venerdì 26 ottobre 2012

Ue, 5 mosse anti-choosy


Ue, 5 mosse anti-choosy

Le pratiche europee contro il fenomeno dei bamboccioni.


Bisogna ammetterlo, il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha ragione: i giovani italiani sono choosy. Ma non perché con una laurea in tasca sperano di trovare subito l'occupazione per cui hanno studiato. Piuttosto per la poca dimestichezza con il mondo del lavoro, per la mancanza di autonomia e indipendenza.
Non è un'accusa: basta dare un'occhiata alle statistiche.
EUROPA A TRE VELOCITÀ. Stando ai rapporti di Eurostat, sull'occupazione giovanile, l'Europa va almeno a tre velocità.
Paesi come Norvegia, Olanda, Germania, Austria e Svizzera hanno alti livelli di occupazione per tutte le fasce di età: dai 15 ai 19 anni, dai 20 ai 24 e dai 25 ai 29. Con solo il 10% di inoccupati tra i 15 e i 24 anni.
Sull'altro versante, Spagna, Grecia e Portogallo, hanno la disoccupazione a livello critico: fino al 50% sotto ai 25 anni. L'Italia ha un tasso più basso, ma è schiacciata da due piaghe che si intersecano, si mescolano e non lasciano scampo: inattività e precarietà.
LAVORO? SOLO A 25 ANNI. Prima dei 25 anni, nel nostro Paese solo il 40% dei giovani ha avuto un impiego (anche non regolare). Mentre Francia e anche Spagna superano il 60%. Tra i 25 e i 29 anni arriviamo poco oltre il 70%: gli altri superano l'80%.
Colpa della crisi? No. I dati Eurostat 2007 raccontano che la peculiarità italiana era presente in tempi non sospetti.
Il lavoro serale e nei weekend, diffuso negli altri Paesi soprattutto tra i ragazzi sotto i 20 anni, in Italia si concentrava nella fascia oltre i 25 anni. Un affare da laureati senza speranza.
PRATICHE ANTI-BAMBOCCIONI. La prima conclusione che si può trarre è che il problema è complesso e intreccia fattori culturali, tratti strutturali dell'economia italiana e mancanze della pubblica amministrazione. Con l'aiuto di Vincenzo Galasso, docente di Economia politica all'università Bocconi di Milano e Annalisa Tonarelli, ricercatrice di Scienze della politica e sociologia dell'Università di Firenze, Lettera43.it ha stilato l'elenco di alcune pratiche anti-bamboccioni diffuse nei Paesi Ue.

1. Il sistema duale dall'Olanda alla Norvegia

L'idea potrebbe più semplice potrebbe rivelarsi efficace: prendere come esempio i Paesi vicini.
In Svezia il 70% dei ragazzi dai 15 ai 18 anni dedica l'estate ai cosidetti summer jobs, che vanno dallo smistare lettere all'ufficio postale a lavorare in serre e aziende agricole.
Ma non succede solo nel Paese scandinavo. Anche in Austria, Olanda e Svizzera i giovani sono abituati a lavorare e studiare insieme. E durante tutto l'anno, alle scuole superiori come all'università.
Lo chiamano sistema duale ed è un modello diffuso nell'Ue a 27: il sistema formativo deve necessariamente conciliarsi con l'attività lavorativa. Mentre in Italia l'università è stata trasformata in un grande liceo, e ogni traccia dei percorsi per gli studenti lavoratori è stata cancellata, in altri Paesi sono le stesse istituzioni a prevedere che gli studenti abbiano il tempo per lavorare.
Nella confederazione elvetica, il sistema è rodato e i ragazzi si possono trovare anche allo sportello di una banca e i programmi sono progettati anche in funzione dei tirocini e dello sbocco nelle imprese.
In Norvegia l'università sospende per alcuni mesi l'attività per lasciare agli studenti la possibilità di lavorare.

2. Un anno all'estero prima dell'università come in Svezia

In Italia lo stimolo trasmesso negli ultimi anni da famiglie e istituzioni è uno: laurearsi il prima possibile, poi il lavoro arriverà.
Ragionamento lineare, in teoria. Peccato che spesso si traduca nella scelta dell'ateneo vicino casa per rimanere attaccati a mamma e papà. E se poi il percorso intrapreso si dovesse rivelare sbagliato?
Dalla metà degli Anni 90, in Svezia hanno un buon antidoto. Che aiuta a prendere scelte più chiare e aumenta l'autonomia.
Dopo le scuole superiori sempre più ragazzi partono per un anno all'estero: per imparare una lingua, lavorare e mettere via qualche soldo. L'effetto si vede, assicurano i giovani svedesi, soprattutto sul curriculum: per il datore di lavoro l'anno all'estero diventa «un segno di indipendenza, apertura mentale e di maturità».

