lunedì 12 maggio 2014

Da Hitler a Bush, dietro la guerra c’è sempre una banca

Da Hitler a Bush, dietro la guerra c’è sempre una banca


I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e dipolitica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda GuerraMondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.
Tutto inizia alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinge il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La John Pierpont MorganMorgan era la più potente banca del tempo, ricorda il blog statunitense, ripreso da “Come Don Chisciotte”, e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze alleate. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, «non si faceva problemi a lavorare anche per finanziare alcune cose sul fronte tedesco, come anche fece la Chase». Molti anni dopo, sotto Eisenhower, il business era quello del sostegno ai paesi considerati a rischio-comunismo. «Quello che fecero i banchieri fu l’insediamento di presidi in zone come Cuba e Beirut in Libano per stabilire roccaforti statunitensi nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica: e fu così che finanza e politica estera iniziarono a essere molto ben allineate». Poi, negli anni ’70, sempre i banchieri «scoprirono il petrolio, facendo uno sforzo immane per attivare nuove relazioni in Medio Oriente». In Arabia Saudita «ottennero l’accesso ai petrodollari per poi riciclarli in debiti dell’America Latina e altre forme di prestiti nel resto del mondo», in accordo col governo americano.
«La Jp Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani americani». Obiettivo: «Propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale», scrive il “Washington’s Blog”. «E possiamo dirlo: molte grandi banche hanno realmente finanziato i nazisti». Nel 1998, la Bbc riportò la seguente notizia: «La Barclays Bank ha accettato di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la seconda guerra mondiale». Anche la Chase Manhattan Bank «ha ammesso di aver sequestrato», sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa 100 conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. «A quanto pare – scrive “Newsweek” citando il “New York Daily News” – i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase di Parigi, scrisse al suo Prescott Bushsupervisore di Manhattan che la banca godeva “di molta stima presso i funzionari tedeschi” e vantava “una rapida crescita dei depositi”».
La lettera di Niedermann – precisa il “Washington’s Blog” – fu scritta nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania. Una commissione governativa francese, rivela la Bbc, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha riferito che erano coinvolte cinque banche americane: Chase Manhattan, Jp Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express». Secondo il “Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W.), «era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista». La società di “nonno Bush”, aggiunge il “Guardian” sulla base di fonti d’archivio Usa, era «direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo». E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge americana che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra.
Alcune recenti ricostruzioni rivelano che attraverso la Bbh (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Il “Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della Ubc, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che l’America entrò in guerra. L’Ubc era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania. Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la Ubc, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, Fritz Thyssenpetrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro Usa alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra.
«Tra il 1931 e il 1933 la Ubc acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero». Anni dopo, la banca «fu colta in flagrante a gestire una società di comodo americana per la famiglia Thyssen otto mesi dopo che l’America era entrata in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere». Business is business, non importa da che parte si è schierati: «Il “San Francisco Chronicle” documentò che anche Rockefeller, Carnegie e Harriman finanziarono i programmi eugenetici nazisti». Dal “racket della guerra” ai tempi del nazismo, fino ai giorni nostri: «Le grandi banchehanno anche riciclato denaro sporco per i terroristi», aggiunge il “Washington’s Blog”, riferendo la “soffiata” di un bancario sulle operazioni di riciclaggio di denaro per terroristi e cartelli della droga: «La gente deve sapere che il denaro è tuttora convogliato attraverso la Hsbc direttamente verso chi compra le armi ed i proiettili che uccidono i nostri soldati».
Banchieri e politica, golpe inclusi: secondo la Bbc, Prescott Bush e la Jp Morgan, con altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di «attuare un regime fascista negli Stati Uniti». Gli americani, scrive Kevin Zeese, «stanno imparando a riconoscere il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street, una connessione che risale agli inizi dell’impero americano moderno». Lebanche? «Hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un grasso bottino di guerra per la grande finanza. E perché sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti». Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: «C’erano grandi interessi bancari legati alla guerra mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto». Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno 2 miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. «I banchieri ritennero che, se la Germania avesse William Jennings Bryanvinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati».
Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Pierpont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson: obiettivo, «proteggere gli investimenti delle banche americane in Europa». Il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dice al “Washington’s Blog” di aver combattuto essenzialmente «per le banche americane». Racconta: «Ho alle spalle 33 anni e 4 mesi di servizio militare attivo e ho trascorso la gran parte di questo tempo a fare il super-soldato per quelli del Big Business, per Wall Street e per tutti i grandi banchieri. In poche parole, sono stato un camorrista, un gangster del capitalismo. Nel 1914 ho aiutato a mettere in sicurezza il Messico e soprattutto Tampico per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba dei luoghi decenti per i “ragazzi” della National City Bank; per aiutarli ad arricchirsi ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche dell’America Centrale, a beneficio di Wall Street».
E ancora: «Dal 1902 al 1912 – continua il soldato Butler – ho aiutato a “purificare” il Nicaragua per la International Banking House dei Brown Brothers. Nel 1916 ho portato alla luce la Repubblica Dominicana per gli interessi americani dello zucchero. Ho aiutato a rendere l’Honduras un posto adeguato per le compagnie frutticole americane nel 1903. In Cina, nel 1927, ho fatto in modo che la Standard Oil passasse indisturbata». Commenta il veterano: «Guardando indietro, avrei potuto dare dei buoni suggerimenti ad Al Capone. Il massimo che è riuscito a fare è stato imporre il suo racket in tre distretti: io l’ho fatto su tre continenti». Nelle sue “Confessioni di un sicario economico”, John Perkins descrive in che modo i prestiti della Banca Mondiale e del Fmi sono utilizzati per generare profitti per le impreseSmedley Butlerstatunitensi e debiti enormi per i paesi in difficoltà, consentendo così agli Stati Uniti di poterli facilmente controllare.
«Non è una sorpresa che ex ufficiali come Robert McNamara e Paul Wolfowitz abbiano continuato a dirigere la Banca Mondiale», rileva il “Washington’s Blog”. «Il debito di questi paesi verso le banche internazionali assicura agli Stati Uniti il loro controllo, forzandoli in un certo senso ad entrare nella “coalizione dei volenterosi”, quella che ha contribuito attivamente all’invasione dell’Iraq, o ad acconsentire all’insediamento nel loro territorio di basi militari statunitensi». Piccolo dettaglio: «Se quei paesi si rifiutassero di “onorare” i loro debiti, la Cia o il Dipartimento della Difesa farebbero in modo da fargli rispettare la volontà politica degli Usa, provocando colpi di Stato o compiendo azioni militari». Unica consolazione, per dirla col blog: «Sono sempre più numerose, ormai, le persone coscienti della stretta connessione tra il mondo bancario e il mondo bellico». Oggi, l’orizzonte delle armi americane si spinge ad Oriente, dalla Russia alla Cina, dove si sta dislocando la forza di proiezione navale statunitense. Qualcuno, a Wall Street, avrà già fatto i suoi piani. Ai dettagli, poi, penseranno Obama, Biden, Kerry e le altre comparse della politica.

Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti

Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti


Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi Karel de Gught, commissario Ueda “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.
In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva Campagna contro la globalizzazione Usa-Uereclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».
Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politicadel mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.
Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del Paolo Barnardsettore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.
Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato Ttiprovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».
Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni efinanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, itagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».

Figlio mio in carcere, la barbarie contro chi osa dire no

Figlio mio in carcere, la barbarie contro chi osa dire no


Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.
Carissimo Mattia, perché ti abbiamo insegnato il dovere di dissentire, di ribellarti davanti alle ingiustizie? Perché ti abbiamo trasmesso l’amore per No Tav, colpevoli di resisterel’umanità e per la terra? Non era meglio lasciarti crescere cullato dall’edificante cultura offerta dal nostro paese negli ultimi vent’anni? Sono certa che risponderai di no, che preferisci mille volte essere chi sei – e dove sei – piuttosto che adeguarti a questo spettacolo raccapricciante, offerto da chi esercita l’abuso di potere applaudendo gli assassini di Altrovaldi, rispondendo con i manganelli e la prigione ai movimenti popolari che nascono dalle necessità reali della gente, ignorate da chi dovrebbe cercare e trovare delle risposte.
Carissimo figlio, sabato 10 saremo – siamo – tutti qui alla manifestazione contro la barbarie dell’accusa di terrorismo, contro la devastazione della val di Susa, per la libertà di dissenso, per il diritto degli italiani a un’esistenza La madre di Mattia Zanottidignitosa. Ci siamo tutti, e siamo tanti. Manifestiamo tutto l’amore che proviamo per te, ma anche per Claudio, Chiara, Nicolò e tutti gli indagati del movimento No-Tav. E la promessa è di non smettere mai di lottare fino a quando non vi riporteremo a casa. Un abbraccio. Mamma.
(Testo della lettera che la madre di Mattia Zanotti ha indirizzato al figlio in carcere e letto pubblicamente di fronte alle migliaia di militanti No-Tav accorsi a Torino il 10 maggio 2014 per protestare contro l’arresto di Mattia, detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 9 dicembre 2013. Mattia è stato arrestato insieme a Claudio Alberto, Chiara Zenobi e Niccolò Blasi: contro i quattro giovani è stata formulata l’accusa di attentato con finalità terroristiche per aver partecipato, il 13 maggio 2013, a un assalto notturno al cantiere Tav di Chiomonte, con lancio di molotov e petardi. Nel blitz, conclusosi senza neppure un ferito, andò a fuoco un piccolo macchinario di cantiere, un compressore).

Ucraina gli USA vogliono una tensione permanente

In Ucraina gli USA vogliono una tensione permanente
La situazione rischia di andare fuori controllo

