martedì 10 luglio 2012


Spagna, sempre più violente le proteste dei minatori / VIDEO



(Associated Press, 9 luglio 2012)10 luglio 2012
Mentre alcuni minatori continuano la ‘marcha negra’ verso Madrid, nelle province nord-occidentali delle Asturie e di Leon, altri minatori continuano a protestare contro i tagli del governo armati di razzi fatti in casa e fionde. Gli scontri con la polizia sono diventati sempre più frequenti negli ultimi giorni e ieri, in particolare, è stata una giornata molto pesante in entrambe le province.
Intanto, è previsto per domani l’arrivo a Madrid dei minatori partiti a piedi tre settimane fa dalle Asturie, da Leon e da Aragon. Una volta arrivate nella capitale spagnola, le due colonne di lavoratori si riuniranno nel centro della città.
Sono ben 160 le persone partite dalle Asturie e da Leon, mentre altre 40 sono partite da Aragona. Il motivo è sempre lo stesso: dire no ai tagli imposti dal governo.
Con i tagli del 63 per cento decisi da Rajoy, infatti, gli operai delle mine ritengono di non riuscire ad andare avanti. Con una riduzione di questa portata, dicono i sindacati, “per il settore minerario sarà molto più difficile continuare a concorre con il settore del gas e con quello delle energie rinnovabili nel mercato energetico”.

Ocse: livelli di disoccupazione record in Italia


Ocse: livelli di disoccupazione record in Italia

10 luglio 2012
Secondo l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), il tasso di disoccupazione a maggio 2012 è stato dell’11,1 per cento, il dato più elevato dall’inizio della crisi finanziaria iniziata alla fine del 2007. Il mese di maggio registra infatti nell’area dell’Ocse 300mila disoccupati in più rispetto al mese precedente, per un valore di 47,7 milioni in totale di persone rimaste senza lavoro. Quasi 15 milioni in più rispetto all’inizio della crisi economica.

Nel rapporto presentato oggi, 10 luglio, a Parigi, in merito al nostro Paese l’Ocse scrive: “L’Italia è stata colpita duramente dalla crisi ed è probabile che la disoccupazione continui ad aumentare”.
Un velo di ottimismo, però, traspare dalla valutazione della riforma del mercato del lavoro approvata lo scorso giugno dal Parlamento.
A questo proposito l’Ocse invita il nostro Paese ad attuarla in tempi rapidi. “È un passo importante. Se sarà immediatamente e completamente applicata, le misure contenute nella riforma possono ridurre significativamente la segmentazione del mercato del lavoro”.

Scrive, inoltre l’organizzazione internazionale con sede a Parigi: “La recente recessione ha colpito duramente l’economia italiana, il cui prodotto interno lordo è diminuito fortemente all’apice della crisi nel 2009. Dopo un temporaneo miglioramento all’inizio del 2011, il tasso di disoccupazione ha ripreso a crescere negli ultimi tre trimestri fino a superare il 10 per cento a maggio e si prevede che continuerà ad aumentare nel 2013″.
Più specificamente, l’Ocse si sofferma sulla disoccupazione giovanile (giovani tra i 15 e i 24 anni). “Il tasso di disoccupazione giovanile è sceso leggermente a maggio di 0,1 punti percentuali al 16,1 per cento”. Per quanto riguarda gli adulti (ovvero le persone che hanno più di 25 anni), invece, il tasso è leggermente aumentato (+ 0,1 per cento), al 6,8 per cento.
Poco ottimistiche anche le previsioni che riguardano la creazione di nuovi posti di lavoro, che “continuerà a restare debole in molti paesi dell’Ocse”. Allo stesso modo, il tasso di disoccupazione che si registrerà il prossimo anno non si dovrebbe discostare di molto da quello attuale, mantenendosi dunque “intorno all’8 per cento”.
Ma ciò che resta più “preoccupante” è la situazione occupazionale dei giovani e delle persone scarsamente qualificate. Dall’inizio della crisi finanziaria l’occupazione giovanile ha registrato una flessione di quasi 7 punti percentuali, mentre quella delle persone scarsamente qualificate è diminuita di almeno 5 punti.
Poco incoraggiante è anche il dato che riguarda la disoccupazione di lungo termine. Nell’ultimo trimestre del 2011, infatti, rileva l’organizzazione internazionale, “oltre il 35 per cento di tutte le persone disoccupate nell’area Ocse hanno trascorso un anno o più senza lavoro e in cerca di un lavoro. È cresciuto anche il numero delle persone disoccupate da almeno due anni: è passato dallo 0,9 per cento dell’inizio della crisi al 1,5 per cento nel quarto trimestre del 2011″.
Una condizione che, secondo l’Ocse, nel breve termine potrà migliorare solo se ci sarà “una ripresa economica più ampia”.

