mercoledì 2 ottobre 2013

Missione compiuta Giovani, addio lavoro: spezzare l’Italia

Giovani, addio lavoro: spezzare l’Italia, missione compiuta


Allarme, dramma, tragedia. Sono i vocaboli con cui giornali, sindacati e Confindustria definiscono la catastrofe della disoccupazione indotta dalle politiche di rigore volute da Bruxelles. In Italia quasi un giovane su due non ha lavoro e, nel complesso, gli italiani disoccupati sono oltre 3 milioni. Un dato in continuo aumento: situazione desolante, fotografata dall’Istat e da Eurostat. Un record storico, addirittura, per i giovanissimi tra i 15 e i 24 anni: la massa dei senza lavoro supera il 40%, raggiungendo una soglia mai toccata dal 1977, anno d’inizio delle rilevazioni trimestrali. Peggio di noi, solo Spagna e Grecia. E’ la resa del Sud Europa al micidiale “economicidio” decretato dall’Eurozona: niente moneta sovrana e quindi tagli alla spesa pubblica, terremoto sul sistema di welfare, frana del credito, crollo dei consumi, agonia delle aziende e lavoratori a spasso. Da Monti a Letta, la musica non cambia: anzi, rispetto allo scorso anno la disoccupazione è cresciuta ancora, dell’1,4%, mentre la politica non accenna a riconoscere la causa del problema.
Buio pesto anche dai sindacati, che si limitano a registrare la gravità della situazione senza avanzare nessuna analisi. Luigi Angeletti, della Uil, non Saccomanni e Lettatrova di meglio che invocare una generica «crescita economica», sostenuta da «un governo che prenda decisioni». Per il collega della Cisl, Raffaele Bonanni, serve «un sussulto di responsabilità». Obiettivo, allentare la pressione fiscale sul lavoro. Con che soldi? Non è dato saperlo. Non una parola, dai sindacati, sulla tragedia del sequestro europeo della sovranità finanziaria. Con un lessico analogo, che in altre circostanze sarebbe comico, il vicepresidente di Confindustria, Aurelio Regina, sostiene che serve «un governo che lavori per consentire l’aggancio dell’Italia alla ripresa». Tradotto: meno tasse su lavoro e aziende, per riattivare i consumi. Peccato che il ministro dell’economia sia l’ex banchiere centrale Fabrizio Saccomanni, fedele interprete delle direttive Ue. Nonostante ciò, Regina chiede che nella “legge di stabilità” – la mannaia con cui Bruxelles condanna i suoi sudditi, in primis l’Italia – il governo «dia spazio a un deciso taglio del cuneo fiscale», perché Aurelio Reginail paese «ha bisogno di risposte urgenti». 
Secondo il Cnel, i ragazzi italiani che hanno di fronte questo sfacelo, prodotto dal mix infernale tra globalizzazione selvaggia e smantellamento della democrazia (il golpe finanziario chiamato Eurozona), si vedono costretti ad essere «più attivi, ma più disoccupati». Non si arresta il fenomeno dei Neet (“not in employment, education or training”): la quota di ragazzi che non hanno un’occupazione e al tempo stesso non sono a scuola o in formazione si attesta al 23,9% della popolazione giovanile, con punte di 35% nelle regioni del Mezzogiorno, rileva il “Fatto Quotidiano”. Più attivi sul mercato, ma più disoccupati o sotto-inquadrati rispetto ai livelli di istruzione conseguiti, i giovani confermano ancora una volta il vuoto che esiste tra i risultati del sistema formativo, la domanda di lavoro e il progressivo incremento del fenomeno dell’over-education. «I giovani sono inoltre più frequentemente working poor, lavoratori a basso salario, che accettano condizioni lavorative che li espongono al rischio di indigenza, pur di entrare nel circuito produttivo». In Europa, sta meglio solo la Germania coi suoi satelliti (Austria, Lussemburgo), cioè l’economia basata sull’export che – proprio grazie all’euro – in dieci anni h