di Osvaldo Pesce

La situazione ucraina è pericolosa e in continuo sviluppo, è un conflitto che
provoca qualche morto e feriti in varie località ma resta in un equilibrio precario che potrebbe durare a lungo o saltare improvvisamente. I governanti USA, che sono stati dietro al colpo di stato contro Janukovic strumentalizzando le proteste di  piazza, vogliono mantenere nel paese una tensione permanente.
L’attacco è diretto ovviamente contro la Russia, contro i suoi interessi militari (la base di Sebastopoli) ed economici (i gasdotti verso l’Europa); la crisi ucraina è scoppiata durante le olimpiadi di Sochi, rovinando un po’ la vetrina della Russia di Putin. In realtà, meno ovviamente, questo attacco è diretto anche contro l’Europa, ma non tutta; è in particolare contro la Germania. L’Europa dei 28 esiste sulla carta geografica ma non ha consistenza reale, ha una politica estera comune talmente flebile da essere inudibile e nessuna politica militare comune se non sotto controllo USA entro la NATO; anche l’area euro dei 18 ha molte disparità economiche e scarsa omogeneità politica. Chi traina in Europa è la Germania.
Forte della sua potenza economica, che ha eroso i mercati degli altri paesi industriali dell’area (Italia soprattutto), la Germania rinsalda l’integrazione con i paesi renani e baltici, erige una sorta di confine col sud Europa considerandolo solo terra di scorrerie finanziarie succhia-risorse (Grecia) e punta a est. Questa politica indebolisce ancor più l’Europa e accresce le disparità politiche ed economiche al suo interno, ma implica un certo grado di
autonomia politica dagli USA; ora gli avvenimenti ucraini sconvolgono tutta questa situazione.
Con il crollo del muro di Berlino e il collasso dell’URSS la Russia ha dovuto ritirarsi: si è avuta la riunificazione tedesca e l’inclusione graduale dell’ area ex patto di Varsavia ed ex Comecon nella NATO e nell’UE, e gli USA che tenevano in Europa 200 mila militari li hanno potuti ridurre a 40 mila. Se l’ Ucraina entra anch’essa nella NATO e nella UE, la Russia avrà grosse difficoltà a gestire la base navale che condivide con l’Ucraina, Sebastopoli, l’unica sul Mar Nero – quindi verso il Mediterraneo, Suez e Gibilterra – e  sempre liber dai ghiacci, diversamente dalle basi sul Baltico (tranne Baltiisk, nella regione di Kaliningrad circondata da territori UE) e sul Pacifico. L’unica base navale nella disponibilità della Russia nel Mediterraneo, Tartus, è a rischio in Siria causa la guerra civile (dove pure l’ingerenza USA è palese).
L’assetto europeo delineato a Jalta, che in sostanza perdurava fino al 1989- 91, è ormai superato, ma quando un accordo cessa i pericoli di reazione e guerra aumentano. La guerra era già tornata in Europa con la dissoluzione violenta della Jugoslavia. I governanti dell’UE accettano ormai tranquillamente il rafforzamento delle destre, nazionalista in Polonia, fasciste  in Ungheria e Grecia, e ora il colpo di stato ucraino con milizie fasciste in piazza, come documentano varie fonti d’informazione alternative tra cui la web-tv Pandora.
Mosca ha bisogno di buone relazioni con  Kiev non solo per Sebastopoli, ma anche perché per l’Ucraina passa il gas russo verso il suo più importante compratore, l’Europa, che dipende da esso per buona parte del proprio consumo energetico (v. la nostra scheda “l’Europa e il problema del gas”). Oggi l’Europa non può permettersi di fare a meno del gas russo, se non per periodi molto limitati: benché i consumi della Ue-28 siano calati nel 2013 per il terzo anno consecutivo (-1,4% a 492 miliardi di metri cubi), Mosca è rimasta il primo fornitore straniero e soddisfa tuttora il 27% del fabbisogno, contro il 23%