La lezione di Squinzi al Prof? Monti La finanza non basta...


La lezione di Squinzi al Prof? Monti La finanza non basta...

martedì 10 luglio 2012
SCENARIO/ Sardo (Unità): la lezione di Squinzi al Prof? La finanza non basta...
Di questi tempi lo spread ha ripreso a viaggiare alle stesse altitudini dell’ultima fase berlusconiana. Che, per inciso, fu l’ultima proprio perché, soprattutto a causa dell’ampiezza dei differenziali tra i nostri Btp decennali e gli omologhi tedeschi, le pressioni divennero tali da obbligare il precedente governo a dimettersi. Sta di fatto che sotto questo profilo non è cambiato nulla. Sarà questo il motivo dell’irritazione di Mario Monti. Il premier, replicando al presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che aveva paventato il rischio di macelleria sociale per i tagli contenuti nella spending review, ha affermato: «dichiarazioni di questo tipo, come è avvenuto nei mesi scorsi, fanno aumentare lo spread e i tassi a carico non solo del debito ma anche delle imprese, e quindi invito a non fare danno alle imprese». Abbiamo chiesto a Claudio Sardo, direttore dell’Unità, di commentare la vicenda.  
Se lo spread viaggi sopra i 450 punti base, è colpa di Squinzi?
Ovviamente no. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in una lunga intervista al Corriere della Sera, ha fornito una spiegazione più ragionevole, addebitando alle ragioni interne non più dei due quinti delle colpe mentre i rimanenti tre quinti dipendono dall’incapacità dell’Europa di dare una risposta alla crisi in termini politici.
Non crede che buona quota delle colpe spettino agli attori dei mercati finanziari che stanno sfruttando a proprio vantaggio la situazione per speculare sulla crisi?
Che la finanza abbia acquisito una predominanza sulla istituzioni democratiche è un dato di fatto. Ma a fronte di un tale scenario, la politica non è stata e non è in grado di ribaltare la situazione.
In ogni caso, perché Monti si è stizzito in quella maniera?
Il premier è tanto cortese quanto permaloso; e non sopporta, in particolare, le critiche provenienti dalla classe dirigente del Paese. Tanto più che Squinzi, finora, sta mostrando una certa indipendenza di pensiero. In pochi hanno notato come il primo rapporto del Centro Studi di Confindustria pubblicato sotto la sua presidenza si sia rivelato privo delle tipiche edulcorazioni, modifiche e correzioni dei rapporti precedenti. Questo, non era mai accaduto. Sarebbe interessante, quindi, se si ponesse l’accento su come quei dati, in passato, fossero stati passati al setaccio onde evitare particolari dispiaceri al governo. Per carità: non mi illudo che il nuovo capo degli industriali prenda le difese del lavoro dipendente. Ma bisogna riconoscere che, inoltre, ha una certa concezione delle autonomie sociali.
Cosa intende?
Riconosce che la società è composta da una serie di corpi intermedi quali i partiti, i sindacati, le associazioni, i movimenti, le imprese non-profit e la famiglia. Tutto ciò che l’ideologia mercatista e liberista dominante intende distruggere in funzione di uno schema ove sussistano unicamente i singoli individui e le oligarchie.
