mercoledì 25 luglio 2012

L’élite della vergogna e noi plebei cosa facciamo??nulla,vogliamo capire che è in atto una rivoluzione culturale??ci hanno prima illuso che potevamo tutto adesso vogliono che facciamo un passo indietro!! riflettiamo


L’élite della vergogna

25 luglio 2012
Luca Galassi
I super ricchi nel mondo evadono più di tutti. Una ricerca – citata dal quotidiano britannico Guardian – elaborata dal gruppo Tax justice network dal titolo ‘The Price of offshore revisited’ (Il costo delle economie off-shore rivisitato), denuncia un dato impressionante: alla fine del 2010 l’élite mondiale dei Paperoni di tutto il mondo ha custodito almeno 21 trilioni di dollari in conti correnti segreti nei cosiddetti paradisi fiscali off-shore (come la Svizzera e le isole Cayman). Tale cifra assomma a più del valore del pil di Stati Uniti e Giappone messi insieme.
Secondo l’ex economista capo dell’agenzia di consulenza finanziaria McKinsey, James Henry, che ha compilato la stima, la più dettagliata relativa al mondo sommerso dei paradisi fiscali, la cifra potrebbe arrivare a 32 trilioni di dollari. Nel rapporto, viene infatti tenuto in conto solo il capitale finanziario e non le proprietà, fra cui le barche di lusso, che spesso sono iscritte ai registri navali proprio dei Paesi dove è più facile evadere il fisco.
Ad aiutare gli evasori, le banche private: la ricchezza di questi individui – relaziona Henry – è protetta da “un branco di professionisti altamente retribuiti, appartenenti all’industria bancaria, legale, contabile e di investimento che si avvantaggia delle frontiere porose dell’economia globale”.
Sempre secondo la ricerca dell’economista, le prime dieci banche private, tra cui Ubs e Credit Suisse, così come la banca di investimenti Goldman Sachs, hanno gestito oltre 5,8 trilioni di euro nel 2010, contro i 3 milioni di euro del 2007. Lo studio, redatto con dati provenienti da una varietà di fonti, incluso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bank of Settlements) e il Fondo Monetario Internazionale, suggerisce che in numerosi Paesi emergenti il valore cumulativo del capitale uscito dalla loro economie dagli anni ’70 a oggi sarebbe abbastanza per pagare il debito col resto del mondo.
I Paesi ricchi di petrolio, con un’élite mobile a livello internazionale sono particolarmente soggetti a vedere la loro ricchezza scomparire in conti bancari off-shore anziché essere investiti in patria. Oltre sette miliardi di euro hanno lasciato la Russia dai primi anni ’90. Dagli anni ’70, sono usciti dall’Arabia Saudita 290 miliardi di euro. Dalla Nigeria, nello stesso periodo, una somma di poco inferiore: 288 miliardi di euro.
Il capitale che evade il controllo delle autorità fiscali nazionali è così imponente che nuovi parametri sono necessari per calcolare il divario tra ricchi e poveri. Secondo i calcoli di Henry, 9,2 trilioni di capitale sono nelle mani di appena 92mila persone, lo 0,001 percento della popolazione mondiale. “La disuguaglianza – scrive Henry – è molto peggiore delle statistiche ufficali, ma i politici attuano ancora il trickle-down (sconti fiscali e agevolazioni a imprese e soggetti benestanti) per trasferire ricchezza ai poveri. La gente per strada non si fa più illusioni su quanto ingiusta sia di diventata la situazione”.

Le 6 "carte" di Draghi per salvare l’Italia (e l’euro)


Le 6 "carte" di Draghi per salvare l’Italia (e l’euro)

