martedì 23 giugno 2015

Acqua, rifiuti, energia: piglia tutto la lobby delle multiutility

Acqua, rifiuti, energia: piglia tutto la lobby delle multiutility


«Siamo l’ultimo paese sovietico d’Europa»; con queste parole Erasmo D’Angelis, capo dell’unità di missione Italiasicura e rappresentante del governo Renzi, ha salutato il battesimo di Utilitalia, la nuova associazione dei gestori di servizi pubblici locali, nata dalla fusione di Federambiente e di Federutility. «Dobbiamo passare da circa 1.500 società partecipate a 20 società regionali per la gestione dei rifiuti, 5 grandi player per il servizio idrico integrato, 3 per la distribuzione del gas e 4 per il trasporto pubblico locale. Settore quest’ultimo che va inserito subito in Utilitalia, perché sarà il primo a bandire le gare per affidare la gestione dei servizi». Ecco scodellato in tre righe il programma del governo, naturalmente non discusso in nessuna sede con i cittadini, gli enti locali e le comunità territoriali, bensì annunciato di fronte alla nuova holding dei gestori.
Anche perché, ai cittadini, D’Angelis e Renzi dovrebbero spiegare che ne è della vittoria referendaria del giugno 2011, con la quale 27 milioni di italiani avevano sancito la gestione pubblica, partecipativa e senza profitti dell’acqua e dei beni comuni. Un Renzi con Marianna Madiaprogramma di governo portato avanti a colpi di normative (SbloccaItalia, Legge di stabilità, disegno di legge Madia) e con l’utilizzo del patto di stabilità interno come arma contro i cittadini, consentendo ai sindaci di poter utilizzare e spendere le somme ricavate dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali. «L’obiettivo di queste fusioni e incorporazioni sarà l’innalzamento dello standard di qualità dei servizi e la riduzione dei costi per icittadini», ha chiosato il presidente di Utilitalia Giovanni Valotti, trovando l’immediato consenso del presidente dell’Autorità per l’energia Guido Bortoni – il cui stipendio, giova ricordare, è pagato dalle medesime società di servizi – e del ministro per la pubblica amministrazione Marianna Madia.
Occorre forse qui ripetere un semplice ragionamento, che si pensava, dopo un referendum, di non dover più riprendere. Dentro quest’idea di privatizzazione e di finanziarizzazione dei servizi pubblici locali, vogliono lor signori dirci una volta per tutte da dove proverranno i profitti per le grandi multiutility che tutto gestiranno? Perché a noi risulta che nel caso della gestione dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, ovvero di tutti i beni comuni, il profitto sia concretamente ottenibile solo ed esclusivamente da cinque possibili fattori: a) la riduzione del costo del lavoro, attraverso la diminuzione dell’occupazione e la precarizzazione dei contratti; b) la riduzione degli investimenti, come già sperimentato nell’ultimo decennio di gestioni attraverso SpA; c) la Giovanni Valotti, di Utilitaliariduzione della qualità del servizio, con meno manutenzioni, controlli etc.; d) l’aumento delle tariffe, che infatti salgono esponenzialmente; e) l’aumento dei consumi della risorsa.
Tutti fattori in diretto contrasto con l’interesse generale e che si realizzano puntualmente in ogni processo di privatizzazione. Quanto al mantra dell’economia di scala, anche i sassi ormai sanno che, oltre una certa soglia (300.000 abitanti, salvo realtà urbane metropolitane), la scala più ampia produce esattamente disservizi e diseconomie. Territorio per territorio, comunità locale per comunità locale, occorre opporsi a questo disegno, rivendicando la riappropriazione sociale dei beni comuni, della ricchezza collettiva e della democrazia dal basso come condizioni per un altro modello sociale. Bisogna riprendersi il comune per riprendersi i Comuni.