A Monti ha fatto eco Montezemolo che ha affermato: “Dichiarazioni come quelle di Squinzi, sia nel merito che nel linguaggio, non si addicono a un presidente di Confindustria, fanno male e sono certo che non esprimano la linea di una Confindustria civile e responsabile”. Cosa ne pensa?
Credo che Montezemolo rappresenti l’emblema del totale asservimento all’ideologia dominante, nonché il basso livello di responsabilità di questa classe dirigente composta da personaggi che, per anni, hanno sostenuto Berlusconi (e oggi, sostengono Monti) senza aver mai avuto il coraggio di dirgli apertamente ciò che pensavano. Per intenderci, tutti sapevano, specialmente negli ultimi tempi, che a livello internazionale era ormai privo di prestigio. Ma nessuno glielo ha mai detto. Ecco, Montezemolo si è indignato semplicemente perché Squinzi ha detto la verità.  
Secondo lei, quindi, l’ipotesi della macelleria sociale è concreta?
Sul fronte della sanità e degli enti locali, non lo escludo. Oltretutto, la spending review può definirsi tale esclusivamente rispetto a pochi punti. Per il resto, si tratta dei famigerati tagli lineari. Insomma, se, effettivamente, vogliamo scongiurare il rischio di macelleria sociale, andrà corretta.
Condivide, invece, il giudizio di Squinzi sulla riforma del lavoro?
Al di là dell’espressione colorita, direi che è condivisibile quanto da lui espresso, con parole più forbite, in una relazione ufficiale. Aveva sostenuto, infatti, che fossero state spese risorse ed energie per mese per ottenere risultati minimi, per l’impresa e per i lavoratori. Tra l’altro, fu tra i primi a denunciare l’assoluta inutilità dell’abolizione dell’articolo 18 prevista in prima battuta dalla Fornero.
Lei, nel suo editoriale di ieri, ha parlato della divisione tra finanza e lavoro: crede che Monti stia alimentando la distanza?
Vede, il governo nasce sul presupposto dell’esistenza di una signoria delle finanza su tutto il resto, oltre che su condizioni esterne estremamente vincolanti. In questa situazione, penso che il governo abbia oggettive difficoltà di azione. E che stia privilegiando operazioni tese e scongiurare il crollo del sistema bancario. Mi auguro, quindi, che entro il 2013 l’emergenza sia conclusa, che venga completamene ripristinata la democrazia e che nessuno si inventi che essa rappresenta un costo che non possiamo permetterci.
Come si sana la divisione di cui ha fatto cenno?
Attraverso una nuova alleanza tra economia reale, lavoro e finanza. A condizione che l’impresa sia più attenta all’economia reale. Da questo punto di vita, credo il governo dovrebbe spronare gli imprenditori ad arricchire le proprie aziende. A reinvestire gli utili invece che staccare dividendi agli azionisti. Ma, prima ancora, lo Stato e le pubbliche amministrazioni, dovranno sanare i propri debiti con le imprese e si dovrà consentire ai Comuni e agli enti locali di investire le proprie risorse per favorire il lavoro e lo sviluppo, attraverso una modifica al patto di stabilità.