mercoledì 25 luglio 2012
SPREAD/ 1. Le 6 carte di Draghi per salvare l’Italia (e l’euro)
Un grido di dolore e di speranza si leva dai paesi in difficoltà: “Solo la Bce ci può salvare”. Ma come? Si sta formando un ampio consenso in Italia, in Spagna, ma anche in Francia, attorno a uno schema che vede in primo piano la Banca centrale europea. Perché spetta a lei dare il la. Il dibattito si estende fino a prefigurare un organico intervento di emergenza per fermare la speculazione, dimostrare che l’euro c’è, acquistare il tempo necessario affinché le politiche di rigore producano gli effetti desiderati.
Ciò non basta a contrastare la recessione che ormai investe l’intera Europa; occorre infatti mettere in moto una politica di reflazione (cioè il contrario della deflazione), in sostanza un sostegno alla domanda di consumi e investimenti che parta dai paesi con attivi nel bilancio pubblico e nei conti con l’estero, a cominciare dalla Germania. Ma la terapia d’urto ha la priorità, anzi è la premessa senza la quale l’organismo, in preda a convulsioni sempre più incontrollate, non è in grado di assorbire la cura ricostituente.
La soluzione più radicale è stampare moneta e acquistare direttamente, sul mercato primario, i titoli di stato dei paesi in difficoltà. In fondo, la banca centrale esiste per emettere la moneta unica e sostenerla. Sui biglietti c’è solo una firma oggi, quella di Mario Draghi. La stabilità dei prezzi sotto un tetto del 2% di aumento annuo è il mandato primo della Bce e la condizione per dare solidità all’euro. Questo obiettivo è stato realizzato ormai da un decennio. Eppure, l’euro è diventato instabile per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la quantità di moneta emessa e con l’inflazione. Dunque, Mario Draghi deve intervenire con tutti gli strumenti adeguati ad affrontare le altre cause di instabilità finanziaria: la sfiducia dei mercati, vere e proprie manovre speculative, l’inaridirsi delle fonti bancarie e il rischio che una crisi di liquidità si trasformi in crisi di solvibilità.
Il ragionamento è coerente, ma si scontra con l’opposizione della Bundesbank e dell’ortodossia tedesca, la quale stenta ancora a prendere atto del fatto che l’equazione lineare tra quantità di moneta e prezzi non funziona più nelle condizioni attuali. Insomma, la crisi ha messo in discussione il teorema di Milton Friedman come ha spiegato Francesco Papadia, ex direttore generale per le operazioni di mercato alla Bce, in una intervista sull’ultimo numero di Panorama. Ma restiamo vittime delle idee del passato.
Non è solo una questione teorica. L’élite e l’opinione pubblica tedesche (non è chiaro in quale ordine) rimangono convinte che l’onere dei salvataggi ricade prevalentemente sulle spalle della Germania trasformata in mucca da mungere da parte degli spendaccioni mediterranei. Hai voglia a dire che l’Italia, Paese in evidente difficoltà, paga la terza parte (in rapporto al suo prodotto lordo) del fondo anti spread o dei prestiti a Grecia e Spagna. La pancia prevale sulla testa, il pregiudizio sulla ragione.
Ci si mette anche il professor Hans-Werner Sinn, con la sua barba da vecchio lupo di mare e l’autorità di capo dell’Ifo, l’istituto sulla congiuntura. E hai voglia a contestarlo con logaritmi e dimostrazioni troppo sofisticate che nessuno capisce. Per tutto questo balletto mediatico-finanziario, bisogna ricordare le parole profetiche scritte da Federico Caffè nel 1972: “Ci si può chiedere come sia possibile dare credibilità a una presentazione artificiosamente allarmistica della situazione economica, in un’epoca come la nostra in cui si fa esteso uso della documentazione statistica e della modellistica econometrica. In realtà, è appunto l’uso che si faccia di questa documentazione che può diventare strumento di esagerato allarmismo”.
È improbabile, dunque, che Draghi si spinga, sulla terra incognita della politica monetaria nelle nuove condizioni create dalla crisi, fino al punto da sfidare l’opinione tedesca. Non sarebbe saggio e il presidente della Bce ha dimostrato di essere un innovatore cauto. E allora? Allora la santabarbara è ben nutrita, ripetono esponenti autorevoli dell’Eurotower, senza per questo forzare la lettera e lo spirito del mandato. Quali sono le armi a disposizione? Ce ne sono almeno sei pronte a sparare.
