteste di massa contro Equitalia per annunciare l’utilizzo dell’esercito rievocando i tristi periodi della democrazia repressiva antipopolare e a connotato fascistoide».

Le elezioni in Grecia potrebbero essere decisive in tutti i sensi anche a favore del rilancio di un forte e organizzato movimento dei lavoratori europeo?
« Auspico una vittoria delle sinistre di classe in Grecia perché potrebbero riaffermare un forte protagonismo sociale e le possibilità di uno sviluppo autodeterminato in molti paesi europei. Oggi la sinistra di classe greca, che non può assolutamente prescindere dal ruolo chiave del KKE e dalla forza conflittuale del sindacato del PAME, potrebbe porsi come punta più avanzata del conflitto sociale europeo contro le politiche dell’euro e della troika.
I compagni greci si devono assumere la responsabilità politica insieme alle altre organizzazioni sociali e del  sindacato conflittuale di indicare al movimento dei lavoratori europeo, a partire da quelli dei paesi PIIGS, una soluzione tutta politica rilanciando una battaglia per la fuoriuscita dall’Europa dell’euro su un terreno di classe; un percorso di lotte e organizzazione per far convivere i momenti rivendicativi tattici con la capacità di rilanciare attraverso la lotta il protagonismo sociale e sindacale che si sappia coniugare con la prospettiva strategica sull’orizzonte della trasformazione radicale in chiave socialista. Per far ciò serve una proposta e un percorso tutto politico e non di accettazione delle compatibilità economiche per quanto edulcorate e a carattere apparentemente sociale, ponendosi da subito fuori dall’euro dell’Europa imperialista e per la costruzione di un’area  che si muova da subito sul terreno dell’anticapitalismo.

Un forte e organizzato movimento di classe a partire dall’Europa Mediterranea , potrebbe imporre attraverso una forte e radicale legge patrimoniale,una congrua tassazione di tutti i capitali, una effettiva redistribuzione del reddito ma soprattutto della ricchezza già a partire da riforme strutturali  che riconoscano il reddito minimo garantito universale, la gratuità di tutti i servizi essenziali, un piano di edilizia pubblica e popolare, la protezione  e il salario pieno per tutti i lavoratori.
Il fulcro centrale della proposta deve però partire dalla nazionalizzazione delle banche per il controllo sociale dei flussi di credito da indirizzare prioritariamente a investimenti socialmente utili ponendo da subito la questione della nazionalizzazione dei settori strategici e la statalizzazione dei  cosiddetti settori in crisi. 

Basti pensare a quanto accaduto nei paesi dell’ALBA in America latina, dove si è realizzata una vera e propria inversione di tendenza sociale attraverso il distacco degli organismi del capitale, come l’FMI, con le nazionalizzazioni dei settori strategici come le comunicazioni, l’energia, i trasporti , con forti investimenti sociali sorretti da una propria Banca del Sur. 
Da noi bisogna realizzare lotte e percorsi di un nuovo protagonismo sociale capace di invertire i rapporti di forza da parte delle organizzazioni di classe per elaborare un programma tattico e strategico. 
Se si esce da soli dall’euro, cioè con una decisione unilaterale di un solo paese, si viene certamente investiti dalla speculazione internazionale capace di spezzare le possibilità di uno sviluppo autodeterminato.

Se la sinistra greca vince dovrebbe  pensare a mettersi alla guida del movimento di classe europeo per costruire una vasta area dell’alternativa anticapitalista, che prendendo di petto la questione del debito e imponendo il suo non pagamento alle banche europee e alle società finanziarie internazionali sappia porre le basi per la costruzione di un’area di paesi che si doti di una propria moneta e di un auto centrato modello di sviluppo fuori dalle logiche del profitto e dello sfruttamento capitalista (nel nostro libro “Il risveglio dei maiali PIIGS”, già alla seconda edizione 2012 per l’editore Jaca Book, chiamiamo tale moneta LIBERA per l’area ALIAS che potrebbe comprendere i paesi dell’Europa Mediterranea, dell’Africa Mediterranea inglobando anche alcuni paesi dell’Est Europeo).