Salvare l’Italia? Dimentichiamoci Letta, Renzi e Berlusconi

Salvare l’Italia? Dimentichiamoci Letta, Renzi e Berlusconi


La parola d’ordine è una sola: vincere. Così Mussolini dal fatale balcone, tanti anni fa. Oggi che il Duce non c’è più, resta comunque una parola d’ordine – un’altra: sopravvivere – ed è sempre l’indizio di un gioco truccato. Chi parla per proclami, oggi più di ieri, sta barando: sa benissimo che la verità è lontana anni luce dalle parole. Non solo non si può “vincere”, ma non si può più nemmeno sopravvivere. E’ matematico, pallottoliere alla mano: se non hai più moneta da creare e quindi da spendere, e se ormai è lo straniero a gestire addirittura la tua borsa, le speranze di continuare a galleggiare – lavoro, consumi, servizi – sono ridotte a zero. La beffa suprema è che la verità seguita e restare fuori dalla porta, oscurata con zelo dai mattatori della disinformazione, oscuri manovali e pallidi eredi del Solista del Balcone. Agli ordini delle grandi lobby che dominano le comparse della democrazia – cartelli elettorali e semi-leader, sindacati e ras industriali complici della finanza – giornali e televisioni parlano di Letta, Napolitano e Berlusconi come di autorità politiche in grado di gestire davvero la crisi italiana, senza mai neppure domandarsi da dove venga, questa maledettacrisi.
La parola tabù, mai pronunciata nei momenti che contano, è sempre la stessa: moneta. Ci è stata sottratta, la moneta, con un gioco di prestigio che Mussoliniaveva in palio un grandioso traguardo civile, l’unificazione storica del continente che insieme a Galileo, Leonardo e Voltaire seppe partorire lo schiavismo e il colonialismo, le guerre di religione, il nazifascismo, la Shoah e due conflitti mondiali. Risultato: all’inizio degli anni ’90 abbiamo applaudito, mentre ci sfilavano di tasca il portafogli. Ancora non lo sapevamo, ma i padroni della Terra avevano già capito che la breve festa del dopoguerra – lo sviluppo, il progresso, il benessere, i diritti – era praticamente finita. Era terminata, la ricreazione, anche nella critica trincea italiana, il paese del “miracolo” che – grazie al debito pubblico dosato in modo strategico – aveva raggiunto risultati straordinari in brevissimo tempo, nonostante la forte corruzione della classe politica, tollerata perché indispensabile a cementare il sistema atlantico in funzione anti-Urss.
Così, sorridemmo sollevati alla caduta del Muro di Berlino, anche perché l’alba della nuova era sembrava sorvegliata dalla presenza rassicurante di un grande della storia come Mikhail Gorbaciov. Appena qualche anno dopo saltarono in aria Falcone e Borsellino, mentre i reggenti della transizione avevano appena ceduto lo scalpo dell’Italia – cioè il nostro – all’assise di Maastricht. Oggi, vent’anni dopo, del panfilo Britannia con a bordo Mario Draghi e gli squali della finanzaparassitaria anglosassone parlano liberamente, in seconda serata, Gianluigi Paragone e Loretta Napoleoni, mentre – nel giorno del crac della larghe intese – Lucia Annunziata chiede invano al preoccupato Enrico Mentana che si racconti finalmente tutta la storia degli Illuminati, il grande retroscena dei veri clan onnipotenti, la filiera delle svendite e delle cessioni-fantasma che si snocciola ininterrotta fino ai nostri giorni con le vicende Telecom e Alitalia, infrastrutture nazionali finanziate con glorioso ed efficiente debito pubblico per fare Gorbaciovdell’Italia un paese moderno, una delle prime 7 economie mondiali.
Tutto finito, da tempo: non solo perché Slovenia e Croazia non sono più nemiche dell’America, ma anche perché potrebbe diventare atlanticamente inaffidabile persino la docile Italia, così come la Grecia e le altre vittime sacrificali dell’Eurozona, se solo diventasse un po’ più amica della Russia, cioè del maggior forziere energetico di tutta la latitudine eurasiatica. Meglio tenerla al guinzaglio, l’Europa, magari premiando l’immancabile kapò tedesco – ovviamente a insaputa dei tedeschi stessi, a cui provvede la relativa disinformazija, quella che racconta loro, mentendo, che il Sud Europa è un continente di irresponsabili scrocconi. Vedono lungo, i signori della Terra: una sfera orbitante che ormai ospita sette miliardi di esseri umani non può più essere il paese della cuccagna per il “miliardo d’oro”, anche perché l’impero occidentale declina, i Brics reclamano la loro parte e all’orizzonte c’è un subcontinente sterminato che si chiama Cina.