della Norvegia, l’8% dell’Algeria e il 4% del Qatar, il cui gas naturale liquefatto (Gnl) prende sempre più spesso la via dei mercati asiatici, più redditizi: il Giappone paga il 40% in più (art. di Sissi Bellomo – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/pdpL8). Estonia, Finlandia, Slovacchia, Rep. Ceca importano tutto il gas dalla Russia, Polonia e Austria dipendono dalla Russia per quasi l’80% delle importazioni, la Grecia per il 60%, Slovenia e Ungheria per più del 40%, la Germania per quasi il 40%, l’Italia stessa per il 30% circa
che utilizza per il 15% circa della produzione di riscaldamento ed elettricità (fonte Linkiesta da International Energy Agency).
Per Van Rompuy (presidente del Consiglio europeo) di fronte alla crisi ucraina si è “inviato un chiaro segnale che l’Europa sta intensificando una marcia per ridurre la dipendenza energetica, in particolare dalla Russia”; ulteriori misure dovranno essere prese “per sostenere lo sviluppo del Corridoio Sud”, compresi “ulteriori percorsi di deviazione attraverso l’Europa dell’Est”, e si dovranno esaminare “modi per agevolare le esportazioni di gas naturale dal Nord America”, cosa che potrà essere fatta anche attraverso i “TTIP [negoziati sul libero scambio, vedi nostro articolo del 3 marzo] con gli Stati Uniti”.
Il Corridoio Sud connette i giacimenti di gas dell’Azerbaigian – e potenzialmente del Medio Oriente (Iraq) – all’Europa e dal Mar Caspio dovrebbe sfociare in Italia con la TAP (Trans Adriatic Pipeline); la sua espansione è all’ordine del giorno al summit UE di giugno, ma il gas azero copre meno del 2% del fabbisogno UE e arriverà solo nel 2019. Il gasdotto North Stream, costruito dai russi, dal 2011 consente di inviare gas in Germania aggirando l’Ucraina (art. cit. di Sissi Bellomo), e ciò spiega la prudenza tedesca sulla crisi ucraina. Il gas statunitense sarebbe disponibile dal 2015-6, ma in quantità tale da non farlo rincarare in patria: Washington ha rilasciato finora solo sei permessi, l’UE vorrebbe importare senza permessi. Altri fornitori sarebbero Cipro e Israele (e l’Australia).
Gli USA si presentano quindi a contrastare direttamente la Russia in Europa – via Ucraina – sia sul piano militare che economico. La Cina è preoccupata per tutta la situazione europea, in particolare per la crisi ucraina, sia dal punto di vista politico che economico, visto che sta intensificando i suoi investimenti in quest’area (in Italia per es. nell’ENEL,
in Ucraina in terreni); d’altra parte la battuta d’arresto nelle relazioni Germania – Russia apre nuove possibilità di mercato tra Russia e Cina su tecnologie, materie prime, prodotti di consumo di massa.
Quanto all’ONU, ha una posizione ambigua, Ban Ki-mun deplora il referendum in Crimea, e tace sul colpo di stato e sulle leggi dell’attuale governo ucraino contro la minoranza russa: proibizione della lingua russa, “operazione antiterrorismo” contro edifici pubblici occupati per difendere i propri diritti contro un governo ostile e per garantire le relazioni economiche con la Russia, in particolare la funzionalità del gasdotto che passa per Odessa (mentre gli USA sanzionano la società del gas in Crimea, Chernomorneftegaz).
La NATO si mobilita. Il segretario generale Anders Fogh Rasmussen dopo il Consiglio transatlantico (16 aprile), ha spiegato che saranno rafforzati i “dispiegamenti via terra, aria e mare” ed è quindi stato deciso di schierare “immediatamente” aerei nei cieli orientali, navi nel mar Baltico e nell’Est Mediterraneo, e uomini e mezzi sul terreno; da un mese aerei radar pattugliano i confini orientali dell’UE. Eurofighter britannici, F-16 danesi e