SPENDING REVIEW ecco gli errori che porteranno l’Italia a un altro ’29


SPENDING REVIEW   ecco gli errori che porteranno l’Italia a un altro ’29

lunedì 9 luglio 2012
SPENDING REVIEW/ Sapelli: ecco gli errori che porteranno l’Italia a un altro ’29
Chi vorrà credere agli alleati? Gli aiuti che ci hanno promessi, come nelle condotte l’acqua, mancano. E poi nei vasti tuoi stati, Signore, a chi è passata la proprietà? Dove vai, un nuovo ricco tiene casa: lui vuole vivere indipendente e ci tocca vedere come giostra. Tanti diritti s’è dovuto cedere che non ci resta un diritto su niente. Anche ai partiti, come che si chiamino, non si può più dare fiducia, al giorno d’oggi: che protestino o che lodino, diventano, amore e odio, indifferenti. I Ghibellini come i Guelfi stanno nascosti a riposare. Ma chi darebbe un aiuto al vicino? Ha da pensare ciascuno per sé. Sono sbarrate le porte dell’oro; gettano tutti, raspano, ammassano. E vuote restano le nostre casse” (J.W. Goethe, Faust, introduzione e traduzione di Franco Fortini, Milano, Mondadori, 2009, pp. 445-447, versi 4831-4851).
L’ora della verità è giunta. Il nodo gordiano è stato tagliato dalla spada dei tecnici dei tecnici, ossia da dei personaggi in cerca d’autore. Come definire altrimenti Bondi, Giavazzi e Amato, chiamati da un governo di tecnici per svolgere un compito tecnico? Lasciamo perdere Amato, la cui configurazione idealtipica avrebbe affascinato i darwinisti (politico? Tecnico? Centauro? Camaleonte? Pontiere? Acquisitivo? Distributivo? Annichilente? Intelligente!). E veniamo a Giavazzi (semplicemente scomparso) e a Bondi, salvatore di imprese che non esistono più o che sono state divorate o che sono state devitalizzate, prodotto di Mediobanca che per decenni ha socializzato perdite e privatizzato profitti, e portato alla rovina oligopolistica l’Italia.
Questi metatecnici, figure alla Greimas e alla Barthes, hanno compiuto la solita marcetta trionfale che segna il mood mondiale del fare ciò di cui non c’è bisogno quando c’è la recessione: tagliare l’occupazione, diminuire i consumi, scoraggiare gli investimenti, far piombare l’umanità nella disperazione e nell’anomia. Il tutto infilato nel forno da carnefice dell’aumento delle tasse, affinché la pozione avvelenata venga cotta a puntino.
Tecnici e supertecnici tutti subalterni al mainstream accademico, a riprova che solo le idee cattive vincono nel mondo alla breve (ché nel lungo vincono quelle della santità e del lavoro). Eccoci allora alla spending review che alla breve farà sprofondare l’Italia dalla recessione alla depressione più profonda dopo il 1929. Certo, c’è anche qualcosa di buono. Anche il Maligno è sempre accompagnato dall’Angelo Salvatore. Ma si tratta di ben poco. Vediamolo: per le imprese l’aumento dell’aliquota Iva è rimandato al 1° luglio 2013, limitando il calo degli affari per l’aumento delle imposte; e poi il regime fiscale di favore per le società quotate di investimento immobiliare pare sarà adottato anche per quelle di cessione e di valorizzazione degli immobili pubblici, forse consentendo di meglio venderli (ammesso che si vorrà fare un giorno o l’altro il famoso fondo per cercare in questo modo - un modo che non ottunde la crescita - di diminuire il debito pubblico); e infine le imprese potranno recuperare l’importo dei crediti verso la Pubblica amministrazione attraverso un meccanismo di compensazione agevolante l’impresa.
Se guardiamo poi a ciò che interessa le famiglie e i cittadini si dice che le misure previste per la Pubblica amministrazione ne aumenteranno l’efficacia e l’efficienza. Spero che non sia una nuova riforma Bassanini. In questa luce l’unica misura veramente ottima risulta quella di estendere l’intervento della Consip che, come dimostra la sua storia recente, può diminuire le spese improduttive dei Ministeri e aumentarne preclaramente la trasparenza. E poi lo stato stanzia 90 milioni per il diritto allo studio e 130 milioni per i libri scolastici gratuiti. Meglio di nulla. Infine, migliaia di famiglie sperano che con i risparmi della spending review sia possibile estendere a 55.000 esodati la clausola di salvaguardia delle nuove pensioni.