Acqua e cibo, clima e terra. I limiti dello sviluppo smentiscono la fiaba della crescita infinita, su cui si basa l’ottuso credo bugiardo di tutti gli addetti alla narrazione ufficiale, quelli che hanno sempre sparso nebbia sulla scienza dell’economia, come fosse un’arte magica per iniziati, incomprensibile e fuori dalla portata dei comuni mortali. Il loro capolavoro: farci credere che il debito dello Stato sia paragonabile a quello di famiglie e aziende – che, a differenza dello Stato, il denaro non possono crearlo dal nulla, ma solo guadagnarlo. I dominus sono abilissimi nell’arte della prevenzione: hanno annientato le vecchie barricate, smantellato le opposizioni, accecato e comprato gli avversari, plastificato l’immaginario collettivo, desertificato le coscienze pubbliche. Oggi sono in grado di presentare la cosiddettacrisi come un evento ciclico, una calamità naturale inevitabile e rimediabile solo con la sottomissione, la tolleranza illimitata del disagio crescente. Fino all’estrema depravazione italiana: prima il brutale gauleiter Monti, poi le larghe intese fangose tra gli ultimi boss di una sotto-casta di affannati Jorge Mario Bergogliocamerieri, tra i quali già si fa largo il sorriso impaziente dell’ultimo erede dinastico, Matteo Renzi.
Mentre il regime del pensiero unico presidia ancora saldamente la comunicazione, è proprio l’urto della crisi economica a spalancare nuovi crateri nel tessuto sociale, seminando innanzitutto paura. Il frangente è feroce e richiede parole adeguate, ferme e inequivocabili: le trova coraggiosamente un uomo soltanto, il Papa di Roma. Verità dolorose, pronunciate in solitudine da Jorge Mario Bergoglio, di fronte all’indecente silenzio di partiti e ministri, politici e sindacalisti. Tutti gli altri, gli attivisti estranei al circuito, i potenziali costruttori dell’alternativa – italiana e necessariamente internazionale, almeno europea – appaiono ancora dispersi, ognuno concentrato su singoli aspetti della catastrofe incombente: le malefatte delinquenziali del piccolo clan nazionale di potere, la grande tragedia della carenza di energia e materie prime, la relativa geopolitica della guerra, il disastro ambientale dietro l’angolo: secondo l’Onu, entro cent’anni il clima impazzito solleverà i mari fino a sommergere le città rivierasche.
Al centro della scena, naturalmente, resta l’aspetto più pratico e immediato della sciagura, la piaga della disoccupazione che rivela la gravità della cosiddetta crisi economico-finanziaria dell’Occidente: da una parte l’Eurozona, con gli Stati privati della loro moneta e quindi costretti a tosare i cittadini, e dall’altra Londra e Washington, che invece il denaro continuano giustamente a fabbricarlo. Peccato però che quello stesso denaro venga usato dallafinanza per taglieggiare gli sventurati che la sorgente del denaro l’hanno perduta. A noi, i paesi dell’Eurozona, si impongono tangenti su un debito pubblico non più sovrano ma comprato e venduto a tasso di usura, con la piena collaborazione della Bce (quella di Mario Draghi, l’uomo del Britannia) che in virtù del trattato-capestro di Maastricht continua a negare Draghialle nostre repubbliche il legittimo accesso alla moneta, ovvero l’ossigeno necessario a produrre investimenti, lavoro, consumi, benessere.
La prima alternativa imprescindibile, per evitare che la situazione precipiti definitivamente nella disperazione, è quella della parola: servono narrazioni oneste, spiegazioni chiare e sincere. Solo oggi emerge appieno il ruolo-chiave delle élite nelle nostre recenti disavventure, in realtà frutto di una oscura e accurata premeditazione almeno trentennale. E il peggio, dice uno storico dell’economia come Giulio Sapelli, non è neppure lo strapotere occulto dei grandi clan mondiali: il peggio è che persino loro hanno ormai smarrito la bussola, e quindi ci aspettano turbolenze mai viste. Quelle, peraltro, a cui stiamo cominciando regolarmente ad assistere. In condizioni di crescente pericolo, in cui la pace sociale potrebbe rapidamente crollare anche in Italia al livello greco, servirebbe quindi uno sforzo straordinario per unire forze e costruire alleanze attorno a un’intelligenza collettiva democratica, in grado di affrontare l’emergenza nella quale stiamo sprofondando.
Punto primo: pervenire finalmente a una lettura univoca e condivisa della grande crisi, che è la somma di più crisi. Da sola, la riconquista di una sovranità politico-monetaria non può risolvere il dramma storico della grande recessione, la fine della crescita occidentale. Per contro, senza potere di spesa pubblica non è neppure lontanamente pensabile nessun programma di investimento capace di costruire futuro. Verissimo: senza gli F-35 e la linea Tav Torino-Lione si potrebbero aprire centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma i disoccupati sono milioni. Per il loro futuro, cioè il nostro, serve una riconversione generale dell’economia: lavoro utile e pulito, nei settori chiave dell’energia rinnovabile, dell’edilizia verde, dei servizi alla persona e delle filiere corte. Una riconversione efficace, sostenuta da uno Stato sovrano funzionante e democraticamente governato, con pieno potere di spesa. Tutto si può fare, ma servono soldi: i nostri, quelli che ci hanno sottratto a Maastricht, a tradimento. Ovviamente, in televisione non se ne parlerà neppure stavolta. Ma sarà bene che qualcuno cominci a farlo: qui si tratta di salvare l’Italia, non il destino di Letta, l’avvenire di Renzi o la malinconica vecchiaia di Berlusconi.