probabilmente anche Rafale e Mirage 2000 francesi saranno schierati nei tre paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania, privi di aviazione) e in Polonia, affiancando gli F-15 ed F-16 già inviati dall’Usaf americana. Hollande è quello che si è mosso subito, è l’uomo della guerra non solo nel bacino mediterraneo e in Africa (Libia, Siria, Mali, Rep. Centrafricana) ma in Europa; la Francia ha sospeso le attività di cooperazione militare con la Russia.
La Merkel è stata costretta ad allinearsi con gli USA. C’è però un suo sforzo di mediazione, motivato dai commerci e dagli accordi economici con la Russia: nella telefonata con Putin del 15 aprile pare che lei abbia chiesto il ritiro delle truppe russe schierate al confine con l’Ucraina e che lui abbia ribadito che l’ uso della forza da parte del governo ucraino contro la minoranza russa è incostituzionale. 
L’incontro a quattro -USA, Russia, Ucraina, UE- del 17 aprile ha deciso la cessazione della violenza e il disarmo di tutte le formazioni illegittime, la liberazione degli edifici occupati, una riforma costituzionale e la considerazione degli interessi dell’Est dell’Ucraina, l’amnistia per i manifestanti, il rispetto dei diritti della popolazione russofona; il processo sarà controllato da osservatori dell’OSCE.
Si tratta di vedere cosa avverrà davvero sul terreno (l’Ucraina è tra i maggiori produttori di armi al mondo, i kalashnikov in circolazione sono 4 milioni). Obama ha dichiarato il suo scetticismo, intanto il boicottaggio della Russia da lui chiesto fin dall’inizio ha avuto seguito limitato (l’UE attua “sanzioni mirate” contro 33 alti responsabili russi e ucraini: restrizione dei visti, congelamento dei beni).
Putin propone per Crimea e Ucraina sud orientale un assetto federativo, il governo post colpo di stato sembra ora disposto a indire un referendum tra quelle popolazioni per garantire un’ampia autonomia, il partito di Janukovic chiede la fine dell’ “operazione antiterrorismo” governativa e dell’occupazione di sedi politiche locali da parte della popolazione russa. Il governo di Kiev però ha già ripreso le operazioni, e il ministro degli esteri russo Lavrov ha reagito duramente: se non si rispettano gli accordi e gli interessi russi saranno attaccati, Mosca risponderà come in Georgia nel 2008 (guerra di 5 giorni per l’Ossezia del sud, territorio contestato vigilato da truppe georgiane, russe e dell’Ossezia del nord: a un attacco  georgiano nella notte del 7-8 agosto, le truppe russe reagirono immediatamente e con forza). I soldati ucraini all’interno delle basi, come quelli inviati dal governo, cercano di evitare scontri o solidarizzano con i dimostranti: il popolo –
ucraini, russi, cosacchi, tatari di Crimea – non vuole scivolare nella tragedia di una guerra civile. Il pericolo permane grave, ma una soluzione razionale e pacifica è ancora possibile, è nell’interesse non solo delle popolazioni coinvolte ma di tutti i popoli europei: dobbiamo sostenerla con tutte le nostre forze. Il governo di Washington semina il caos per mantenere il predominio mondiale, in Ucraina come altrove; l’unico possibile futuro dell’Europa è in una politica che conquisti l’ indipendenza politica, economica e militare dagli USA, rafforzi le proprie risorse interne e si ponga in rapporti di collaborazione e sviluppo con gli altri paesi in un mondo che si muove in direzione multipolare.