Ma tutto ciò è utopia? E’ davvero nel mondo irrealizzabile di alcuni “sognatori marxisti”?
«La crisi del capitale è sistemica e profonda, e sempre più si trasformerà in una crisi sociale senza precedenti. La storia non ha percorsi lineari ma procede con salti e rotture in funzione delle determinanti del conflitto sociale, basato su sempre nuove e più articolate relazioni sociali che modificano i rapporti di forza e che vanno indirizzati a favore del movimento dei lavoratori, con intelligenza tattica ma senza nulla concedere al capitale accettando impossibili ruoli di cogestione della crisi. Di esempi ne abbiamo tanti: dal progetto alternativo antimperialista, anticapitalista e di sistema dell’ALBA, fino a soluzioni legate specificatamente solo alla risoluzione del problema del debito, come ad esempio  anche in Europa l’Islanda, che non ha avuto problemi a fare una scelta coraggiosa dichiarando il non pagamento del debito pubblico alle società finanziarie e alle banche inglesi e olandesi restituendo invece i soldi dei titoli pubblici ai piccoli risparmiatori ma non ai potenti. In America Latina ci sono stati casi di percorsi di default programmato, come l’Argentina che  a inizio di questo nuovo secolo veniva data per spacciata, ha invece seguito un proprio modello di sviluppo nazionale sottraendosi dal cappio dello strozzinaggio dei potentati finanziari internazionali ed oggi è una potenza emergente. Per far tutto questo c’è bisogno di una virtù che oggi in Italia e in Europa fatica ad emergere, il coraggio politico di una sinistra di classe che scelga da subito il terreno conflittuale per la prospettiva dell’alternativa di sistema in chiave socialista».

Sindaco Orlando, ti invio una storiella


Orlando, ti invio una storiella, non nuova, senz'altro conosciuta da alcuni se non da tutti, in linea con la tua.
Ciao.


LA SETTIMANA DELLA GENEROSITA’

Un giorno, un fiorista si recò dal barbiere per farsi tagliare i capelli.

Alla fine, chiese al barbiere quanto gli dovesse per la sua opera.

"Proprio niente" rispose l'artigiano "ho aderito alla settimana della generosità e per questo ho deciso che per la sua durata taglierò i capelli gratis”.

Il giorno dopo, al mattino, all'atto di aprire la sua bottega, trovò davanti alla porta un mazzo di rose del fiorista con un biglietto: "Queste sono per la sua signora; ho aderito pure io all'iniziativa".

Durante la giornata, arrivò per tagliarsi i capelli il pasticcere.

Stessa storia. Il barbiere rifiutò di incassare il corrispettivo, per la medesima ragione.

All'indomani, così come era accaduto con le rose, trovò un vassoio di pasticcini ed un biglietto, analogo a quello del fiorista, nel quale anche il pasticcere dichiarava di aver aderito alla settimana della generosità.

Più tardi, giunse presso la bottega un Deputato. Anche a lui il barbiere applicò il medesimo trattamento.
Lo servì al meglio, ma non volle accettare il denaro, per l’identica motivazione, che gli comunicò.

La mattina successiva, andando ad aprire la bottega, il barbiere trovò ad aspettarlo altri 10 onorevoli che volevano farsi tagliare i capelli…. gratis!

La morale?

Non c'è: ciascuno provveda, se crede, a trarsela per proprio conto!

