martedì 15 maggio 2012

Cassazione: un blog non è stampa clandestina


Cassazione: un blog non è stampa clandestina

11 maggio 2012versione stampabile
Blog e blogger italiani siete al sicuro. Nessuna querela per diffamazione può raggiungere l’autore di un blog dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha definito che i blog non si possano considerare “stampa clandestina”.
I fatti derivano da un caso, quello di Carlo Ruta, giornalista siciliano che nel 2008 era stato condannato da un tribunale di Modica per aver commesso il reato di stampa clandestina. Anche la Corte d’Appello di Catania aveva confermato la condanna.
Ruta scriveva di mafie e di fenomeni che le riguardano. Un post aveva offeso un magistrato che dopo poco ha querelato Ruta. Avendo considerato il blog una testata giornalistica, il tribunale di Modica aveva condannato Ruta.
Ora però la Cassazione ha ribaltato la sentenza e ha stabilito che di per sé il blog non è un prodotto editoriale e un blogger non può essere equiparato a un giornalista. Ora la certezza e che i blogger, siano essi giornalisti o no, non dovranno registrare la testata.

JP Morgan come fai a giudicare l'europa se non sei capace a controllare i tuoi dirigenti??


JP Morgan e il buco da due miliardi

14 maggio 2012versione stampabile
Alessandro Grandi
Troppo fiducia nei propri dirigenti, investimenti e scommesse sbagliate. I maghi della finanza di J P Morgan non sono infallibili e la conferma arriva dal buco da due miliardi di dollari causato dal Chef Investiment Office.
L’intenzione dei vertici di J.P Morgan era quella di tentare di coprire la banca dalla crisi del debito che aveva investito come un tornado l’Europa. Tutto grazie ad operazioni legate al trading sui derivati. Ma evidentemente qualcosa è andato storto e il progetto non solo non è decollato ma ha anche causato un buco da due miliardi di dollari.
La perdita di dimensioni ciclopiche ha di fatto costretto alle dimissioni tre top manager della banca, fra cui la dama di Wall Street, Ina Drew, Chef Investimente Office di Jp Morgan, in azienda da oltre trent’anni.
Proprio dalle sue stanze sarebbe iniziato il tracollo di perdite che nelle ultime due settimane ha raggiunto una media di 153 milioni di dollari al giorno, per poi arrivare anche fino a 200. Le polemiche intorno alla vicenda sono ancora solo all’inizio. Anche perché i filoni sono diversi. Uno ad esempio porta alla mancanza di correttezza nei comportamenti tenuti, in particolar modo per quanto riguarda le informative sulle perdite da rilasciare agli investitori (che devono essere tempestive). La mancanza di questo tipo di informazioni è addirittura sanzionabile.
Le autorità di sorveglianza che indagano sull’accaduto, La Financial Services Autohority di Londra e la Securities and Exchange Commission Usa, oltre ad aver scoperto la mancanza di informazioni per gli investitori, hanno anche scoperchiato un’altra realtà: l’invito a promuovere i fondi speculativi (hedge) in modo aggressivo. Cosa che avveniva da mesi.
Mai nessuno, però, si sarebbe aspettato che la JP Morgan, l’unica banca a non vedere un trimestre rosso nel periodo della crisi, arrivasse a creare un buco così ampio. Secondo l’autorevole Wall Street Journal, che ha ricostruito la storia, i capi della banca avrebbero fatto di tutto per far aumentare le operazione di hedge. Tutto all’unico scopo di rientrare da operazioni considerate eccessive sui mercati del credito.
“Fondamentalmente succede ciò che è già successo in Société Générale quello che era successo in altre banche: improvvisamente viene fuori che uno dei trader dei prodotti derivati fa una scommessa sbagliata e questo produce un buco pauroso. E’ la conferma di quanto sta succedendo nel mondo dei derivati, un mondo dove l’intero valore ammonta a 647 mila miliardi di dollari di valore nominale.” racconta al telefono Niccolò Mancini, trader a Piazza Affari.
“In ogni caso per una banca come JP Morgan non comporta niente di drammatico perché ha un utile talmente elevato che può far fronte a una perdita di questo tipo. A livello d’immagine, però, è molto pesante” continua Mancini.
Dunque, una volta ripianati i due miliardi di buco tutto tornerà come prima? “Beh, diciamo di si anche se probabilmente il buco aumenterà fino a tre miliardi. Il problema di questo tipo di operazione non è solo relazionata al buco causato, ma al fatto che sono operazioni ancora aperte e non chiuse. Quindi è evidente che in un mondo governato e guidato dalla speculazione tutti quelli che hanno saputo che JP Morgan ha delle posizioni aperte  scommetteranno contro la stessa banca. E’ altamente probabile che il buco aumenterà, proprio perché le operazioni sono ancora aperte e non si possono chiudere” dice il trader milanese, che conclude: “Questo è un tipo di finanza che è totalmente sfuggita al controllo e ha già provocato il fallimento di Leman Brothers, sta provocando il fallimento di uno Stato, la Grecia, e rischia di portare al fallimento anche Spagna e Italia. Non esiste una regolamentazione che gestisca le operazioni di questo tipo. Anche perché con leggi e regole nessuno avrebbe potuto arrivare a fare un buco da due miliardi” conclude Mancini.
Intanto, dopo aver ceduto poco più del 9 per cento del suo valore venerdì scorso, oggi il titolo J P Morgan cede il 2,13 per cento.