Foa: ha ragione Putin, sono gli Usa a minacciare la Russia

Foa: ha ragione Putin, sono gli Usa a minacciare la Russia


Nelle relazioni internazionali bisogna saper cogliere innanzitutto il quadro generale; solo avendo ben presente la visione strategica dei paesi coinvolti è possibile analizzare il dettaglio ovvero i singoli episodi. Riguardo alla Russia le mie idee sono da tempo piuttosto chiare. Premessa: mi sono recato a Mosca regolarmente per 18 anni, dal 1990 al 2008, in qualità di inviato speciale. Ho seguito in prima persona le fasi cruciali di questo paese, dal crollo dell’Unione sovietica allacrisi finanziaria della fine degli anni Novanta, dall’ascesa di Putin al periodo di Medvedev, inclusi i drammi di Beslan e del teatro Dubrovka. In questi 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. In questi 18 anni ho assistito al progressivo, sovente passivo ridimensionamento di Mosca nello scenario geostrategico a cui è corrisposto, a partire dal Duemila, lo sviluppo di una nuova Russia che, sfruttando il boom dei prezzi petroliferi e delle materie prime, desiderava solo una cosa: continuare ad arricchirsi.
Era una Russia che, in politica estera, chiedeva agli americani solo di essere rispettata nel cortile ci casa ovvero in quel che restava delle proprie zone di influenza, come l’Ucraina e alcune Repubbliche asiatiche. Mai imperiale, mai militaresca. Non Vladimir Putincercava guai e continuo a pensarlo oggi. Della bella intervista rilasciata al neodirettore del “Corriere della Sera” Luciano Fontana e a Paolo Valentino, vale la pena di rileggere soprattutto due passaggi. Domanda del “Corriere”: «Parlando di pace, signor presidente, i paesi dell’ex Patto di Varsavia che oggi sono membri della Nato, come i baltici e la Polonia, si sentono minacciati dallaRussia. L’Alleanza ha deciso di creare una forza dissuasiva di pronto intervento per venire incontro a queste preoccupazioni. Ha ragione l’Occidente a temere di nuovo l’“orso russo”? E perché la Russia assume toni così conflittuali?». Risposta di Putin: «La Russia non parla in tono conflittuale con nessuno e, in queste questioni, come diceva Otto von Bismarck, “non sono importanti i discorsi, ma il potenziale”. Cosa dicono i potenziali reali? Le spese militari degli Stati Uniti sono superiori alle spese militari di tutti i paesi del mondo messi insieme. Quelle complessive della Nato sono 10 volte superiori a quelle della Federazione Russa. La Russia praticamente non ha più basi militari all’estero».
«La nostra politica non ha un carattere globale, offensivo o aggressivo. Pubblicate sul vostro giornale la mappa delmondo, indicando tutte le basi militari americane e vedrete la differenza. Le faccio degli esempi. A volte mi fanno osservare che i nostri aerei volano fin sopra l’Oceano Atlantico. Il pattugliamento con aerei strategici di zone lontane lo facevano solamente l’Urss e gli Usa all’epoca della “guerra fredda”. Ma la nuova Russia, all’inizio degli anni Novanta, lo ha abolito, mentre i nostri amici americani hanno continuato a volare lungo i nostri confini. Per quale ragione? Così alcuni anni fa abbiamo ripristinato questi sorvoli: ci siamo comportati aggressivamente? Vicino alle coste della Norvegia ci sono i sommergibili americani in servizio permanente. Il tempo che ci mette un missile a raggiungere Mosca da questi sottomarini è di 17 minuti. E volete dire che ci Putin e Obamacomportiamo in modo aggressivo? Lei ha menzionato l’allargamento della Nato a Est. Ma noi non ci muoviamo da nessuna parte, è l’infrastruttura della Nato che si avvicina alle nostre frontiere. E’ la dimostrazione della nostra aggressività?».
Domanda del “Corriere”: «Nega le minacce alla Nato?». Risposta di Putin: «Solo una persona non sana di mente, o in sogno, può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato. Sostenere quest’idea non ha senso, è del tutto infondata. Forse qualcuno può essere interessato ad alimentare queste paure. Io posso solo supporlo. Ad esempio gli americani non vogliono tanto il ravvicinamento tra la Russia e l’Europa. Non lo affermo, lo dico solo come ipotesi. Supponiamo che gli Usa vogliano mantenere la propria leadership nella comunità atlantica. Hanno bisogno di una minaccia esterna, di un nemico per garantirla. E l’Iran chiaramente non è una minaccia in grado di intimidire abbastanza. Con chi mettere paura? Improvvisamente sopraggiunge la crisi ucraina. La Russia è costretta a reagire. Forse tutto è fatto Marcello Foaapposta, non lo so. Ma non siamo noi a farlo. Voglio dirvi: non bisogna aver paura della Russia. Il mondo è talmente cambiato, che oggi le persone ragionevoli non possono immaginare un conflitto militare su scala così vasta. Noi abbiamo altre cose da fare, ve lo posso assicurare».
Queste sono parole di un leader che non cerca guai. E’ evidente che Putin non aspetti altro che di poter chiudere la crisi con l’America e di poter tornare ad essere considerato come un partner economico sulla scena globale. Non esiste una nuova Russia imperiale, resta una Russia che chiede solo di essere riammessa nella comunità internazionale e di poter partecipare, di nuovo, al G8. Trovare un accordo sull’Ucraina non è difficile, ma bisogna volerlo. E questo è il problema. E’ significativo che sull’edizione di ieri del “Corriere”, persino un atlantista di ferro come l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di fatto abbia certificato la buona fede di Mosca, rilevando come Putin gli avesse formulato il suo pensiero già nel 2013, pensiero che lo stesso Napolitano trasmise a Obama. Inutilmente. Chi ragiona con onestà intellettuale dovrebbe chiedersi piuttosto quali siano gli obiettivi geostrategici che gli Usa stanno surretiziamente e a mio giudizio pericolosamente perseguendo. E perché Obama abbia deciso di rispondere alla mano tesa Putin minacciando nuove sanzioni economiche e un’escalation missilistica nell’Europa dell’Est. Non è così che si mette in sicurezza il mondo.

