giovedì 2 maggio 2013

Due papi in Vaticano, prima volta nella storia Ratzinger e Francesco nella Cappella del Monastero per un breve momento di preghiera


Due papi in Vaticano, prima volta nella storia

Ratzinger e Francesco nella Cappella del Monastero per un breve momento di preghiera


Ratzinger torna in Vaticano

E' stato Papa Francesco ad accogliere il pontefice emerito Benedetto XVI al suo ritorno da Castel Gandolfo in Vaticano, nella nuova residenza del monastero Mater Ecclesiae.
All'arrivo dinanzi al monastero Mater Ecclesiae, sua nuova residenza in vaticano, Benedetto XVI è stato accolto da papa Francesco, "che gli ha dato il benvenuto con grande e fraterna cordialità", fa sapere la sala stampa vaticana. Insieme si sono recati nella Cappella del Monastero "per un breve momento di preghiera".
Per la prima volta nella storia, da oggi ci saranno quindi due Papi all'interno delle Mura Leonine. La partenza di Ratzinger da Castel Gandolfo, dove il Papa emerito era volato sempre in elicottero la sera del 28 febbraio, ultimo giorno del suo pontificato, avverra' intorno alle 16.30.
Il piccolo ex convento, che si sviluppa su quattro piani di cui uno interrato, in questi mesi ha subito lavori di ristrutturazione proprio in attesa di diventare la residenza del Papa emerito. E' dotato di ascensore, per cui l'86/enne Ratzinger, che abitera' al primo piano, potra' muoversi senza problemi. La struttura ha anche una camera per gli ospiti che sara' sempre a disposizione del fratello di Benedetto XVI, mons. Georg.
Il Papa emerito risiedera' al Mater Ecclesiae insieme a mons. Georg Gaenswein, suo ex segretario e ora prefetto della Casa Pontificia, e alle quattro ''memores domini'' che si occupano delle mansioni domestiche. Non vi alloggera' invece la segretaria Birgit Wansing. Il diacono fiammingo che nell'ultimo periodo era stato messo al fianco di Ratzinger a Castel Gandolfo per i molteplici impegni di Gaenswein in Vaticano, invece, termina il suo servizio con oggi. 

Italia, potenza scomoda: dovevamo morire, ecco come


Italia, potenza scomoda: dovevamo morire, ecco come


Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il Nino Galloniblog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. AndreottiEccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana Ciampiavrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.
Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di piùAgnellifacendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».
Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio dellafinanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca AndreattaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di Draghidollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblicoamericano».
Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.
Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Merkel e MontiGrecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.
Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questaEuropa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».
Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello Xi Jinping, nuovo leader cinesedella trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però, bisogna mandare casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma dellafinanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».

Cremaschi: si è arresa anche la Fiom, fine del sindacato?


Cremaschi: si è arresa anche la Fiom, fine del sindacato?