A fronte di queste briciole sta l’immensa mole dei provvedimenti depressivi che sono veramente di una tale ignoranza, di una tale sprovvedutezza, e di una tale subalternità alla leggenda della morte di Keynes (mentre mai come oggi il dandy di Bloomsbury è quanto mai vivo e attuale) da rimanere spaventati e attoniti. Ma non ci si rende conto che lo sconto sui farmaci e la stretta sui beni e servizi sanitari ricadrà sulle imprese del settore come un boomerang e ne sconvolgerà i bilanci e forse ne decreterà la fine? Si pensi che si potranno chiedere i diritti di recesso ai contratti se le spese previste saranno sotto la linea di riferimento. Si pensi a che regressioni siamo giunti. Come ha ricordato Maurizio Sacconi su Il Sole 24 Ore del 7 luglio 2012, quello che si applicherà è tutto il contrario dei costi standard e quindi dei tagli non lineari, ma federalistici e selettivi che invece prima dell’arrivo degli unni tecnici si era prospettato di fare.
Per quanto riguarda poi i dipendenti pubblici, la riduzione delle piante organiche vorrà dire meno stipendi, meno consumi, mentre non si fa nulla contro le pensioni d’oro e gli sprechi agli alti livelli dirigenziali. Il tutto condito con sottili crudeltà che spingono a ridurre i consumi e in regime di ristrettezza finanziaria sprofondare nell’inerzia casalinga e nella disperazione quotidiana grazie all’obbligatorietà delle ferie. Altra crudeltà degna di una pièce di Jonesco è l’idea di ridurre delle spese nella Pa riducendo lo spazio di vita d’ufficio di ogni dipendente diminuendo i parametri di riferimento per metro quadro. Si vede che si pensa che stare allo stretto incentiva il risparmio…
Infine, l’ultima crudeltà che danneggia enormemente anche le imprese è la riduzione dei buoni pasto che non potranno superare il valore di 7 euro. Già molti dipendenti pubblici e privati risparmiavano sul costo del lunch per fare la spesa per la casa. Ora dovranno digiunare, con conseguente dimagrimento e conseguente omologazione fisica ai ridotti spazi di lavoro. Ribadisco inoltre ciò che ho già detto altre volte: che se si pensa di ridurre la spesa attraverso l’accorpamento o l’eliminazione delle province si sbaglia obiettivo di grosso, perché la gran parte dell’inefficienza è sita nelle Regioni, nuovi e spaventosi enti centralistici e neostatalistici. Com’è noto fa eccezione per virtuosità, efficacia ed efficienza, la Regione Lombardia, che potrebbe essere presa a esempio sia per i costi standard, sia per la trasparenza. Ma questa non è l’opinione di ciò che rimane dell’establishment italiano come mostrano i suoi giornali quotidiani e di parte della magistratura.
In definitiva la spending review non solo è pura crudeltà sociale, ma è anche inefficiente e soprattutto stupidamente depressiva. Gli unici recuperi di efficienza attraverso tagli della spesa necessari sono quelli diretti ad aumentare la total factory productivity, ossia la produttività generale del sistema Paese, così alimentando la crescita. Ma questo significa, miei cari tecnici e metatecnici, non solo tagliare ma anche investire: infrastrutture. Tagli selettivi e non lineari. Riduzione delle tasse e non loro aumento. Incentivi agli investimenti privati e pubblici.
Ma far questo vuol dire non credere più nella favola bella degli economisti che sbagliano, e che racconta che la crescita viene dall’austerità. È invece tutto il contrario. Ma anche in questo caso bisognerebbe unire fede e ragione, ossia amare il prossimo e leggere i libri giusti, anziché quelli troppo zeppi di formule matematiche, e scritti solo in inglese.