Giannuli: ha stravinto l’élite, non esiste alternativa politica

Giannuli: ha stravinto l’élite, non esiste alternativa politica


Espropriati di ogni diritto, privati del lavoro, rasi al suolo come cittadini. E’ il nuovo ordine neoliberista, e non abbiamo scampo. Lo sostiene lo storico Aldo Giannuli, che analizza l’eclissi epocale della sinistra in ogni sua forma, da quella storica – assorbita nella socialdemocrazia – a quella “radicale”, che voleva cambiare il sistema ed è in via di completa estinzione. Peggio ancora: nessuna, delle nuove formazioni politiche che si affacciano tra le macerie dell’Europa, ha le carte in regola per progettare una via d’uscita. Siamo in trappola, schiacciati dal primo comandamento della “rivoluzione neoliberista”: lo Stato dei cittadini deve morire, per lasciar posto al primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica. Fine delle trasmissioni. Con tanti saluti alle illusioni del riformismo, che nei decenni del dopoguerra riuscì a convertire l’aspirazione rivoluzionaria in correzioni sociali all’interno del sistema, estensione del benessere relativo, ascensore sociale, garanzie, welfare. Tempo scaduto: i nuovi padroni del mondo non hanno più tempo per la democrazia, fabbricano leader-servi, impongono leggi, sbaraccano Costituzioni.
La rivoluzione neoliberista, scrive Giannuli nel suo blog, si è imposta costruendo un ordine gerarchico mondiale tendenzialmente monopolare (oggi in crisi) che riduce la sovranità degli Stati nazionali. Poi ha sottratto i grandi capitaliAldo Giannulifinanziari al fisco, attraverso la mobilità mondiale dei capitali, che consente al “grande contribuente” di scegliere il fisco cui pagare le sue tasse. Fondamentale, poi, la delocalizzazione produttiva, insieme alla liberalizzazione degli scambi commerciali: questa globalizzazione «inevitabilmente premia i paesi a costo del lavoro più basso, agendo quindi come attrattore verso il basso dei livelli salariali». Quindi, la moneta: il sistema valutario sganciato dalla base aurea, o comunque da parametri oggettivi, e basato solo sull’apprezzamento reciproco delle monete, «fa dipendere la stabilità monetaria di ciascuno dalla dittatura del rating e dalle decisioni dei mercati finanziari (in realtà da Wall Street) di fatto, riducendo ai minimi termini  la sovranità monetaria dei singoli paesi».
In più, c’è la fittissima ragnatela del Wto e degli accordi e trattati internazionali, dagli storici accordi di Marrakech del 1993 al mostruoso Ttip in gestazione: rapporti economici a livello mondiale, «che precludono ogni politica diversa da quella neoliberista e proibiscono esplicitamente l’intervento statale in economia». Non solo: «Impedendo ogni politicaindustriale nazionale, privatizzando le imprese pubbliche e promuovendo grandi fusioni internazionali a guida finanziaria», i grandi predoni neo-feudali hanno sostanzialmente imposto un cambio di sistema: non viviamo più in un regime controllabile dalle popolazioni, sempre più in sofferenza anche grazie alla liquidazione dei presupposti stessi dello Stato sociale – scuola, sanità, assistenza, pensioni, tutele civili. «Di conseguenza – continua Giannuli – l’ordine neoliberista ha carattere politicamente monistico e non ha spazio per una sinistra interna», né per «politiche keynesiane, compromessi welfaristi e, di conseguenza, per ogni politica riformista». L’ordine neoliberista «non prevede alcuna sinistra interna, è tutto e organicamente di destra». Xi Jinping con PutinCosì, a fronte dell’assolutismo neoliberista, «il riformismo, anche il più moderato, assume valenza antisistema al pari di qualsiasi indirizzo rivoluzionario».
