giovedì 21 maggio 2015

Al Sud più di un cittadino su 10 rinuncia a curarsi per colpa della crisi

Al Sud più di un cittadino su 10 rinuncia a curarsi per colpa della crisi


<p>
<?EM-dummyText Didascalia>

</p>
Il Mezzogiorno ha la quota più alta in Italia di popolazione (13,2%) che rinuncia a curarsi per motivi economici o carenza dell'offerta.Al Nord Ovest la quota è più bassa (6,2%). Le fragilità si concentrano su alcuni soggetti e su specifiche aree del Paese, ed emerge una netta separazione tra il Centro-Nord e il Sud a svantaggio di quest’ultimo. Fa eccezione il Lazio, che ha una situazione decisamente peggiore rispetto alle altre Regioni del Centro. E' quanto ha rilevato l'Istat nel Rapporto Annuale 2015.
Secondo l'Istituto di statistica i maggiori responsabili sono "l’introduzione dei ticket e di quote di compartecipazione alla spesa a carico dei cittadini. Inoltre ulteriori aggravi di spesa per le famiglie - osserva il rapporto - potrebbero aumentare la rinuncia aprestazioni sanitarie, dovuta spesso a motivi economici. Ciò comporta un rischio di sottoconsumo sanitario, pericoloso per le condizioni di salute della popolazione".
Analizzando le singole aziende sanitarie a livello regionale - evidenzia l'Istat - emergono forti distanze: si passa dal 21,7% di rinunce in una Asl della Sardegna al 2,6% nella Asl di Trento e in una della Lombardia. Nel Nord, infine, si osserva la maggiore concentrazione di Asl che hanno quote non superiori al 5,5% di persone che rinunciano a prestazioni erogabili dal Ssn per motivi legati all’offerta.

Il Fmi: precarizzare il lavoro (Jobs Act) affonda l’economia

Il Fmi: precarizzare il lavoro (Jobs Act) affonda l’economia


Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Monti e Fornero, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.
Per questo, scrivono Iodice e Palma su “Left”, il Fmi suggerisce alle economie avanzate un costante sostegno alla domanda per «incoraggiare investimenti e crescita del capitale», nonché «l’adozione di politiche e di riforme che possano aumentare in Elsa Forneromodo permanente il livello del prodotto potenziale». Politiche di segno diametralmente opposte rispetto a quelle attualmente adottate dai vari governi, di centrodestra e centrosinistra, tutti allineati ai diktat austeritari dei grandi padroni del mercato, l’élite finanziaria che impiega i suoi tecnocratici e i suoi politici per condurre la grande privatizzazione colpendo l’economia reale, lavoratori e imprese. Il Fondo Monetario raccomanda politiche diverse, per «coinvolgere le riforme del mercato dei prodotti, dare maggiore sostegno alla ricerca e allo sviluppo e garantire un uso più intensivo di manodopera altamente qualificata», oltre che «di beni capitali derivanti dalle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni». Si richiedono inoltre «più investimenti in infrastrutture per aumentare il capitale fisico» e, infine, «politiche fiscali e di spesa progettate per aumentare la partecipazione della forza lavoro».
Secondo Iodice e Palma, «il Fmi arriva buon ultimo, dopo che in moltissimi – anche tra gli economisti mainstream – hanno sottolineato che la “via bassa” alla flessibilità, vale a dire ridurre le garanzie e le tutele e agevolare i contratti precari, è nei fatti un incentivo per le imprese a non innovare, sostituendo il capitale e le tecnologie con più lavoro mal retribuito». In altri termini, «con la flessibilità si indebolisce quel “vincolo interno” che costringe le imprese a trovare modi migliori per produrre, invece che vivacchiare grazie all’abbattimento dei costi della manodopera», come sembra suggerire l’italico Jobs Act creato da Renzi per accontentare la Confindustria. «Nonostante ciò – aggiungono i due analisti di “Left” – l’incrollabile convinzione che una maggiore flessibilità porti ad accrescere la produttività la fa da padrona nel dibattito pubblico. Ma l’idea che la deregolamentazione del mercato del lavoro abbia effetti espansivi nel lungo periodo non è meglio fondata dell’ipotesi – dimostratasi ampiamente fallimentare – che il consolidamento fiscale produca maggiore crescita del Pil».