Larghe intese e larghi affari, a cominciare dal magico Tav

Larghe intese e larghi affari, a cominciare dal magico Tav


Si fingono avversari in televisione, ma dietro le quinte sono amici. Anzi: soci. Negli ambienti giudiziari la chiamano «larga intesa degli affari». Destra e sinistra: «Tutti insieme appassionatamente, in un gioco abilissimo e sotterraneo di nomi e prestanome», rivela Lirio Abbate in un reportage su “L’Espresso”. Professionisti e tecnici, segretari di partito e ministri, capi-corrente, deputati e senatori. «I pupari e le marionette. Per muovere affari di milioni, velocizzare pratiche di appalti pubblici, approvare decreti per favorire imprese amiche, cambiare componenti di commissioni di vigilanza e authority». Di fatto, questo significa «svuotare le istituzioni e piegare le regole democratiche in uno spoil system che genera un sistema viziato», che diventa «un magma rovente che fonde gli appetiti meno nobili, una suburra in cui tutti si scambiano favori e dialogano per concretizzare interessi senza badare a casacche e stemmi di partito», a cominciare dalla madre di tutti i subappalti, la famigerata Tav.
E’ l’inchiesta di Firenze sull’alta velocità, costata l’arresto a Maria Rita Lorenzetti, esponente Pd e presidente di Italferr nonché ex governatrice Anna Finocchiarodell’Umbria, a far emergere la “larga intesa degli affari”. Prima ancora che nascesse l’esecutivo Letta, racconta Abbate, lungo l’alta velocità andava già in scena una “grosse koalition” tessuta da personaggi che si presentano come uomini di fiducia e consulenti di esponenti politici di primissimo piano, amici di Massimo D’Alema e Marcello Dell’Utri, Anna Finocchiaro e Angelino Alfano. «Al centro di questo giro c’è un geologo siciliano del Pd, Walter Bellomo, arrestato dai carabinieri del Ros di Firenze». Componente della commissione per la valutazione dell’impatto ambientale del ministero dell’ambiente, secondo gli inquirenti ha avuto un ruolo strategico: facilitatore di appalti. I pm scrivono che «ha tenuto una condotta assolutamente spregiudicata, svendendo la propria funzione non in maniera occasionale ma permanente», mettendosi «a disposizione del gruppo criminale» di cui faceva parte anche la Lorenzetti.
«Non molleranno, sul Tav, perché è il bancomat dei partiti», accusa il leader No-Tav valsusino, Alberto Perino. Le indagini di Firenze sembrano dimostrarlo con assoluta precisione. Per il Pd, quelle di Bellomo erano azioni «meritevoli di riconoscimenti», al punto che il funzionario “strategico” venne presentato alla senatrice Anna Finocchiaro, con la quale avviò un dialogo spesso mediato dal consigliere politico dell’esponente dalemiana, Paolo Quinto. «L’ex capogruppo delPd al Senato – continua Abbate – negli ultimi due anni si è mossa spesso per favorire Bellomo: intercedendo con l’allora ministro Corrado Clini perché lo riconfermasse nella commissione Via, o tentando anche un pressing sul governatore siciliano appena eletto, Rosario Crocetta, suggerendolo come assessore». Questo, ovviamente, avveniva nell’ombra. Alla luce del sole, invece, Anna Finocchiaro si espose nel febbraio 2012 per elogiare il giovane carabiniere che, in valle di Susa, evitò di reagire alle provocazioni di un No-Tav che l’aveva chiamato “pecorella”. Un clamoroso polverone mediatico, per tentare di far dimenticare il fretta l’incidente quasi mortale appena occorso all’anarchico Luca Abbà, precipitato dal traliccio sul quale si era D'Alema con la Lorenzettiarrampicato per protesta.
Un anno e mezzo dopo, ecco che – più che di “pecorelle” e insulti – il gioco è fatto di maxi-appalti di cui non c’è da andare fieri. «Dalle carte degli inquirenti – prosegue il reportage dell’“Espresso” – emergono dettagli interessanti. Si comprende che Bellomo ha mire politiche e pensa, in base alle promesse e ai complimenti che riceve dall’ambiente del Pd, di poter aspirare a un’importante carica istituzionale. Dopo le ultime elezioni ne parla con l’ingegner Mauro Patti, altro componente della commissione Via, amico e testimone di nozze del ministro dell’interno Angelino Alfano». Bellomo e Patti, come annotano gli inquirenti, «sembra che abbiano affari in comune relativi a coinvolgimenti in progetti oggetto di valutazione della stessa Via di cui fanno parte», tra cui un Club Med a Cefalù. Il Ros intercetta la loro conversazione: è dicembre 2012 e i due prima scherzano sull’esito delle primarie del Pd e poi Mauro Patti si sbilancia, ritiene molto probabile che Bellomo possa essere chiamato a ricoprire l’incarico di sottosegretario: «È capace che tu vai a fare il sottosegretario, compà! all’ambiente». Bellomo si compiace e non esclude l’ipotesi: «Tutte le porte sono aperte, diciamo che la Finocchiaro è questo che vorrebbe che io facessi… però non è che lei ha solo me, c’è tutta una squadra da mettere in campo».
La Lorenzetti ha rivelato che durante il governo Monti alcune nomine istituzionali venivano decise ancora da Gianni Letta, l’ex sottosegretario di Berlusconi. «Ne parlò con il consigliere politico della senatrice Finocchiaro, il quale non apparve scandalizzato». Sempre la Lorenzetti puntava all’Authority dei Trasporti, per la quale però – secondo Enrico Letta – suo zio Gianni puntava su Pasquale De Lise, ex presidente del Consiglio di Stato. Così la Lorenzetti al telefono con il consigliere della Finocchiaro: «Secondo me devono acchiappare qualcuno del Pdl. Se la linea è quella che diceva Anna (Finocchiaro ndr) che Letta le ha detto, bisogna che ‘chiappino questi del Pdl, ma in particolare Gianni Letta. Me lo diceva ieri durante una Gianni ed Enrico Lettatelefonata imbarazzata Enrico Letta. Da parte sua ovviamente l’imbarazzo che suo zio, Gianni Letta, non vuole sentire ragioni a mollare De Lise».
Walter Bellomo, continua “L’Espresso”, lo scorso gennaio era intenzionato a giocarsi tutto pur di trovare un posto in lista per le elezioni nazionali. In Sicilia ilPd aveva eliminato dalle candidature Wladimiro Crisafulli e Antonio Papania. Il geologo pensava che, con tutti i favori politici assicurati, fosse la volta buona per approdare in Parlamento. Decise di puntare su un referente nuovo, Roberto De Santis, un imprenditore considerato molto vicino a Massimo D’Alema. Per Bellomo il tramite è un collega del ministero dell’ambiente, Giuseppe Chiriatti, che assicura il suo interessamento per procurare il contatto con De Santis: «Faccio io». Dopo un paio di ore è tutto fatto, scrive Abbate: «L’amico di D’Alema è disponibile a incontrare Bellomo». Dalle intercettazioni «emerge l’esistenza tra i due di un rapporto di confidenzialità se non di amicizia». De Santis non è un politico, ma avrebbe potuto introdurre Bellomo a D’Alema. «E a proposito di grandi alleanze – scrive Abbate – occorre ricordare che nel consiglio di amministrazione della società svizzera Avelar, che commercializza metano, Roberto De Santis sedeva accanto a Massimo De Schifani e AlfanoCaro, che le cronache giudiziarie indicano molto vicino a Marcello Dell’Utri».
Lorenzetti & C. vanno in fibrillazione anche nel luglio 2012, perché si ventila il taglio dei posti dei cda nelle società parastatali. «È una persona molto vicina a Renato Schifani (all’epoca presidente del Senato) ad avvertire la presidente di Italferr della manovra del governo. Lorenzetti sembra nel panico – continua “L’Espresso” – e chiama subito il consigliere politico della senatrice Finocchiaro, al quale espone “il pericolo” a cui vanno incontro: il taglio di manager nella pubblica amministrazione». Il consigliere della Finocchiaro tenta di consolare Lorenzetti: «Ho parlato con Anna e ho due novità: uno che si interesserà personalmente con Schifani per sapere se questa cosa è vera, però lei non ne sa nulla. Sicuramente nel partito non c’è stata nessuna discussione e quindi non è una linea del partito. È una linea del governo Monti, di Bondi, il super-consulente di taglio delle spese degli enti pubblici. Il partito non ha fatto assolutamente nulla. Assolutamente non è niente di certo». Così parlano, intercettati, i personaggi-ombra dei politici che, in televisione, raccontano di voler salvare l’Italia.