1 - Una riduzione ulteriore dei tassi di interesse, portandoli allo 0,50% o anche sotto, così da spingere le banche a finanziare l’economia reale e comprare titoli pubblici. La mossa è in calendario per settembre, potrebbe essere anticipata se si scatena una vera tempesta finanziaria.
2 - In tal caso, entra in campo anche un intervento coordinato delle banche centrali a sostegno dell’euro, in termini repentini e massicci, così da stroncare attacchi speculativi. L’estintore globale era già pronto nel caso di un fallimento del vertice europeo di fine giugno. Basta qualche telefonata per metterlo in funzione.
3 - Una terza tranche di finanziamenti illimitati alle banche, questa volta a tasso zero (anche in vista della riduzione degli interessi), per evitare una restrizione della liquidità. Draghi non lo ha escluso e il mercato se l’aspetta.
4 - “Solo la banca centrale ha un potere di fuoco tale da contrastare i mercati”, ha scritto sul Financial TimesLorenzo Bini Smaghi, che pure non è un economista eterodosso e lo ha dimostrato negli anni al vertice della Bce. Ma questo potere va usato in modo consistente e deciso, senza suscitare a ogni piè sospinto dubbi sulle munizioni a disposizione e sul bersaglio da raggiungere. L’idea, insomma, è di seguire l’esempio del Fondo monetario internazionale che impone ai paesi, come condizione per il suo aiuto, precise scelte di politica economica, ma poi non lesina i prestiti come invece ha fatto l’Unione europea nei confronti della Grecia e, sia pure in modo meno drastico, con la Spagna. Nel “duello tra finanza e democrazia” come lo ha chiamato Mario Deaglio su La Stampa, la finanza affonda i colpi ogni volta che la politica scopre il fianco.
5 - Secondo le intese di Bruxelles, la Bce opera come veicolo del fondo salva stati (Efsf, European financial stability facility), cioè compra e vende titoli pubblici per conto del fondo in modo da non farli gravare sul proprio bilancio, scavalcando nello stesso tempo i limiti quantitativi del fondo stesso che oggi ha in cassa, secondo le stime, solo 15 miliardi di euro. È quel che chiedono Roma, Parigi e Madrid. Probabilmente non basterà, ecco perché ci vuole un intervento diretto.
6 - L’acquisto di obbligazioni del tesoro sul mercato secondario, come avvenne lo scorso anno per Portogallo, Spagna e Italia, fu avversato dalla Bundesbank e lo sarebbe ancor più oggi. Ma Draghi ha la possibilità di ridurre lo spazio di discrezionalità, introducendo un criterio generale, cioè mettendo un tetto allo spread, oltre il quale scatta una operazione che non sarebbe più di sostegno ai singoli paesi, ma di difesa dell’euro.
Tutto ciò si può fare senza nuovi via liberi politici, condizione sine qua non per qualsiasi terapia d’emergenza. Prima bisogna stabilizzare l’unione monetaria. Altrimenti, che senso ha parlare di unione politica? Angela Merkel ha lanciato la palla avanti, con il plauso di europeisti d.o.c. come Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera. Il rischio è che si tratti di un rilancio nella terra di nessuno come nel catenaccio all’italiana. Anche perché, nel frattempo, la Germania non approva il Meccanismo europeo di stabilità, palleggiando le responsabilità tra Parlamento e Corte Costituzionale. Dunque, è chiaro a tutti (e dovrebbe esserlo anche ai tedeschi) che solo la Bce può davvero salvare l’euro. Sempre ammesso che lo si voglia davvero salvare.
Per l’Italia un intervento anti-spread è essenziale. Possiamo rimproverare al governo Monti di non aver fatto abbastanza nel taglio delle spese, nelle liberalizzazioni, nella riforma del mercato del lavoro. E di aver puntato troppo sulle tasse. Ma il Paese è in apnea, la recessione profonda e lunga. Chiedere adesso un’altra stretta diventa irresponsabile o una chiacchiera da caffè. Occorre riprendere fiato prima di immergersi ancora, altrimenti dagli abissi non si risale più.