Argentina, così la falsa libertà minaccia uomo e donna


 Argentina, così la falsa libertà minaccia uomo e donna

lunedì 9 luglio 2012
IL CASO/ Argentina, così la falsa libertà minaccia uomo e donnaIl presidente argentino Cristina Kirchner (InfoPhoto)
Il presidente dell’Argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, martedì 3 luglio ha consegnato i primi  documenti di riconoscimento emessi in seguito alla nuova legge sulla identità di genere, approvata lo scorso maggio (55 voti a favore, un astenuto e nessun contrario). 
La novità legislativa, vera avanguardia internazionale, riconosce a tutti i cittadini della Naciòn Argentina il diritto a mutare il sesso con cui si è stati registrati alla nascita, senza alcuna previa autorizzazione medica o giudiziale; inoltre, tutti gli operatori del sistema sanitario pubblico, sia statali che privati, dovranno garantire su base continuativa tutti i diritti che la legge riconosce. L’articolo 1 della legge, consacrando definitivamente l’esistenza del diritto all’identità di genere, afferma infatti che: “ognuno ha diritto ad essere trattato in conformità con la propria identità di genere, e in particolare, ad essere identificato in questo modo attraverso gli strumenti che dimostrano la propria identità rispetto al nome usato, immagine e sesso con cui si è registrato”. 
È sempre la stessa legge a dare una vera e propria definizione dell’identità di genere come “l’esperienza interiore ed individuale di genere così come ogni persona la sente, che potrebbe non corrispondere con il sesso assegnato alla nascita, compreso il senso personale del corpo”. La Premier sudamericana (che ha già legalizzato il matrimonio gay nel 2010), durante la cerimonia di consegna dei nuovi documenti ad un gruppo di militanti transessuali presso la Casa de Gobierno di Buenos Aires, afferma: “Oggi è un giorno di grande riparazione. Avrete gli stessi diritti che hanno milioni di argentini al momento della nascita!”.
Ricapitolando: 1) L’unico requisito per cambiare il sesso è il sentimento interiore; 2) la modalità per effettuare il cambio è quella della richiesta amministrativa; 3) le spese per la rettificazione genitale sono a carico del servizio sanitario nazionale.
Il quadro si completa se aggiungiamo che la novità legislativa permette anche al soggetto minorenne accompagnato dall’avvocato di fare richiesta di cambiamento del sesso in conformità al suo sentire; in mancanza di un rappresentante, si potrà chiedere un giudizio abbreviato al Tribunale dei minori che deciderà in base alla sua capacità progressiva ed in conformità al principio del superiore interesse del minore.
La questione argentina è, quindi, molto seria e soprattutto non si pone come un caso sporadico e isolato: sempre maggiori, infatti, sono le pressioni che gli organismi internazionali a tutela dei diritti umani ricevono da potenti lobby affinché l’identità di genere venga inserita nel novero dei diritti umani universalmente riconosciuti.
Il passaggio della parola sesso (sex) in genere (gender), infatti, non si inserisce, come molti vorrebbero far credere, in un naturale processo di evoluzione terminologica ma è piuttosto l’approdo finale di una silenziosa quanto potente operazione ideologica. Il dato di natura, incontestabile per la sua oggettività, è avvertito come uno dei principali nemici della libertà umana: per l’uomo, fabbro del proprio destino, un vincolo esterno alla sua volontà è inconcepibile. 
E allora, lì dove c’è un chiaro limite naturale, prende piede l’operazione culturale: se il valore da perseguire è l’uguaglianza, intesa come omogeneità acritica, allora tutte le differenze sono guardate con sospetto e tacciate di discriminazione. Ma siamo sicuri che porre delle differenze significhi emarginare qualcuno? Siamo proprio certi che l’operazione della distinzione, primaria operazione dell’essere umano in quanto tale, comporti a prescindere una discriminazione? A ben vedere, appare vero l’esatto contrario: è proprio non facendo distinzioni che si generano le più grandi discriminazioni. Ci viene in soccorso l’art. 3 co. 2 della nostra Costituzione (ma il principio è presente nella quasi totalità delle Costituzioni contemporanee), che parlando dell’uguaglianza sostanziale mostra come questa implichi il fatto che situazioni uguali vengano trattate nel medesimo modo ma anche che situazioni diverse vengano trattate in modo differente.
Il problema inerente ai disturbi di identità è questione, per questo, assai delicata e da trattare con assoluto riguardo: è questo un campo in cui, sempre più, le scienze mediche, sociali e giuridiche sono chiamate a cooperare formando una virtuosa sinergia capace di accompagnare coloro che ne fanno richiesta in un non semplice percorso umano ed esistenziale.
Evitare l’assunzione di responsabilità personale e comunitaria di una simile e complessa situazione umana sostituendola con la sterile compilazione di una richiesta amministrativa andrebbe a generare inevitabilmente e drammaticamente un ulteriore isolamento e una reale discriminazione. Il dire “oggi mi sento donna e chiedo la rettifica del sesso” e cosa ben diversa da una dolorosa esperienza di non riconoscimento personale nella ricerca del significato di sé che, lungi dall’essere un sentimento intimistico ed individuale, necessita il più possibile di condivisione ed accompagnamento. 
Per questo la “conquista” argentina non è una tappa di civiltà: la creazione del nuovo diritto all’identità di genere è in realtà la vittoria della pretesa dell’individuo singolo o del gruppo particolare sulle esigenze dell’uomo e della comunità. I diritti, infatti, non sono creati, ma riconosciuti dall’ordinamento e si pongono come tentativi di rispondere a quell’esigenza di giustizia che ogni uomo costitutivamente porta con sé: proprio per questo necessitano inevitabilmente di rapporti e non di slogan elettorali.
L’apparente vittoria della libertà di espressione rischia, così, di creare sempre maggiori e diffuse situazioni di solitudine: è questo lo scenario che accomuna gran parte dei tanto conclamati nuovi diritti, i quali si configurano come pretese di alcuni, legittime o meno, che non trovano fondamento nel diritto e che troppo spesso, sotto le mentite spoglie di garanti degli interessi comuni, finiscono per realizzare solamente altri discutibili “superiori” interessi.