lunedì 30 settembre 2013

Dietro alle “lacrime napolitane”, i boss del vero potere

Dietro alle “lacrime napolitane”, i boss del vero potere


Il governo Letta è andato a gambe all’aria. L’annuncio, con le dimissioni dei ministri Pdl, è arrivato un sabato di settembre e subito è partito il coro greco degli italiani, abituati al pianto a comando. Un governo sciapo, inconsistente, immobile. Perché piangere? Guardi Letta, imbronciato come un bimbo cui sia stato rotto il trenino e pensi, quest’uomo conosce la coerenza? Il 24 giugno 2012, intervistato da Arturo Celletti di “Avvenire”, s’era scagliato contro Berlusconi e Di Pietro parlandone come di «un male per l’Italia» e, della crisi, come «ossigeno per le forze antisistema», tanto da augurarsi un «grande progetto per il paese» sotto forma di «offerta politica capace di attrarre e convincere: noi, Casini e Vendola. Funzionerebbe. Avrebbe appeal europeo. Avrebbe forza». Sappiamo com’è andata a finire. E ancora, il 26 giugno, intervistato da Teresa Bartoli del quotidiano “Il Mattino” di Napoli, eccitato dall’idea di un patto per arginare il populismo incarnato da Berlusconi, Di Pietro e Grillo: «La questione chiave è l’esclusione del populismo. Che in Italia oggi ha tre interpreti: Grillo per l’evidente alternatività di proposte come il non ripagare i debiti; Berlusconi con la sua scelta anti euro ed anti Europa; Di Pietro con i suoi attacchi al Quirinale che archiviano una logica istituzionale. Deve essere chiaro che con queste forze non si può governare».
No, non si può governare, solo farci un governo insieme. Come Letta ha fatto con il Pdl del “populista” Berlusconi. Quando Letta, naufragato Bersani fra i Enrico Lettamarosi del tatticismo, accettò l’incarico per la formazione di un nuovo governo, la stampa circondò il personaggio di quell’aurea mistica spennellata su Mario Monti ai tempi. Roba stucchevole. La stampa italiana, si sa, ha un debole per gli uomini del Bilderberg, della Trilaterale, dell’Aspen Institute. Letta era il loro uomo, uno e trino. Quando nella tarda primavera del 2012 fu invitato dal Bilderberg a Chantilly, in Virginia, accettò senza battere ciglio. Fu presentato come “Deputy leader, Democratic Party (Pd)”. Dal Nazareno in Virginia, timbrando il cartellino del club. Sbarcato negli Stati Uniti, vi trovò Franco Bernabè, presidente esecutivo Telecom, Fulvio Conti, amministratore delegato e direttore generale Enel, Lilli Gruber, giornalista La7, John Elkann, presidente Fiat.
Lilli Gruber al Bilderberg è ormai di casa. Era fra gli invitati alla riunione del Bilderberg a Hertfordshire, nell’Inghilterra orientale, il giugno di quest’anno. E chi c’era ancora fra gli italiani? C’era Franco Bernabè e c’erano Enrico Tommaso Cucchiani, consigliere delegato e Ceo di Intesa San Paolo, Alberto Nicola Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, Gianfelice Rocca, presidente di Techint e Assolombarda, nonché il senatore a vita Mario Monti, tornato alla casa madre dopo aver soggiornato a Palazzo Chigi. Mario Monti c’era anche nel 2011, quando la riunione fu tenuta a St. Moritz, in Svizzera, con il leghista Mario Borghezio, che avrebbe voluto tanto assistervi, preso a legnate, e che nel giugno di quest’anno, intervistato da Alessandro da Rold de “L’Inkiesta”, s’è tolto un sassolino dalla scarpa profetizzandovi la partecipazione di Matteo Renzi nel 2014: «Toccherà a lui. Faranno come per Enrico Letta, un fungo spuntato all’improvviso, con poco consenso popolare, pochi voti, che è diventato poi presidente del Consiglio. Lilli Gruber e Mario MontiCosì succederà pure per il sindaco di Firenze: li fanno emergere, accadde per primo a Bill Clinton».
C’era Mario Monti nel 2011 e c’erano Franco Bernabè, John Elkann, Paolo Scaroni, amministratore delegato Eni, e Giulio Tremonti, ministro dell’economia e finanze del governo Berlusconi e, fra gli altri ospiti, lo spagnolo Joaquín Almunia, vicepresidente della Commissione Europea e commissario alla concorrenza. Nel 2013 alla riunione del Bilderberg è invece andato direttamente il presidente della Commissione Europea, il portoghese José Manuel Durão Barroso. Oggi Mario Monti fa parte con Franco Bernabè, unici italiani, della Steering Committee del Bilderberg, presieduta da Henti Castries di Axa, con Monti ricordato come Senator for Life. In passato hanno fatto parte della Foreign Steering Committee del Bilderberg, oltre a Monti, Gianni e Umberto Agnellli, il nobile e politico Gian Gasperi Cesi Cittadini, l’economista Tommaso Padoa-Schioppa, poi ministro dell’economiae finanze con Prodi, lo stesso Romano Prodi, il diplomatico Renato Ruggiero, poi ministro degli esteri con Berlusconi, l’economista Pasquale Saraceno, Stefano Silvestri dell’Istituto di Affari Internazionali, Vittorio Valletta, presidente Fiat del dopoguerra, Paolo Zannoni, un passato in Fiat e oggi della scuderia Goldman Sachs.
Letta non poteva pertanto non gioire quando nel 2012 gli arrivò l’invito. E quando gli fu chiesto il perché di quella partecipazione, spiegò la cosa, tempi moderni, su Facebook, dove c’è ancora la sua nota delle 12.14 del 5 giugno di quell’anno: «In molti in questi giorni mi fanno domande sul meeting Bilderberg al quale son stato invitato a Washington lo scorso fine settimana. In sintesi, era presente una parte importante dell’amministrazione Obama e dei partiti democratico e repubblicano americani. C’erano poi leader socialisti, liberali, verdi e conservatori di molti Paesi europei. E, inoltre, sindacalisti e imprenditori, docenti universitari e finanzieri. Senza contare rappresentanti dell’opposizione siriana e russa. La lista dei partecipanti è stata peraltro resa pubblica dagli stessi organizzatori. Si è discusso dei principali temi in materia di economia e di sicurezza al centro dell’agenda globale. Ed è stata per me un’occasione interessante e utile per ribadire la fiducia nei confronti dell’Euro e per rilanciare con grande determinazione Franco Bernabèl’invito a compiere i passi necessari (e indispensabili) verso gli Stati Uniti d’Europa».