Germania,lo sai che se va male l'europa chiudi anche tu??


Germania e Jp Morgan mandano in "cortocircuito" l’Europa

martedì 15 maggio 2012
FINANZA/ 1. Germania e Jp Morgan mandano in cortocircuito l’Europa


A conferma che le situazioni più difficili sfuggono anche all’occhio degli esperti basti dire che ieri mattina, alle otto, alla conference call di uno degli operatori italiani più legato alla piazza di Londra, uno strategist dei più esperti azzardava una nota di ottimismo: il calo dei tassi cinesi, innanzitutto, alimentava la speranza di un avvio perlomeno neutro; ma, in particolare, non dispiaceva la lezione degli elettori del Nord Reno-Westfalia, la patria di Daimler Benz, a frau Merkel: una nuova picconata alla linea del rigore e a quella della Bundesbank, in piena sintonia con quanto sostengono i “guru” d’oltre Oceano imbufaliti con tale linea.
In realtà, le cose sono andate in maniera opposta. Fin dall’alba lo spread tra i titoli tedeschi, avviati al rendimento minimo storico, e quelli di Italia e Spagna si sono impennato a livelli record. Madrid, alla vigilia di annunci dolorosi e drastici per il sistema bancario, fa i conti con rendimenti da suicidio finanziario. L’Italia non è da meno: a fronte di tassi di poco inferiori, infatti, c’è un debito pubblico ben maggiore che imporrà nei prossimi mesi (in agosto soprattutto) aste dei Btp da brivido. Infine, a conferma che i grandi investitori asiatici cominciano a prendere le distanze dal Continente in crisi endemica, comincia a indebolirsi l’euro.
A dimostrazione che: a) il vento di “socialismo” che anima l’Europa non piace affatto ai grandi operatori americani; b) i mercati, memori dello shock del default di Lehman Brothers, vivono con terrore l’ipotesi del default greco, nel timore di conseguenze difficili da “prezzare”; c) consapevoli che, quando le cose possono andare male di solito vanno peggio, i mercati tornano a guardare con malcelata tensione, le prospettive che la caduta di Atene può avere su Italia e Spagna.
Ci ha pensato Fitch, la più piccola ma non meno agguerrita agenzia di rating, a inquadrare nel mirino Milano e Madrid: l’uscita di Atene dall’area euro colpirebbe/colpirà soprattutto i gemelli latini. È una precisazione che ha il suo peso psicologico: Fitch, agenzia controllata da azionsiti francesi (area pubblica) ci tiene a far sapere che le banche di Parigi e di Francoforte hanno ridotto la loro esposizione verso Atene. Ora, il crollo (metaforico) del Partenone finanziario andrebbe a colpire per “simpatia” il Colosseo e l’Escorial più che i forzieri di Francia e Germania.
In realtà, il calcolo è miope, almeno quanto le deduzioni del nostro strategist. La crisi politica, finanziaria ed economica dell’eurozona, va assai al di là della povera (e colpevole) Grecia, che comunque pesa il 2,5% del Pil dell’Ue. È una crisi di impotenza che, come un boomerang, minaccia di colpire alle fondamenta l’intero edificio. A danno dei poveri, ma non meno dei ricchi. Il mondo prende atto, tanto per cominciare, che l’Ue targata Germania non è stata in grado di far digerire la terapia, obbligata, dell’austerità alla Grecia. Di sicuro, è il ragionamento, la medicina non funzionerà per il resto della “periferia” d’Europa, ammesso e non concesso che si tratti della medicina giusta.
L’austerità, accusa lo strategist di Nomura, Richard Koo, può infatti funzionare di fronte a una politica di sperperi, quale quella praticata da Atene. Ma non ha alcun senso, incalzano economisti come Lawrence Summers, per paesi come la Spagna che nel 2007, alla vigilia della crisi, vantava un rapporto debito/Pil migliore della stessa Germania. O che, come l’Italia, hanno oggi un surplus sul debito primario nell’ordine di 5-6 punti percentuali dopo sacrifici che, come dimostra l’aumento del debito pubblico a marzo, verranno comunque vanificati dalla caduta in recessione del Pil. “La crisi della finanza pubblica di questi Paesi - è la diagnosi di Summers - è la conseguenza del disordine finanziario internazionale, non la sua causa. Ma quando un medico cura i sintomi e non la radice dei mali, il paziente in genere peggiora”.