LE banche Monti perche' dopo dell'aiuto scoprono che devono licenziare?? e tu colpisci gli statali?? che vigilano tutto questo??Bpm: in piano triennale 700 esuberi


Bpm: in piano triennale 700 esuberi

Adotta modello banca unica, ricavi attesi a 1,76 miliardi





(ANSA) - MILANO, 24 LUG - Il primo piano targato Piero Montani per la Bpm prevede vede 700 esuberi e un utile netto di 270 milioni di euro nel 2015. La banca, che domani presentera' gli obiettivi triennali alla comunita' finanziaria, stima a fine periodo ricavi per 1,76 miliardi (contro 1,35 mld del 2011). Tra le linee guida del piano ci sono anche la semplificazione societaria e organizzativa attraverso l'adozione del modello di banca unica.

Anche Roma è contagiata??Omicidio in strada vicino a Roma


Omicidio in strada vicino a Roma

Raggiunto da almeno cinque colpi di pistola



Un'esecuzione di camorra a pochi chilometri da Roma, sul litorale, dove la mafia torna ad alzare il tiro della pistola. In strada a Nettuno e in pieno giorno. Modestino Pellino, un pregiudicato luogotenente del clan Moccia, é l'ultima vittima "illustre" della guerra tra bande che imperversa nella Capitale e nell'hinterland e che per alcuni mesi sembrava essere stata sospesa con una tregua. Il killer ha colpito Pellino con sette colpi alle spalle, sotto gli occhi di diverse persone e in una piazza circondata da palazzi.
E c'é chi ha visto tutto. L'aggressore ha sorpreso la vittima alle spalle mentre intorno alle 17,30 parlava al cellulare e in un'altra mano aveva un ombrello, all'angolo della piazza Garibaldi. Poi gli ha scaricato alla schiena sette colpi di pistola calibro 9, due dei quali lo hanno preso in pieno alle schiena, un altro al fianco sinistro e altri sono rimbalzati sul muro di cinta della casa di fronte finendo anche nel cortile del numero civico 43. Grande lo spavento della piazza, che è una di quelle centrali a Nettuno, circondata da negozi e da abitazioni e a quell'ora molto trafficata.
Secondo alcune testimonianze il killer, che indossava jeans neri, maglietta nera e cappellino dello stesso colore, è poi fuggito dalla laterale via Bainsizza. La moglie di Pellin avrebbe riferito agli investigatori che suo marito era uscito per una passeggiata. Tra le ipotesi, quindi, anche quella di un appuntamento con il killer, senza che però Pellino immaginasse le sue intenzioni. L'uomo, infatti, era disarmato ed era uscito, forse rapidamente, senza documenti. Sono in corso ricerche, posti di blocco e controlli della polizia per verificare se il killer avesse un complice che lo attendeva e per capire che via di fuga abbia usato. In prima fila nella caccia al killer, oltre al commissariato di Anzio e Nettuno, c'é la Squadra Mobile di Roma.
Con l'omicidio di Pellino a Roma e in provincia torna l'ombra della criminalità organizzata sulla Capitale. E torna quindi la paura degli agguati, dopo la scia di sangue dello scorso anno, quando durante una vera e propria guerra tra bande per il controllo del territorio, diverse bande criminali hanno fatto morti e feriti in strada. Pellino era stato ai vertici del clan camorristico dei Moccia ed era considerato il "luogotenente" del clan Moccia di Afragola, attivo a Napoli e nell'hinterland. Attualmente era sottoposto a sorveglianza speciale e dopo essere riuscito a sfuggire più volte alla cattura era stato arrestato nel 2010, dopo due anni di latitanza. Non a caso era ritenuto uno dei più pericolosi componenti del "gruppo di fuoco" del clan, per il quale avrebbe gestito attività illecite come estorsioni, droga ed armi.
Durante il periodo di latitanza di Pellino, il suo nome era stato proposto per l'inserimento dei cento ricercati più pericolosi a livello nazionale. Solo qualche giorno fa un altro episodio aveva sconvolto il litorale romano, con un gesto intimidatorio nei confronti dei gestori di uno stabilimento balneare a Ostia. Un ordigno era stato piazzato in spiaggia e la sua presenza era stata annunciata da una telefonata anonima.

GESU’ FU VENDUTO PER 30 DENARI; ADESSO SAREBBERO BASTATI MENO DI DUEMILA EURO


GESU’ FU VENDUTO PER 30 DENARI; ADESSO SAREBBERO BASTATI MENO DI DUEMILA EURO


Tanto tempo fa qualcuno ritenne che la vita di Gesù Cristo valesse 30 denari; dopo duemila anni, con gli indici di rivalutazione, per la vita di un lavoratore, lo Stato è disposto a pagare 1.936 euro e 80 centesimi, neppure il costo della sua sepoltura.