«Nulla di queste discussioni, e del franco e ‘aperto’ dialogo tra i partecipanti, mi ha fatto anche solo per un momento pensare a quell’immagine di piovra soffocante che decide dei destini del mondo, incurante dei popoli e della democrazia, descritta da una parte della critica sul web e sulla stampa. È vero: la discussione era a porte chiuse. Ma la presenza dei direttori di alcuni dei principali giornali internazionali (di tutte le tendenze politico-culturali) mi pare possa ‘rassicurare’ i sostenitori di una lettura complottistica del meeting». Letta sarebbe potuto essere più preciso; temi di economia e sicurezza al centro dell’agenda globale: e qual era questa agenda? Gliela ricordiamo noi. Fra il 31 maggio e il 3 giugno 2012, a Chantilly, in Virginia, con Washington a ventiquattro miglia, s’è parlato di relazioni transatlantiche, evoluzione del panorama politico in Europa – e già in Italia Mario Monti era stato messo in sella – e negli Stati Uniti, austerità e crescita delle economie avanzate, cybersicurezza, sfide energetiche, futuro della democrazia in Russia, Cina e Medio Oriente. E c’era, seduta fra i commensali, per stessa ammissione di Letta, l’opposizione siriana, ospite di riguardo, considerate le manovre per la destabilizzazione della Siria, ora benedetta anche dall’acqua santa del Bilderberg.
A sentir Letta il Bilderberg è un ritrovo di dame di carità, lui che è anche uomo della Trilaterale, un think tank fondato nel 1973 su iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato di Nixon, Zbigniew Brzezinski, un politico e politologo di origini polacche. La Trilaterale, uomini d’affari, politici, intellettuali europei, giapponesi, americani, tutti insieme appassionatamente. In un documento della Trilaterale del settembre 2013 Letta è ricordato per la branca europea con Grete Faremo, Lord Green, Toomas Hendrik Ilves, Francis Maude, Margrethe Vestager tra i “former members in public service”: «Enrico Letta. President of the Council of Ministers, Italy; former Member of the Italian Chamber of Deputies; former Under State Secretary in the Office of Prime Minister Prodi; former Minister of European Affairs, Industry, and of Industry and International Trade, Rome». È in buona compagnia. Della Trilaterale, prima di approdare alla Casa Bianca come consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, faceva anche parte Susan H. Rice, un passato come fellow della Brookings Institution, un think tank di Washington che sforna rapporti e vademecum su come attaccare e invadere paesi sovrani e, Hisashi Owadafra gli asiatici, Hisashi Owada, oggi presidente della International Court of Justice a Ginevra. Le pedine giuste al posto giusto.
Ma cos’è la Trilaterale? Che percezione se ne ha? Nel 1990 il canadese Gilbert Larochelle, professore di filosofia politica, nel suo “L’imaginaire technocratique: la Commission Trilaterale et sa définitiion d’un nouvel être ensemble” ne parlò come espressione di una classe privilegiata di tecnocrati, paragonandola a una cittadella, a un luogo protetto dove «la téchne è legge» e dove «sentinelle dalle torri di guardia vegliano e sorvegliano». Una “cittadella” di “migliori” che nella loro «ispirata superiorità elaborano piani per poi inviarli verso il basso». Più critico era stato nel 1985 lo scrittore francese Jacques Bordiot, che su “Présent”, raccontando come solo chi era giudicato capace di «comprendere il grande disegno mondiale dell’organizzazione e di lavorare alla sua realizzazione» ne diventasse membro, precisò come vero obiettivo della Trilaterale fosse quello di «esercitare una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate per portarle a sottomettersi alla loro strategia globale».
Oggi a capo della branca europea della Trilaterale c’è Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca Centrale Europea e, fra gli italiani, Paolo Andrea Colombo, presidente Enel, Enrico Tommaso Cucchiani di Intesa San Paolo, John Elkann, Federica Guidi di Ducati Energia e già al vertice dei Giovani Imprenditori di Confindustria, il banchiere Maurizio Sella, presidente del Gruppo Sella, Giuseppe Recchi, presidente Eni, il generale Luigi Ramponi, ex direttore del Sismi, Gianfelice Rocca di Techint, Marcello Sala, vice presidente vicario del consiglio di gestione di Intesa San Paolo, Franco Venturini, editorialista di politica internazionale del “Corriere della Sera”. Il 30 aprile di quest’anno Francesco Colonna, scrivendo su “l’Espresso” nell’articolo “Perché ha vinto il gruppo Bilderberg?” del libro del giornalista e studioso Domenico Moro “Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo”, si chiedeva fino a che punto si potesse definire democratica una società in cui i posti di potere sono in mano a «poche e potentissime lobby», per poi riflettere sulle coincidenze: due premier italiani, due uomini del Bilderberg, l’indebolimento del Parlamento, l’abuso dei decreti legge usati Gianfelice Roccacome maglio dall’esecutivo, la presidenza della Repubblica sempre più invadente.
«Fino a un paio di anni fa in pochi parlavano di gruppo Bilderberg e Commissione Trilaterale. E quei pochi venivano facilmente tacciati di complottismo (non sempre a torto, per la verità). Gli eventi successivi hanno però cambiato le cose, almeno in Italia. Nell’ultimo anno e mezzo il Parlamento e i partiti si sono indeboliti, i decreti-legge hanno sempre più spesso sostituito l’attività legislativa delle Camere, il ruolo della presidenza della Repubblica si è espanso come mai era avvenuto e sono stati scelti due premier (Mario Monti ed Enrico Letta) che sono membri o habituée del gruppo Bilderberg. E tutto questo è successo in un periodo nel quale i paradigmi auspicati dalla grande finanza internazionale, cioè proprio dai membri del Bilderberg e della Trilaterale (avvicinamento al sistema presidenzialista, finanziarizzazione dell’economia, liberismo e libero scambio senza barriere, politiche di austerità, lenta erosione dei salari e dello Stato sociale) sono diventati in buona parte esplicito programma di governo. Oggi insomma diventa difficile sostenere che le riunioni semi-segrete di queste due organizzazioni (e un discorso simile si potrebbe fare per le centinaia di associazioni e think thank liberal-conservatori sparsi per il mondo) non influiscano pesantemente sui destini delle democrazie». Con buona pace dello psicodramma che nelle ultime ore sembra aver assalito gli italiani, la caduta del governo Letta non potrà pertanto che essere accolta come una benedizione, sempre che il suo predecessore, quel Mario Monti senatore a vita, il Senator for Life dei documenti del Bilderberg, non torni ad accarezzare sogni di gloria. Sarebbe uno schiaffo alla decenza e alla democrazia offesa dell’Italia.