3. Un taglio al cordone ombelicale come in Germania

In Norvegia circola uno spot pubblicitario, poi censurato, in cui un giovane italiano è vigilato, accudito e totalmente dipendente dall'inseparabile mamma, determinata a coccolarselo e a tenerselo in casa fino ai 40 anni.
Uno stereotipo, ma neanche tanto. Alimentato da una cultura familista, da un mercato almeno nella grandi città proibitivo (lo spot era appunto di una società immobiliare) e dall'assenza di contributi per accompagnare i giovani all'autonomia.
A 18 anni i ragazzi tedeschi sono soliti andarsene di casa, anche se rimangono nella stessa città dei genitori. Se hanno un basso reddito possono ottenere agevolazioni fino a 150 euro al mese. E se in Svezia tutti hanno diritto a cospicue borse di studio e non c'è da stupirsi se i cittadini propongono di trasformare in studentato persino la residenza di campagna della famiglia reale, anche la Francia ha qualcosa da insegnare.
IL CAF FRANCESE. I cugini d'Oltralpe, infatti, possono contare sul parziale rimborso dell'affitto da parte dello Stato. E il contributo è destinato a studenti e anche alle giovani coppie.
Per accedere alla Caisse d'allocation familiale (Caf) basta avere un conto in banca e recarsi all'ufficio di competenza. Il rimborso, tra i 100 e i 200 euro, arriva puntuale ogni mese. In Italia invece piuttosto che dare contributi per gli affitti, è stata autorizzata la nascita di atenei in moltissime città.
«Dicevano che fosse un aiuto ai ragazzi: non avrebbero dovuto pagare esosi affitti», ricorda Galasso. Invece è stato un affare per tutti, tranne che per i giovani: «Si sono illusi che qualsiasi ateneo avrebbe offerto loro il lavoro cui miravano, invece si è abbassata la qualità universitaria e i primi a farne le spese sono i giovani».

4. Salario di ingresso e servizi di orientamento come in Francia

Per Fornero i giovani devono essere meno schizzinosi. Una considerazione genericamente di buon senso. Un azzardo però se arriva alle orecchie di chi si ritrova a lavorare in un call center, senza sfruttare gli anni passati sui libri.
Per evitare che succeda, la Francia ha introdotto già dal 1988 il salario minimo: revenu minimum d'insertion (Rmi), trasformato nel 2009 in revenu de solidarité active (Rsa).
Lo scopo è dare la possibilità di cercare un impiego senza partire da una condizione di bisogno. Il sistema è stato più volte messo sotto accusa e negli anni ci sono stati dei correttivi per incentivare l'occupazione, ma di certo i ragazzi non sono lasciati soli.
Una pratica utile anche per lo Stato, se non è altro perché si è fatto carico delle spese della loro formazione. E dovrebbe proteggere l'investimento.
«Più passa il tempo tra la prima assunzione, più cresce il rischio che le competenze si disperdano», fa notare Tonarelli, «la Francia ha messo in campo una strategia in due fattori: salario minimo e accompagnamento all'ingresso nel lavoro. Certo per applicarla in Italia dovrebbe esserci meno opportunismo, dall'una e dall'altra parte».

5. Diminuire il gap tra contratti determinati e indeterminati come in Svizzera

Gli esperti sono concordi nel dire che per arginare la precarietà e incentivare la stabilizzazione dell'occupazione giovanile bisognerebbe diminuire il divario tra i costi per i contratti flessibili e quelli a tempo indeterminato.
Gli esempi europei non mancano. In Svizzera la precarietà è disincentivata dal costo dei licenziamenti. I datori di lavoro devono pagare sussidi cospicui.
In un Paese come l'Italia con un elevato costo del lavoro il sistema andrebbe completamente ripensato. «I datori di lavoro e la comunità già pagano gli squilibri di un'assistenza pensionistica deformata a favore dei baby pensionati e di un'altra generazione», ricorda Galasso.
Ma, almeno per questo, i giovani choosy sono innocenti.

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