«Se in un contratto nazionale o aziendale si aumenta l’orario di lavoro, si abbassano le qualifiche, si toglie ai lavoratori il diritto ad ammalarsi, e se la maggioranza dei rappresentanti sindacali e dei lavoratori accetta, la minoranza non può più opporsi. Non può fare sciopero, non può andare in tribunale, non può neanche tutelare quei lavoratori che non ci stanno. Altrimenti è fuori». In puro “sindacalese” questo si chiama “esigibilità”: ed è esattamente la clausola-capestro che ora ha accettato anche la Cgil, con la sola opposizione della componente “Rete 28 aprile”, alla stipula del nuovo patto sulla rappresentanza. Risultato: insieme a Cisl e Uil, anche la Camusso firma con Confindustria. D’ora in avanti, lo stesso Landini può scordarsi una “resistenza” come quella ingaggiata a Pomigliano, quando la Fiom trascinò la Fiat di Marchionne in tribunale. Fine dell’ultimo brandello di radicalismo sindacale: per Giorgio Cremaschi, è una capitolazione storica. Addio sindacato.
«Ovunque ci sia una lotta o una ribellione vera allo sfruttamento – scrive Cremaschi sul sito di “Rete 28 aprile” – il sindacato dev’essere Maurizio Landinipreventivamente esigibile». Già oggi, invece, «le lotte sindacali più importanti e partecipate della Lombardia, Trenord e San Raffaele, vedono Cgil, Cisl Uil ostili ed estranee, come accade alla lotta dei lavoratori migranti della logistica e a tanti altri». Il problema degli accordi separati è superato, aggiunge l’ex leader della Fiom. «Tutti gli accordi sono preventivamente unitari perché non esiste più il diritto a non firmare ciò che non piace: si supera il problema del dissenso cancellando il diritto a dissentire, come la Fornero che ha superato la divisione tra chi è o non è tutelato dall’articolo 18, togliendo l’articolo 18 a tutti». Questo accordo, aggiunge Cremaschi, costituisce un esproprio di quella tanto auspicata legge sulla rappresentanza, che avrebbe dovuto finalmente garantire ai lavoratori il diritto alla democrazia sindacale, realizzando al contrario «una privatizzazione corporativa di questo loro diritto».
Del resto, questo è ciò che le “parti sociali” ricercano su un piano ben più ampio: i gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Confindustria hanno visto travolti dalle elezioni i rispettivi progetti politici. E le presidenziali, con la catastrofe del Pd, hanno scatenato l’angoscia tra i quadri della Cgil, i cui più anziani hanno già vissuto la crisi del Pci e la distruzione del Psi. I grandi sindacati confederali, accusa Cremaschi, escono da vent’anni di concertazione, di moderatismo rivendicativo, di istituzionalizzazione. «Tutta la struttura è stata selezionata da queste basi. Come si fa a cambiare? Così ci si aggrappa ad una Confindustria anch’essa colpita da crisi di rappresentanza ed efficacia. E si rilancia il patto corporativo tra i produttori, che oggi più che mai è prima di tutto una patto di sopravvivenza tra grandi burocrazie incrisi». E ora, Susanna Camussomentre tutti i riflettori sono concentrati sul “governissimo” di Napolitano, sindacati e Confindustria «stanno definendo il governissimo sindacale».
La Cgil, continua Cremaschi, aderisce al patto sulla rappresentanza con il concorso determinante di Maurizio Landini: senza il suo apporto, la segreteria di Susanna Camusso non avrebbe avuto oggi la forza politica di andare avanti. Perché? Si sprecano le analisi sui retroscena, mettendo in secondo piano il vero problema: Landini ha dato speranza e coraggio al mondo del lavoro, acquisendo fama e prestigio, con il “no” a Pomigliano, non firmando un accordo accettato dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori. «Ora quel “no” diventa un “sì”, attraverso l’accettazione della esigibilità». Landini, insiste Cremaschi, «ha il dovere di spiegare questo ribaltamento della sua posizione e di quella della Fiom, senza sotterfugi, senza inutili sprechi di retorica». In ogni caso, «contro questo accordo che normalizza e centralizza autoritariamente tutte le relazioni sindacali, bisognerà lottare: tutte le forze e le esperienze sindacali che non ci stanno – dice Cremaschi – debbono organizzare la disobbedienza, il contrasto, la crisidel patto corporativo sulla rappresentanza». Bisogna reagire subito, perché «un regime sindacale degli “esigibili”, quando su tutti pesano i danni e i ricatti della disoccupazione di massa, è un altro macigno che precipita sul mondo dellavoro».

La tela atlantica: Obama e Letta, governissimo di guerra


La tela atlantica: Obama e Letta, governissimo di guerra


L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra Usa e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero.
In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica Emma Bonino e Giorgio Napolitanoche necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti. Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio. Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel Pd funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce Occupy Wall Streetvede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia.
In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare. Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del “Movimento Cinque Stelle” guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co. Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato Beniamino Andreattamilioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”.
Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all’Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante. Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione.
In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in cui sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del Pd. Una generazione perduta. Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politicadi Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti. Sel si Amatoagiterà fuori dal Pd, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il Pd.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient’altro in grado di porsi all’altezza di quei network. I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna. Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la Dc – quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti – in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l’Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla. Basta scorrere l’elenco Obama e Napolitanodei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione.
Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio laguerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta. Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.