Italia, ecco come vincere la guerra dei mercati


Italia, ecco come vincere la guerra dei mercati
martedì 10 luglio 201
FINANZA/ Italia, ecco come vincere la guerra dei mercati
Molti lettori scrivono che a loro sembra stia cadendo il cielo addosso. In realtà, non c’è una catastrofe, ma è in atto un riaggiustamento globale che in effetti costringe le nazioni a un cambiamento discontinuo. Che va capito. Solo il mercato statunitense cresce grazie ai consumi interni, mentre tutti gli altri più importanti - Cina, Giappone, Germania, ecc. - fanno crescita solo grazie all’export. In sintesi, l’economia non è veramente globale, ma dipende dalla crescita americana.
Tale configurazione del mercato ha un motivo storico: nei decenni passati l’America assorbiva tante importazioni da indurre tutte le altre nazioni a darsi modelli economici più basati sull’export che sulla crescita interna. Anche perché tale scelta permetteva di mantenere un forte protezionismo sociale all’interno, cioè il consenso basato sull’assistenzialismo, perché la sua inefficienza era bilanciata dai profitti via esportazione.
Ciò ha reso possibile creare e sostenere nelle nazioni esportatrici dei modelli inefficienti: il welfare assistenziale in Europa, il sistema consociativo in Asia, per esempio Giappone e Corea del Sud, e l’organizzazione disordinata e sbilanciata del mercato interno cinese. Ora la locomotiva americana è diventata troppo piccola per trainare tutto il pianeta. In più le si è bucata la caldaia nella crisi finanziaria del 2008. Per questo la sua crescita è insufficiente per reggere la domanda globale. E ciò costringe tutte le nazioni a fare più crescita interna e meno via export.
Ma è difficilissimo cambiare modello interno in poco tempo. Infatti, per prendere tempo senza cambiare e continuare il modello trainato dall’export le nazioni tendono prima a svalutare la moneta: la Cina endemicamente, l’America stessa, ecc. L’euro è rimasto alto perché per la Germania, in realtà, il suo valore di cambio, comparato al marco teorico, era competitivo. Ma tale valore ha ridotto la competitività del resto dell’Eurozona. Ora l’euro sarà abbassato, ma ciò non risolverà il problema. Le euronazioni dovranno per forza ridurre di almeno un terzo spesa pubblica e tasse per lasciare più capitale nel mercato interno e permettergli di crescere via consumi ed investimenti.
Il punto: il mercato finanziario teme che nazioni come l’Italia non riusciranno a ripagare il debito perché non sapranno cambiare il modello per fare più crescita interna nel nuovo mondo non più trainato dall’America. La salvezza della nazione si baserà su un cambiamento totale, e non certo su uno limitato, del modello economico.
Cosa vuol dire, in dettaglio, per l’Italia? A occhio significa: (a) tagliare di almeno 150 miliardi la spesa pubblica e le tasse in un periodo di 5 anni; (b) ridurre con operazioni di finanziarizzazione e dismissione del patrimonio di almeno 400 miliardi il debito (ora attorno ai 2 trilioni di euro) nell’arco di tre anni per dare un impulso alla ristabilizzazione finanziaria della nazione e del suo sistema bancario depresso anche dal rischio sovrano (i rating) troppo elevato; (c) togliere tutti i vincoli burocratici che deprimono e caricano di costi eccessivi le dinamiche di libero mercato; (d) mantenere il pareggio di bilancio per comunicare al mercato che il debito, prima di essere tagliato, comunque non aumenterà e quindi sarà affidabile già per questo motivo.
Poi altri cambiamenti saranno necessari a livello di Eurozona, il più importante la trasformazione della Bce in una vera Banca centrale, con poteri di vigilanza sovranazionali e capacità di prestatore di ultima istanza anche nei confronti delle nazioni e dei loro debiti. Ma affinché ciò avvenga sarà prima necessario un totale cambiamento del modello nazionale. Preparatevi: il cielo cadrà addosso solo a chi non sa cambiare.