Ne consegue che occorre abbandonare la pratica istituzionale per passare a forme di lotta violente o addirittura armate? «Per nulla: sarebbe una risposta incongrua rispetto all’obiettivo». Anche perché, qualora si prendesse il poterein un paese «tanto per via pacifica e legale quanto per via violenta ed illegale», il problema non si sposterebbe di un centimetro, «perché il nuovo governo, comunque formatosi, avrebbe di fronte lo stesso problema di fare i conti con un ordine mondiale ostile, dove l’unica variabile decisiva sarebbe quella dei rapporti di forza». La Cina, come unica alternativa? Pechino «ha realizzato un sistema di capitalismo di Stato che si discosta per più versi dall’ordinamento neoliberista, ma può permetterselo perché i rapporti di forza economici, finanziari e, non ultimo, militari, glielo consentono». La Cina «rappresenta una torsione del sistema internazionale nella misura in cui i rapporti di forza glielo consentono». Il passaggio a politiche diverse, non liberiste? «E’ antisistema, nella misura in cui presuppone la rottura dell’ordine mondiale e della sua rete di trattati e accordi».
Dunque, al di là della praticabilità di forme di lotta radicali, il problema si pone in termini diversi, ovvero: «Come maturare i rapporti di forza internazionali che consentano di aprire spazi a politiche sociali ed economiche non liberiste. Il che significa che l’asse dell’azione politica si sposta dall’arena nazionale a quella internazionale». Chi dunque potrebbe riaprire i giochi a livello globale? Non certo le sinistre riformiste (Spd, socialisti francesi e spagnoli, Labour party), che «perdono terreno e sono destinate all’estinzione o all’assorbimento organico nelle formazioni di destra, perché all’interno di questa cornice di sistema non possono avere altra sorte». Peggio ancora le sinistre “radicali” (Linke, Front de Gauche, Izquierda Unida, Rifondazione Comunista e Sel), che «stanno subendo lo stesso declino perché non hanno iniziativapolitica e non possono averla, perché, Vendola e Tsiprasincapaci di iniziativa internazionale (neppure a livello europeo), mancano di una proposta politica che non sia pura propaganda senza contenuto».
Niente di buono neppure da Grecia e Spagna: secondo Giannuli, “Syriza” è destinata al fallimento «perché non trova supporto internazionale e perché non ha il coraggio di utilizzare l’unica arma (a doppio taglio) in suo possesso: il ricatto del debitore». Quanto a “Podemos”, che lo storico dell’ateneo milanese considera «una variante intermedia fra Sel ed il M5S», è destinata ad analogo insuccesso, «perché non pensa neppure di mettere in discussione la cornice europeista». E in Italia? «Il M5S temo sia destinato a schiantarsi contro le resistenze del sistema perché, pur avendo intuito che il nodo è quello dell’ordine internazionale (come dimostra la posizione sull’euro), non riesce ad articolare questa intuizione in un progetto politico adeguatamente articolato». Per Giannuli, il Movimento 5 Stelle «non svolge alcuna azione Grillo e Farageinternazionale e, quando tenta qualcosa, sbaglia (leggi Ukip), perché non ha costruito uno strumento organizzativamente adeguato allo scontro».
Come si vede siamo in un cul de sac, conclude Giannuli. Un vicolo cielo, «dal quale non usciremo né con improbabili referendum e colpi di testa, né con le solite alchimie di orrendi cartelli elettorali costruiti sul nulla». Il politologo vede solo una possibilità, in termini di avvicinamento preliminare alla soluzione, nella costruzione di una piattaforma europea delle opposizioni, ancorché debolissime e divise. «Sarebbe già un passo avanti una convenzione europea, nella quale “Podemos”, “Syriza”, M5S, la “sinistra radicale”, i restanti partiti comunisti e le sinistre socialdemocratiche concordino una o più campagne europee sulla ristrutturazione del debito, sull’uscita concertata dall’euro, la  revisione dei principali accordi internazionali». Certo, ammette il professore, «non sarebbe la soluzione dei nostri problemi, ma un possibile inizio». L’unica opportunità da mettere in campo, perché «il resto è già votato al fallimento».