Lavoro, la fiaba del merito: si salvano solo i figli dei ricchi

Lavoro, la fiaba del merito: si salvano solo i figli dei ricchi


«La differenza che passa fra produttività e merito è esattamente quella che passa fra lavorare molto e lavorare bene: con ogni evidenza, nulla assicura che lavorare molto implichi lavorare bene». Il dramma, sottolinea Guglielmo Forges Davanzati, è che i giovani hanno sempre meno speranze di trovare lavoro: le porte del mercato sono sempre più strette, e avvantaggiano chi ha forti relazioni sociali e familiari, svantaggiando tutti gli altri. «Non è un fenomeno nuovo quello della trasmissione ereditaria della povertà», perché la cosiddetta “ideologia del merito” che ha guidato le politiche economiche degli ultimi decenni non aiuta a risolvere il problema – di fatto, non lo ha minimamente attenuato – dal momento che «il fenomeno si auto-alimenta soprattutto in contesti di crescente polarizzazione dei redditi». Risultato: «Gli individui provenienti da famiglie con redditi elevati “spiazzano” gli individui provenienti da famiglie con più basso reddito, non perché più produttivi, ma semplicemente perché le famiglie d’origine hanno redditi più alti e maggiori e migliori “reti relazionali”».
Anche per questo, la tragedia italiana della disoccupazione giovanile «non ha nulla a che vedere con il fatto che i lavoratori adulti sono iper-protetti». "Non è un paese per giovani"Semmai, è il peggioramento della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro, scrive su “Keynesblog” il professor Davanzati, docente dell’università del Salento, di fronte alle cifre della catastrofe: secondo l’ultimo rapporto Ocse, il tasso di disoccupazione è in crescita in quasi tutti i paesi industrializzati e, in particolare, nell’Eurozona e in Italia. La Banca d’Italia, fin dal 2010, registra che la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti, e che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forzalavoro. Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993 era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, l’occupazione era cresciuta arrivando al 62%, ma si era già ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%.
Nel corso degli ultimi anni, osserva Davanzati, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato, portando il tasso di disoccupazione giovanile a circa il 40% (fonte Istat), «fatto del tutto inedito nella storia dell’economia italiana». Il fenomeno viene spesso imputato agli effetti di “labour hoarding”, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che poi – in caso di ripresa – sarebbero costrette ad assumere individui da formare. Interpretazione discutibile, almeno se riferita all’Italia, dove le aziende non prevedono nessuna ripresa a breve o medio termine: oltre il 50% degli imprenditori italiani ritiene che la recessione in atto durerà ancora almeno due anni, ed è una stima che può considerarsi prudenziale. Inoltre, il nostro sistema produttivo è composto da imprese di piccole dimensioni e poco innovative: se la tecnologia utilizzata non richiede lunghi e costosi processi di apprendimento, non siDavanzaticapisce perché le imprese non licenzino il personale già formato, pensando poi di sostituirlo con giovani.
Specie nel Mezzogiorno, la relativa tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta «dipende semmai da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare». In altri termini, «il costo del licenziamento in questi casi è sia economico sia psicologico, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati». Sono davvero gli individui più produttivi ad avere la più alta probabilità di essere assunti? Non è detto, perché non esistono standard qualitativi per classificare davvero il “merito”, e perché la produttività del lavoro (ammesso che sia misurabile) è il rapporto fra la quantità prodotta e le ore-lavoroimpiegate. Peccato che, dal 2000 al 2012, in tutti i paesi dell’Eurozona sia notevolmente aumentato il numero di individui che, per trovare lavoro, si rivolgono a conoscenti, amici e parenti. Conseguenza evidente: si riduce la mobilità sociale. «I figli delle famiglie con più alto reddito ottengono good jobs, a fronte del fatto che le famiglie con più basso reddito vedono i loro figli collocati in condizioni di disoccupazione, sottoccupazione e precarietà». In più, conclude Davanzati, i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati «hanno un salario di riserva più alto rispetto a coloro che provengono da famiglie con basso reddito». Alla faccia, appunto, dell’ideologia del “merito”.

