giovedì 11 aprile 2013

Luxottica: le banche ci aiutino a creare lavoro, non finanza


Luxottica: le banche ci aiutino a creare lavoro, non finanza


Le banche? «Hanno perso la testa», gettandosi nella finanza: cercano soldi facili, trascurando il credito alle imprese, e così il paese va a picco. Parola di Leonardo Del Vecchio, l’ultimo grande imprenditore italiano, patron dell’impero Luxottica. Cominciò a 27 anni, in un capannone vicino a Belluno offertogli dalla Regione per far lavorare disoccupati provenienti dalle montagne. Oggi è presente in 132 paesi, ha oltre 75.000 dipendenti di cui 62.000 in Italia. Mai uno sciopero, né una protesta. «La discussione sull’articolo 18? Fuorviante: dei miei dipendenti nessuno rischia il licenziamento, se sei un vero imprenditore il tuo sogno non è licenziare, ma assumere». Del Vecchio produce lenti per occhiali e le vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia stradale della California, i celeberrimi “Chips”, e marchi come Christian Dior e Yves Saint Laurent. Di più: a comprare prodotti Luxottica è anche l’esercito cinese. Incredibile ma vero: Del Vecchio produce in Italia e vende in Cina.
«E’ il nostro fiore all’occhiello», rivela Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog, in un commento ripreso da “Informare per Resistere”. Luxottica «è forse Leonardo Del Vecchiol’unica grande azienda italiana, leader planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa, solida, in espansione». Unico titolo italiano positivo in Borsa nel 2012, più 32%. Fatturato: intorno ai 7 miliardi di euro, il 13% in più rispetto all’anno precedente. La storia di questa fabbrica, «nata nel 1961 ad Agordo dentro un garage», è oggi studiata come modello nei corsi di management di Harvard, esempio classico di “miracolo italiano” che coniuga impresa, creatività e rischio con una ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce dalla tradizione artigiana locale. Poco noto in Italia, il milanese Del Vecchio, classe 1935, è una specie di mito negli Usa, in Gran Bretagna e in Cina. Di famiglia poverissima, finì all’orfanotrofio ma riuscì a seguire i corsi serali dell’accademia di Brera e cominciò come semplice operaio. Oggi, mezzo secolo dopo, non ha cambiato idea: «Non investiamo neppure un euronella finanza, perché noi sappiamo come produrre e come inventare mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità, altrimenti questo lavoro non avrebbe senso».
Sempre lontano dalla politica, inutilmente corteggiato da destra e sinistra, si è confidato con Daniele Manca del “Corriere della Sera”: «Basta con i manager mitomani finanzieri». Un’intervista esplosiva, osserva Di Cori Modigliani, «volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che avrebbe meritato». Del Vecchio è sceso in campo andando all’attacco del cuore della finanza italiana, dopo essersi dimesso dal Cda delle Generali, di cui è stato grande azionista, così come di Unicredit. Un clamoroso atto d’accusa: «La mia è una protesta contro il management imprenditoriale di questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla del loro lavoro, sono semplici contabili mitomani». Il vero problema? «Quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia: fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione a picco. E’ ciò Chipsche stanno facendo gli imprenditori italiani, le banche e i colossi assicurativi, perché insistono nell’investire nella finanza: il rischio è alto ed estremo».
«Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare finanza». Ovvero: «Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio ben due miliardi di euro – come nel caso delle assicurazioni Generali – alleandosi con il finanziere ceco Kellner e ci si impegna con la Citylife in una percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato, com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di investimento greci». Miliardi di euro andati in fumo: «Erano soldi di imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare lavoro». E i manager responsabili di questi atti perdenti – aggiunge Del Vecchio – sono stati tutti promossi e saldati con stipendi multimilionari: «Non si va da nessuna parte, così». Mesi e mesi di dibattito sull’articolo 18, nella “crociata” guidata da Marchionne? Falso problema: «Ogni imprenditore – parlo di quelli veri – ha come sogno autentico quello di assumere, non di licenziare. Il paese si rialza assumendo, non licenziando. E la colpa è delle banche».
Del Vecchio attacca la gestione inconcludente degli istituti di credito, affidati a «personale e personalità poco affidabili». Racconta la parabola di Alessandro Profumo, una favola con un brutto finale. «Finché Unicredit e le Generali facevano le banche andava bene, poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa. Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni, fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa, con l’unico risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse decine di milioni di euro». Troppa disinvoltura: «Alle Generali l’amministratore delegato poteva disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che nessuno sa dove vanno a finire quei soldi». Al contrario, Luxottica – che ogni anno investe 700 milioni – consulta ogni azionista prima di spendere un solo milione di euro: «Pretendiamo che siAlessandro Profumodiscuta dell’investimento e si ascolti l’opinione di tutti, compreso il rappresentante sindacale dei lavoratori, perché l’azienda è anche loro».
Se troppi imprenditori si sono “finanziarizzati” le stesse banche italiane hanno smesso di fare il loro mestiere: finanziare l’economia. Il patron di Luxottica ricorda come, senza il Credito Italiano, nel 1981 non sarebbe mai riuscito a sbarcare negli Usa: «Dissi che volevo iniziare acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il cavallo di Troia, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il business plan, il programma, i rischi». Dieci giorni dopo, la convocazione: la banca accettò. «Mi presentai negli Usa e mi ridevano in faccia. Dissero la cifra. Tirai fuori il libretto degli assegni e firmai senza neppure chiedere lo sconto di un dollaro». Un anno dopo aveva restituito alla banca tutto il capitale, compresi gli interessi, aveva aperto quattro nuovi stabilimenti e assunto 4.500 persone. «Questo deve fare una banca: o in Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle chiacchiere e si affonda».

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