Le societa' di rating in usa non controllano in europa fanno il pelo...Facebook, l’ultima "truffa" di Wall Street,


Facebook, l’ultima "truffa" di Wall Street


venerdì 25 maggio 2012
FINANZA/ 2. Facebook, l’ultima truffa di Wall StreetInfophoto

Ohibò, Facebook e le banche che hanno curato il collocamento sono finite nel mirino degli investitori. Furenti per il crollo in Borsa delle prime tre sedute e per le indiscrezioni sulla diffusione di informazioni sul social network solo a una ristretta cerchia di investitori da parte della banche, gli azionisti sono andati all’attacco e hanno presentato una serie di azioni legali, senza risparmiare nessuno, tantomeno l’amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg. E mentre le autorità assicurano che indagheranno su quanto accaduto, il caso dell’ipo più attesa dell’anno ha raggiunto addirittura il Congresso, con la Commissione bancaria del Senato che esamina informalmente la vicenda e la Commissione finanziaria della Camera che raccoglie informazioni: accidenti, roba da Watergate.
L’azione legale avviata a New York dallo studio legale Lieff Cabraser Heimann & Bernstein accusa il prospetto informativo diffuso, stilato con «negligenza e nel quale non figuravano dati chiave sulle attività e le prospettive». Un’altra class action avviata in California dallo studio Glancy Binkow & Goldberg punta il dito contro alcuni manager di Facebook, Morgan Stanley, Goldman Sachs e JP Morgan per aver comunicato solo a una piccola cerchia di clienti e non al pubblico la revisione al ribasso delle stime da parte delle stesse banche. La rivolta degli investitori contro i big! Evviva, era ora!
No, cari lettori, questa volta non ci sto: non esiste un diritto all’ignoranza, con buona pace di Gaetano Salvemini. Soprattutto se si parla di investimento, ovvero di denaro che viene utilizzato per scommettere su qualcosa, sia esso un titolo, un’obbligazione, un derivato o quant’altro. È vero, dopo il filing dell’azienda per la quotazione, Facebook, attraverso un suo manager, ha avvertito 21 grandi banche di Wall Street dei pessimi risultati previsti per il secondo trimestre, invitandole a tagliare le stime. È altrettanto vero che le banche d’affari in questione si sono ben guardate dal rendere nota la cosa, limitandosi ad avvertire solo i clienti migliori e i grandi investitori. È altresì vero che Morgan Stanley ha palesato la sua conoscenza delle reali stime lanciandosi in un’operazione da difesa della linea Maginot venerdì scorso, quando ha mosso ogni pedina in suo possesso per far mantenere al titolo quota 38 dollari per azione e non fare una figuraccia con i clienti nel primo giorno d quotazione. Tutto vero, non lo nego.
Cosa è successo però davvero a Facebook, il cui sbarco a Wall Street è conciso con un turbine di polemiche per quella che in molti dipingono come la più classica delle operazioni di “pump and dump” da parte di Goldman Sachs, capace di far lievitare il prezzo del titolo ancora “not public”, salvo scaricare le azioni prima dell’ipo? Insomma, abbiamo davvero a che fare con una serie di errori e pratiche al limite del legale che hanno trasformato il “big issue” borsistico di quest’anno in un flop oppure tutti sapevano come stavano le cose, ma hanno voluto credere alla favola bella del denaro facile, tramutandosi in avidi capitalisti esattamente come i banchieri che si vorrebbe ora trascinare in tribunale?
Per amore di verità, è da almeno un anno che si stavano gettando le basi di questo fallimento, esattamente da quando la Sec aveva acceso il faro sul livello di crescita esponenziale del trading delle azioni di nomi come Facebook, Twitter, LinkedIn e Zynga. Aziende come SharesPost e SecondMarket, infatti, hanno offerto piattaforme di trading private per questi titoli “not public” e la volontà di molti dipendenti delle aziende di monetizzare questa nuova gallina dalle uova d’oro garantiva un flow azionario pressoché infinito. E già oltre un anno fa, il fatto che il numero di azionisti di Facebook stesse salendo esponenzialmente, attivò il meccanismo automatico del mercato Usa, in base al quale quando gli stokeholders salgono sopra quota 500, l’azienda è obbligata a rendere pubblici bilanci e dettagli finanziari.