Lavoratori sotto minaccia, eccoci nel fascismo aziendale

Lavoratori sotto minaccia, eccoci nel fascismo aziendale


Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».
In teoria, scrive Cremaschi su “Micromega”, il salario dovrebbe rimanere lo stesso, ma senza le indennità. E un operaio montatore che fa i turni o va in trasferta potrà essere degradato a facchino nei magazzini e si vedrà ridotta la paga del 30%. I Renzi e Marchionnelavoratori licenziati per ragioni economiche? Potranno conciliare con l’azienda se accettano di riprendere a lavorare a mansione inferiore. «Questo è proprio il corollario che mancava al contratto senza articolo 18. Una misura che farà risparmiare alle imprese sull’indennità di licenziamento, rispondendo chiaramente ad un calcolo preciso degli uffici studi confindustriali». Come si sa, aggiunge Cremaschi, gli incentivi di 8.000 euro all’anno – che sono alla base delle assunzioni, secondo il Jobs Act – presto finiranno. «A quel punto le imprese si troveranno lavoratori licenziabili sì, ma pagando una indennità. Se però quei lavoratori verranno licenziati e poi riassunti con il demansionamento, l’indennità la pagherà il lavoratore con la qualifica più bassa, e per l’impresa sarà come se gli incentivi continuassero».
Infine, conclude Cremaschi, se il padrone può degradare quando vuole, il lavoratore non può rivendicare la promozione. Con l’articolo 13 dello Statuto, se si operava per 3 mesi in mansioni superiori si aveva diritto alla qualifica corrispondente. Con il demansionamento, invece, bisognerà aspettare il doppio del tempo, salvo accordi peggiorativi nei contratti. «Insomma, dopo il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiusto salta anche quello alla qualifica, e in ogni azienda le direzioni potranno fare di tutto ai propri sottoposti. E questo è il risultato più importante per i padroni: la licenza di mobbing. Le minacce di licenziamento o degradazione in molti caso saranno sufficienti per imporre di lavorare di più e peggio senza chiedere nulla. Il sadismo di certi capi e capetti avrà piena possibilità di dispiegarsi». Inutile girarci attorno: «Quando si dice che quello di Renzi e del suo sponsor Marchionne è fascismo, per ora aziendale, non si esagera: si descrive semplicemente quello che si sta giuridicamente realizzando misura dopo misura con il Jobs Act».