Imporre una politica di austerità, incalza Koo, è una pura follia. Il Giappone, nel 1997, ha ceduto a pressioni in tal senso del Fondo monetario internazionale. Il risultato? Una caduta del debito pubblico nell’ordine dell’86%, da cui non si è ancora ripreso. E non illudetevi che basti allargare ancora i cordoni della borsa. Come recita un famoso proverbio inglese, “si può portare un cavallo in riva al fiume, ma non si può costringerlo a bere”. Allo stesso modo si può allargare il credito, ma non si possono costringere le imprese a investire se gli Animal Spirits sono negativi.
A tutto questo, naturalmente, si aggiungono le varie falle del sistema. Per limitarci alla Borsa, si fa sentire il “buco” di JP Morgan che ricorda, caso mai ve ne fosse stato il bisogno, la sostanziale impotenza delle autorità internazionali di fronte alla deregulation selvaggia che ha contribuito a inasprire la crisi. In un mondo dove i derivati valgono sette volte il Pil mondiale, gli sforzi dei governi e dei popoli sono una goccia nell’Oceano di fronte alla forza dei “masters of universe”. JP Morgan ha causato pesanti perdite nei listini europei senza aver nemmeno sfiorato, con le recenti speculazioni, il debito pubblico. Che cosa potrebbe accadere se decidesse di mettere sul tappeto i 342 miliardi di credit default swaps che possiede sull’Italia? Inutile nasconderlo: sui “sacrifici” dell’economia reale, o tagli di bilancio e il salasso delle imposte incombe la spada di Damocle di una finanza ormai sganciata dal mondo reale.
In passato, anche in tempi recenti, ha prevalso la tesi che la deregulation finanziaria favorisse l’allocazione più efficiente delle risorse. Ma questo non è successo: negli anni delle vacche grasse, quando il denaro era abbondante e il premio al rischio quasi inesistente, i quattrini del Nord Europa si sono riversati sul Mediterraneo, favorendo la bolla immobiliare spagnola o l’irrazionale dispersione di ricchezza greca, piuttosto che l’inefficienza della macchina pubblica italiana. Ora, al contrario, si assiste a una perversa fuga dal rischio: nonostante i risparmi effettuati dallo Stato italiano, i capitali fuggono dal Bel Paese verso la Germania ove vengono posteggiati in titoli pubblici. A rendere più amara la situazione, infine, contribuisce il fatto che i maggiori compratori di titoli tedeschi sono le banche svizzere, alimentate dalla fuga verso il “porto sicuro” dei contribuenti italiani, tedeschi e francesi che, in questo modo, aiutano a inasprire lo spread.
Come uscire da questo circuito perverso? Forse con gli eurobond o project bond. Oppure, favorendo l’uscita “morbida” della Grecia. Oppure introducendo vincoli allo strapotere dei mercati che possono dettare, grazie anche all’uso dei prodotti sintetici (che valgono 14 volte le Borse di tutto il mondo), le proprie regole a piacimento, magari con grande rischio ma poca spesa verso l’economia reale.
Si è detto che JP Morgan controlla 342 miliardi in “coperture” sui Btp. Ma, al pari delle sorelle Usa, la banca ha in pratica azzerato i suoi investimenti nel debito pubblico italiano già dallo scorso autunno. Per partecipare al grande flipper della speculazione, infatti, non è necessario nemmeno pagare un premio d’ingresso.
Peccato che le biglie del flipper siamo noi, vittime non innocenti di una crisi che è nata dalla nostra incuria e dalla nostra incapacità di capire i vincoli che ci poneva la sfida globale. Ma che oggi rischiamo di pagare interessi da usura. Urge una soluzione politica, insomma.