Il giochino, per mesi, è stato semplice: molti azionisti privati compravano azioni nel mercato secondario in gruppi, facendo abbassare il numero di stakeholders, ma il giorno in cui la Sec fece balenare l’ipotesi di contare come azionisti singoli ogni partecipante a queste joint ventures, Mark Zuckerberg decise di accelerare la quotazione del titolo. Questo anche perché broker come SharesPost e SecondMarket aiutarono proprietari di azioni a incontrare on line potenziali acquirenti e negoziare il prezzo dei titoli in transazioni private: il problema è che c’è la quasi certezza che i protagonisti più attivi della categoria dei compratori siano stati null’altro che investitori istituzionali estremamente sofisticati, quindi anche se Facebook non era quotata nel senso istituzionale di essere trattata quotidianamente e in maniera regolamentata, c’è la certezza che la gente si sia arricchita dal commercio di questi titoli.
Quanto valeva realmente il titolo Facebook, quindi, prima dell’ipo? La banche collocatrici e anche i brokers lo sapevano di certo e sicuramente non 38 dollari per azione. A detta di Luigi La Ferla, co-fondatore della Ltp Trade di Londra, quella di Facebook «più che di una bolla, è una manifestazione di eccesso razionale di cui sono capaci solo i mercati finanziari quando hanno a che fare con un qualcosa senza precedenti e, soprattutto, di inaspettato. Ci sono troppo poche informazioni finanziarie per valutare un’azienda del genere e, inoltre, normalmente si tende a non voler comprare qualcosa che Goldman ha intenzione di vendere».
Già, perché certamente chi ha curato il collocamento di Facebook sapeva che il suo più grande problema è la decelerazione delle entrate, un qualcosa che il mercato non ama, soprattutto per aziende con margini di profitto già alti come quelli del social network: e con margine operativo del 50%, il margine di profitto di Facebook scende e non sale. Inoltre, il tasso di crescita di Facebook nel primo trimestre è stato, anno su anno, di un modesto 45%, giù dal 55% dell’ultimo trimestre dell’anno scorso, a sua volta in discesa dal terzo. Le stesse entrate pubblicitarie nei primi tre mesi di quest’anno sono state del 37%, un po’ pochino per un’azienda che si dipinge come una seria minaccia per Google, la quale ha entrate 10 volte superiore e anche un cash-flow maggiore delle revenue stesse del social network.
Già, perché il cash-flow di Facebook è negativo, l’azienda sta bruciando denaro per gli eccessivi costi dei data centers: se la crescita delle entrate non torna ad accelerare nel resto del 2012, Facebook potrebbe chiudere l’anno sotto quota 40%. Succederà? Tornerà a crescere? Difficile. Primo, Facebook non sta affatto cominciando a monetizzare i suoi utenti, visto che il capo del business, Sheryl Sandberg, lavora a Facebook da quattro anni e non da una settimana: e Google era molto più grande di Facebook a quattro anni dall’inizio del business. Secondo, Mark Zuckerberg ha detto chiaro è tondo che per lui la mission di Facebook resterà sociale e non di business: quindi, o mente o non ci sono piani di aumento della profittabilità. Terzo, se anche Facebook raggiungerà quota tre miliardi di utenti, come dice, la parte ricca del mondo è già su Facebook, chi si aggiungerà non avrà attrattiva business, non sarà avvezzo ad acquisti on-line e quindi non è target per l’industria dell’advertising.