Sbarco nel Ragusano, una decina di morti Annegati mentre cercavano di raggiungere la riva

Sbarco nel Ragusano, una decina di morti

Annegati mentre cercavano di raggiungere la riva



(ANSA) - SCICLI (RAGUSA), 30 SET - Tragico sbarco di migranti nel Ragusano: una decina di extracomunitari sono morti annegati nel tentativo di raggiungere a nuoto la riva a Scicli, dopo essere stati lanciati in acqua da un natante che si era arenato.

Sul posto stanno operando carabinieri, polizia, guardia di finanza e personale del 118.

giovedì 26 settembre 2013

Gemelline Schepp “sono vive e si trovano in Sardegna”: padre si suicidò nel Foggiano

Caso Schepp, Unione Sarda: "Gemelline sono vive e si trovano in Sardegna"

Gemelline Schepp “sono vive e si trovano in Sardegna”: padre si suicidò nel Foggiano

La notizia è apparsa questa mattina sulla prima pagina del quotidiano 'L'Unione Sarda'. "Ieri mattina è scattato un blitz dei carabinieri del Ros in un campo nomadi tra Nuoro e Oristano"


Caso Schepp, Unione Sarda: "Gemelline sono vive e si trovano in Sardegna"
Potrebbero trovarsi in Sardegna le sorelline Alessia e Livia Schepp rapite i 31 gennaio del 2011 dal padre Matthias, poi morto suicida tre giorni dopo sotto a un treno all’altezza della stazione di Cerignola Campagna. A rivelare la notizia è l’Unione Sarda, che al caso Schepp questa mattina dedica la prima pagina del quotidiano e un’ampia ricostruzione delle indagini.
Si accende quindi un barlume di speranza per Irina Lucidi, madre delle due bambine italo-svizzere originaria di Ascoli Satriano. Qualche giorno dopo la scomparsa delle due bambine, lo ricordiamo, nell’abitazione dei coniugi separati, a Saint-Sulpice, giunse una lettera inviata dall’uomo prima di togliersi la vita, che conteneva una dichiarazione agghiacciante: "Le bambine riposano in pace, non hanno sofferto". Nella missiva l’uomo scriveva chiaramente di aver ucciso le figlie e di trovarsi a Cerignola per ammazzarsi.
La tesi rivelata dal quotidiano sardo, fa il paio con la foto scattata al casello di Nizza che immortalava il passaggio dell’auto di Matthias Kaspar Schepp senza che vi fosse traccia delle bambine sui sedili posteriori.
Sul sito internet dell’Unione Sarda si legge: “All'origine dell'apertura dell'inchiesta le confidenze che gli inquirenti avrebbero ricevuto da un avvocato. Ieri mattina è scattato un blitz dei carabinieri del Ros alla ricerca delle due bambine in un campo nomadi tra Nuoro e Oristano. Le tracce delle due bambine, scomparse il 30 gennaio del 2011, si erano perse in Corsica. Si è sempre temuto che fossero state uccise. Il padre che non accettava il divorzio, aveva scritto alla moglie: "Non vedrai mai più le nostre bambine".
A mettere in moto la Dda, che ha poi affidato il fascicolo al sostituto procuratore Alessandro Pili, è stata la segnalazione dettagliata ricevuta da un avvocato cagliaritano alcune settimane fa. Il legale avrebbe riferito al magistrato quanto gli era stato raccontato da un suo assistito - di cui non ha rivelato il nome - che avrebbe sentito in carcere parlare un gruppo di nomadi.
Secondo le rivelazioni sentite dal detenuto, a giugno le gemelline si trovavano in mano a una famiglia nomade, in un campo rom tra le province di Oristano e Nuoro. Ricevuta la segnalazione è stata aperta l'inchiesta al momento senza ipotesi di reato e i successivi accertamenti.
I carabinieri dei reparti speciali, dopo settimane di appostamenti, ieri mattina hanno fatto scattare il blitz che non ha però dato i risultati sperati. Le tracce di Alessia e Livia si erano perse in Corsica, due anni e mezzo fa, dove erano arrivate assieme al padre, due giorni prima che lui si suicidasse


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