Monti adesso questo grave errore lo paghi tu??o come al solito noi Cittadini??Lo scandalo degli F-35, abbiamo speso 17 miliardi per aerei difettosi – Il dossier


Lo scandalo degli F-35, abbiamo speso 17 miliardi per aerei difettosi – Il dossier

L’ultimo dossier del US Government Accountability Office (la Corte dei Conti americana), reso pubblico il 20 marzo scorso è destinato a scoperchiare la più grande truffa della storia militare americana (e italiana). Il rapporto è dedicato al programma Joint Fight Striker, ossia la realizzazione dei cacciabombarderi F-35 costata fino ad oggi 170 miliardi, 17 miliardi (praticamente il costo di una manovra economica) alla sola Italia . Il rapporto dei “contabili” di Washington dice una cosa molto chiara e inquietante: la produzione degli F35 (compresi i 135, poi diventati 90, che il nostro governo ha precipitosamente acquistato) è iniziata con la pratica della “concurrency”, ossia quando ancora gli studi, i test a terra e in volo, i collaudi dei singoli componenti non si erano conclusi. Con una conseguenza clamorosa: i cacciabombardieri sono difettosi, degli autentici rottami volanti.
“Il design dell’F35 – spiega il rapporto – è quasi certamente da rifare, perché  l’apparecchio non vola bene, dà ‘scossoni”; esiste “il rischio che l’aereo possa non svolgere le funzioni chiave di combattimento per il quale è stato ideato”, che  ”la trasmissione dati tra elmetto e aereo avviene con lentezza e con scarsa affidabilità, tanto da mettere a repentaglio la capacità di pilotare l’F35 in situazioni di combattimento” e “solo il 4% dei requisiti di sistema per le missioni per la piena operatività sono stati pienamente verificati”. Insomma, il governo italiano ha buttato via 17 miliardi di euro per acquistare  degli aerei bluff, non verificati nel 96% dei suoi componenti, con gravi errori di progettazione che, negli ultimi tre anni hanno fatto lievitare il costo del progetto di circa 15 miliardi di dollari cui si aggiungeranno altri 13 miliardi di dollari l’anno da qui al 2035. E’ come se acquistaste una macchina e vi dicessero che però è tutta da rifare (a carico vostro). Insomma, un pozzo senza fondo in cui è caduta incredibilmente anche l’Italia e che sposta miliardi di euro di risorse pubbliche dallo stato sociale alle tasche delle industrie belliche. Un bel regalo per l’americana Lockheed Martin, capofila del progetto e per Alenia Aeronautica (gruppo Finmeccanica).
Ecco il rapporto della Corte dei Conti americana. Qui il dossier integrale
Il mese successivo alla pubblicazione del rapporto, ossia poche settimane fa, ad aprile 2012, venuto a conoscenza delle gravi implicazioni economiche del progetto, il governo canadese (così come aveva già fatto il governo australiano) ne è uscito velocemente:
Ma già a dicembre 2011, un resoconto di Aviation week metteva in guardia sulla reale efficacia operativa degli F-35, cosa che peraltro, nei suoi rapporti pubblici, la Corte dei Conti americana fa ormai da anni: “Gli effetti della concurrency -scrive l’US Government Accountability Office ”sono apparsi particolarmente evidenti nel 2011, quando il programma JSF è incorso in un aggravio di spesa per risistemare apparecchi già costruiti correggendo difetti scoperti durante i test successivi”
E dunque il governo Monti sapeva ma non ha informato i cittadini quando, nel febbraio del 2012, nel bel mezzo di una crisi economica senza precedenti, il ministro “tecnico” della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (foto a destra), aveva annunciato pomposamente che l’Italia avrebbe acquistato solo 90 F35, invece dei 131 inizialmente prenotati, così da ottenere un risparmio di cinque miliardi di euro: una clamorosa menzogna, smentita dalla preoccupante escalation dei costi prevista nel rapporto americano, di cui il ministro “tecnico” (?) Di Paola era già a conoscenza e che ha volutamente omesso. Un genio: 17 miliardi di euro (di cui 2 miliardi e mezzo già pagati alle imprese) per 90 caccia non solo inutili ma anche difettosi. E adesso chi paga?