Quale il destino di Facebook, quindi? Là fuori ci sono ancora circa 7mila azioni che si possono comprare, ma, al netto di novità che stravolgano le tre criticità che ho poc’anzi sollevato, dubito che ci sarà la fila per acquistarle a un prezzo superiore di un range tra i 16 e i 24 dollari, anche con entrate 2012 a +50%. Quel range era quello in cui venivano trattate off-the-market prima del collocamento, anzi per la precisione si viaggiava intorno a un valore medio di 27 dollari per azione: perché io, Mauro Bottarelli, che non posseggo né un titolo, né un’obbligazione di alcunché e nemmeno intendo farlo, sapevo che Facebook sarebbe stata una fregatura solenne - e lo scrivo da più di un anno - e chi invece era intenzionato a scommettere sull’ipo del social network non ha sentito il dovere di informarsi, invece di bersi allegramente quanto scritto da media conniventi e banche collocatrici (le quali fanno il loro lavoro di piazzista, non si chiede al cuoco se nel suo ristorante si mangia bene) e ora piange chiedendo giustizia al giudice di turno?
Spiacente, questa volta sto con l’avido banchiere, visto che se il capitalismo in salsa statunitense è ormai la nobile arte di fregare il prossimo (chi produce un telefonino - non la cura contro il cancro - capitalizza più di tutto il Nasdaq, fate voi), occorre essere molto attenti e coscienti prima di imbarcarsi in operazioni solo apparentemente semplici e senza rischio. Secondo voi, se fossero state un vero affare, Goldman Sachs avrebbe venduto quasi tutte le sue azioni prima del collocamento in Borsa? E che il gigante di Wall Street stesse facendo questo lo sapevano tutti, era scritto sul Wall Street Journal come sull’Herald Tribune. Sono per caso diventati pazzi a Goldman, visto che già avevano perso soldi vendendo troppo in anticipo le azioni di LinkedIn che avevano in portafoglio prima dell’ipo?
Sicuramente Goldman, Facebook e Morgan Stanley verranno censurate e costrette a pagare una multa ridicola (rispetto alle loro entrate) per la loro mancata comunicazione al mercato del taglio delle stime ed è giusto che sia così, ma quale giudice potrà dar ragione a chi vuole vedersi riconosciuta non la violazione di un diritto, ma il diritto stesso all’ignoranza? Ragionateci su, cari lettori: se il mondo va così, è anche colpa nostra. Davvero pensate che un social network che vi fa trovare il compagno di banco del liceo possa valere 100 miliardi di dollari e possa reggere sul mercato, alle condizioni attuali, con un titolo a 38 dollari per azione? Quando smetteremo di prendere per oro colato ciò che ci dicono i media mainstream, le banche d’affari e i solerti governi? Pensate davvero che le Commissioni del Congresso andranno addosso a Goldman Sachs, principale collocatore di debito pubblico Usa, in un momento in cui la Cina pare intenzionata ad alzare il tiro e scaricare davvero Treasuries?
Lungi da me difendere che imbroglia o, peggio, le majors di Wall Street, ma la Sec dove ha guardato in questi mesi? Dopo aver chiesto lumi sulle strane pratiche di Facebook rispetto all’assetto dell’azionariato, perché si è girata dall’altra parte proprio quando si dava vita al collocamento pre-ipo? Pensate che in Borsa i soldi possano farli tutti e tutti partano da condizioni uguali? Chiedetelo alla piccola azionista citata dal Wall Street Journal, Jennifer Kohne, che trascinata dall’entusiasmo per lo sbarco in Borsa decise di comprare 3000 azioni di Facebook a 42 dollari, cioè 4 dollari più del prezzo di collocamento: quei titoli oggi valgono 10 dollari in meno, per una perdita netta di oltre 30mila dollari. Lo so che non è giusto, ma quando la Jennifer Kohne di turno gioca a fare David Einhorn, si fa male.

P.S. Agenzia Ansa delle 13.14 di ieri: «Il settore assicurativo di Italia e Spagna è più esposto all’impatto di una uscita della Grecia dall’euro. Lo afferma Fitch, menzionando l’effetto contagio che potrebbe verificarsi sui titoli italiani e spagnoli e sulle banche e che potrebbe comportare azioni sul rating. In Germania e Inghilterra, invece, il comparto è più al riparo». Capito come si gioca su certi tavoli: a Borsa aperta, si lancia di fatto un invito a shortare le assicurazioni italiane e spagnole. Fitch è francese, quindi fa l’interesse di Parigi. E voi vi stupite e vi indignate ancora per il caso Facebook?