Tolosa, rabbia dopo che TF1 diffonde le ultime parole del killer


Tolosa, rabbia dopo che TF1 diffonde le ultime parole del killer

9 luglio 2012
Il canale televisivo francese TF1 ha diffuso ieri, 8 luglio, il clip audio contenente l’ultimo dialogo tra la polizia e il killer di Tolosa, ucciso nel suo appartamento durante un raid del 21 marzo scorso. Dura la reazione della polizia, ma anche quella degli avvocati dei familiari delle persone uccise dal killer, che definiscono la diffusione di quel dialogo come un “oltraggio” alle vittime.

Getty Images/Stringer
L’audio in questione contiene le ultime parole di Mohamed Merah, il jihadista franco-algerino che ha assassinato sette persone, tra cui tre minorenni in una scuola ebraica a Tolosa, prima di essere ucciso dalle teste di cuoio francesi. Prima dell’uccisione la polizia francese aveva tentato più volte di negoziare con il killer che si trovava all’interno di un’abitazione nel nord di Tolosa. Proprio a uno degli ultimi tentativi di negoziato risale l’audio contenente uno scambio tra Merah e gli agenti. Uno scambio che sembra essere durato diverse ore.
Gli interlocutori del giovane killer sono un negoziatore della polizia e un uomo dell’intelligence che lui stesso aveva già conosciuto qualche mese prima. Le sue parole sono da prendere con cautela, ma sono, secondo Le Monde, molto importanti per cercare di capire da dove proviene la follia omicida di Merah.
Il giovane racconta di essere appena riuscito a schivare un raid della polizia francese che sperava di sorprenderlo nel sonno. Poi parla della sua missione. Per mesi ha cercato dei “fratelli” che lo aiutassero a realizzare il suo progetto jihadista. Ha viaggiato in Iraq, Siria, Algeria, Turchia. Visite turistiche, diceva alla sua famiglia. La svolta, però era arrivata nel suo ultimo viaggio in Pakistan, nell’ottobre 2011, quando finalmente “ha trovato i suoi superiori”, dei responsabili di al-Qaeda che l’avrebbero iniziato al combattimento. “Quando sono arrivato, non mi è stato permesso di uscire, dovevo aspettare in una camera. Io ho aspettato. (…) Ho ottenuto la loro fiducia”.
Merah descrive poi le aree tribali del Waziristan situate al confine con l’Afghanistan come un grande campo estivo per apprendisti jihadisti: “Ci sono francesi, cinesi, tagiki, afgani, pakistani, americani, tedeschi, spagnoli… Mi hanno proposto di condurre attacchi in America, nel Canada, (…) di fabbricare bombe. Io non ho accettato. (…) I prodotti che servono per fare quelle bombe sono sotto stretto controllo in Francia. (…) Avrebbero potuto arrestarmi prima ancora che io facessi qualcosa”.
Parlando del suo progetto jihadista, quindi, Merah ammette di aver cercato l’appoggio di una organizzazione più complessa, come quella di al-Qaeda. Ma nel caso di Tolosa, il giovane musulmano giura di aver agito da solo. Nemmeno il suo fratello maggiore, Kader, i cui legami con il movimento radicale islamico erano noti, sembra averlo aiutato: Mohamed voleva essere “completamente autonomo”.
Verso la fine della conversazione, risuonano queste parole: “Io amo la morte come voi amate la vita”. Sono parole che sembrano un rimando ad una storica frase di Bin Laden: “amate la morte nel nome di Dio almeno quanto amate la vita”. Nonostante questo, però, per Dominique Thomas, il giovane non apparteneva all’organizzazione di al-Qaeda. Al contrario, secondo lo specialista della cultura islamica, “Merah aveva una cultura molto basilare dell’Islam”.
Per Thomas, dunque, la follia omicida del giovane Merah era qualcosa di indipendente da al-Qaeda. “Il termine al-Qaeda in Occidente è diventatato sinonimo di violenza o di terrorismo. È completamente distorto dal suo significato originario. Anche il fanatico di Tolosa che lo scorso giugno ha sequestrato quattro dipendenti di una banca ha detto di aver agito nel nome di al-Qaeda”.
Resta, intanto, a Tolosa la rabbia dei parenti delle vittime e le critiche del ministro dell’Interno francese Manuel Valls, secondo il quale diffondere un audio del genere è forte sintomo di “mancanza di rispetto” nei confronti di chi ha perso dei famigliari a causa della follia di Merah.