FonSai meglio Arpe che unipol,non ha ne soldi ne storia assicurativa nemmeno appoggi internazionali


FonSai/ Arpe sonda JP Morgan, Nomura e Hsbc.

 

Pronta la squadra per la ricapitalizzazione di Fondiaria


Martedì, 8 maggio 2012 - 12:56:00

 
sai
Di Andrea Deugeni

Difficile che in FonSai possano prendere in considerazione un'ipotesi alternativa a quella del matrimonio con Unipol, visto che fino ad ora le intenzioni di Emanuele Erbetta, amministratore delegato della compagnia assicurativa controllata dai Ligresti, non hanno lasciato spazio a differenti interpretazioni.

Eppure nel fronte Sator-Palladio, secondo i rumorsMatteo Arpe e il vicentino Roberto Meneguzzo nonavrebbero mollato il colpo, procedendo a preparare una controfferta su Fondiaria-Sai, gruppo del quale già controllano l'8% e non vincolato giuridicamente, come Premafin, da un'esclusiva che sbarra la strada ad altri progetti.
Non è semplice delineare i contorni definitivi del nuovo intervento dei due fondi di private equity per soffiare FonSai ai bolognesi di Unipol, però, secondo alcune indiscrezioni che circolano sul mercato,  Arpe e Meneguzzo avrebbero sondato la disponibilità di JP Morgan, Nomura (che ha smentito, però, i rumors) e Hsbc a prendere parte a un consorzio di garanzia (alternativo a quello di Mediobanca) per sostenere l'aumento di capitale da 1,1 miliardo di euro, già varato dall'assemblea di Fondiaria. Se la soluzione ad uno dei problemi sarebbe stata trovata, rimane da mettere a posto un altro tassello fondamentale. E' chiaro, infatti, che a questa operazione orchestrata dall'ex a.d. di Capitalia e dai manager della Mediobanca del Nordestdovrebbero partecipare altri soggetti per sobbarcarsi l'onere dell'ingente ricapitalizzazione accompagnare la transizione della compagnia assicurativa verso un ritorno alla redditività.
In passato, erano circolati i nomi del fondo Clessidra di Claudio Sposito e della compagnia assicurativa veroneseCattolica, a cui, sempre secondo irumorsArpe e Meneguzzo avevano bussato la porta all'inizio della loro avventura in Fondiaria, per dotarsi di quel lasciapassare prezioso da esibire in sede Isvap e accreditarsi nei confronti del mercato come valida alternativa industriale alla soluzione Unipol. Soluzione che, senza ombra di dubbio, in un'Italia che ha già perso qualche pezzo di pregio fra i grandi marchi industriali, qualcheappeal lo ha.

Nelle ultime ore, da qualche sala operativa hanno ipotizzato l'ingresso dell'italiana Banca Intesa, creditrice di Premafin per alcuni milioni e il cui amministratore delegato Tommaso Cucchiani, ex Allianz, ha avanzato delle riserve sulla bontà del piano di salvataggio UniSai.  Difficile dire chi sarà il nuovo compagno di avventura del duo Sator e Palladio, ma non sarà altrettanto difficile per i due fondi, considerata la vasta gamma di relazioni di cui possono godere nel mondo della finanza, tirare fuori a breve l'asso dalla manica per scompaginare i piani di MediobancaProprio ora che il potere di Piazzetta Cuccia non è più poi così inscalfibile.