Tutti ricorderemo certamente la morte di Matteo Armellini, il giovane morto il 5 marzo scorso, sotto il palco che stava contribuendo ad allestire per il concerto di Laura Pausini.
Senza dubbio, per i genitori, la madre, i parenti, la perdita del loro ragazzo, giovane e sano, non ha prezzo, così come non ha prezzo la vita di ogni lavoratore.
LA MANO DI GIUDA
Eppure per quanto grottesco possa apparire anche la vita di un lavoratore, anche se è giovanissimo, ha un prezzo e questo prezzo è fissato dall’Inail (Istituto nazionale contro gli infortuni sul lavoro).
QuestO prezioso ente, che tutti i lavoratori e gli imprenditori contribuiscono a mantenere, ha deciso che il giusto risarcimento da recapitare alla madre di Matteo, dev’essere di 1936,80 euro.
Sì, non ci sono errori, non mancano degli zeri, la somma corrisposta è esattamente millenovecentotrentasei/80 euro.
Come ha attestato la madre di Matteo, il risarcimento è stato corrisposto dall’Inail per infortunio e malattia professionale.
La beffa nella disgrazia! Quando infatti Matteo fu investito dal crollo, non aveva ancora cominciato il suo turno.
La signora Paola Armellini ha dichiarato : “Bisogna rivedere il modo in cui viene gestito il lavoro dei ragazzi che collaborano all’allestimento dei palchi, non hanno alcuna copertura assicurativa. Ai miei tempi, un sindacato non avrebbe mai permesso una cosa del genere. Vorrei che il nome di mio figlio venisse ricordato, chiedo ai sindacati e alle forze sociali di intervenire. Sono ragazzi che cercano di guadagnare dei soldi anche per aiutare le famiglie, ma devono essere tutelati”.
La morte di Matteo però alza il velo su un’incresciosa, o meglio vergognosa questione, quella dei risarcimenti Inail per i feriti e ancor peggio per le vittime degli infortuni sul lavoro.
Basti dire che il presidente dell’Inail, che dal 12 maggio è Massimo De Felice, percepisce uno stipendio annuo solo di poco inferiore a 300.000 euro, mentre un giovane morto poco più che ventenne riceve in cambio della sua vita 1936,80 euro.
Che giustizia può mai esserci in Italia se la vita di un lavoratore vale così poco. Ma vale ancor meno se il lavoratore resta “solo” ferito o peggio, invalido. Inoltre, se il titolare dell’azienda decide di non collaborare e non fornisce i documenti all’Inail, l’onere della prova resta a carico del lavoratore dipendente, che non solo è ferito, infortunato appunto, ma anche sfortunato, perché deve anche scontrarsi col muro di gomma delle istituzioni pubbliche, in questo caso l’Inail, e l’inefficacia e, ancor più spesso, l’efficienza dei sindacati che nella maggior parte dei casi pigramente seguono i lunghissimi ricorsi.
Quello che accade alla fine è che il lavoratore ferito, resta allungo anche senza  alcuna fonte di reddito. Cioè, non solo ha subito un danno sul lavoro, ma viene anche vessato da parte dello Stato.
Ovviamente, poi c’è la parte relativa alle quote di risarcimento che l’Inail corrisponde e che corrispondono a poco più della metà dello stipendio netto in busta paga e che spesso viene corrisposto a piccole trance e in tempi biblici.
È chiaro ed evidente che l’Inail è un istituto che ha bisogno di essere riformato, ancor meglio cancellato. I lavoratori dovrebbero essere messi in condizione di scegliere essi stessi la polizza assicurativa contro gli infortuni che intendono sottoscrivere. Non ha alcun senso che esista ancora un mostro gigantesco che vive e si alimenta con il denaro dei contribuenti e dei lavoratori, senza che questi ricevano alcun beneficio.
Nel 2000 Marco Pannella e Emma Bonino avevano raccolto 16 milioni di firme per un referendum che tra l’altro prevedeva l’abolizione del monopolio dell’Inail e chiedeva ai cittadini se fossero favorevoli alla liberalizzazione delle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro.
La corte costituzionale però, non aveva interesse ad approvare il referendum che chiedeva la cancellazione dell’Inail e quindi decise per la sua non ammissibilità. Sarebbe ora che nel corso del processo di Spending review e di rivalutazione e e rivisitazione delle funzione di organi istituzionali, qualcuno si facesse carico di riproporre l’abolizione del monopolio Inail. Certo, questo aprirebbe la strada alle assicurazioni private che quando c’è da pagare sono sempre restie e spesso, ormai quasi come prassi, occorre aprire un contenzioso. Però, per quanto ciascuno di noi sia sfiduciato nei confronti delle assicurazioni, siamo certi che nessun istituto assicurativo privato, si sognerebbe di risarcire i familiari di un giovane morto sul lavoro, con una somma che di per sé non è sufficiente neppure ad acquistare una lapide nel cimitero.
Tanto tempo fa qualcuno ritenne che la vita di Gesù Cristo valesse 30 denari; dopo duemila anni, con gli indici di rivalutazione, per la vita di un lavoratore, lo Stato è disposto a pagare 1.936 euro e 80 centesimi, neppure il costo della sua sepoltura.