venerdì 30 marzo 2012

«I vini italiani ora al livello dei francesi»


«I vini italiani ora al livello dei francesi»

Il «senior editor» di Wine Spectator racconta l’amore
degli Usa per le migliori bottiglie della nostra produzione

A quando risale il salto di qualità dei cru italiani?«La nostra stima per i vini italiani non è una novità - ribatte Bruce Sanderson, senior editor e tasting director di Wine Spectator -. È ormai diverso tempo che i vostri vini gareggiano ex aequo con quelli francesi».
«Varia da regione a regione, anche se è negli anni 70 che abbiamo assistito a una rinascita in termini di qualità e obiettivi. Una rivoluzione iniziata in Toscana con i cosiddetti Super Tuscan che scelsero di andare contro le regole DOC e DOCG per creare il miglior vino possibile, dando via a massicce coltivazioni intensive di vitigni clonati. Di lì a poco Piemonte e Veneto hanno fatto lo stesso».
Eppure nella vostra top 100 ci sono solo due Chianti.
«Volevamo rappresentare la diversità dei vini italiani includendo tutte le 21 regioni italiane. Se ci fossimo basati solo sulla qualità, avremmo scelto molti più vini toscani, piemontesi e veneti».
Che criterio avete usato nel compilare la lista?
«Abbiamo riesaminato le pagelle delle cantine visitate in passato dai nostri critici, tenendo in considerazione l’importanza storica dei produttori in rapporto al loro contesto regionale. E abbiamo guardato alla tradizione, cioè alle cantine che operano da più tempo».
Avete consultato guide italiane come Slow Wine e Gambero Rosso?
«Consultiamo regolarmente le cinque maggiori guide italiane di vino ma alla fine cerchiamo di basarci sulla nostra esperienza personale. In un paio di casi, quando non avevamo assaggiato i vini di due aziende, siamo andati a vedere cosa dicevano in merito gli italiani».
L’approccio di Wine Spectator è diverso da quello delle guide italiane?
«Il nostro è un approccio democratico, guidato dalle degustazioni bendate e dalla necessità di spiegare ai nostri lettori vini facilmente reperibili in ristoranti e negozi americani. Ogni anno chiediamo agli importatori dei campioni "anonimi" delle nuove annate e introduciamo il punteggio nella nostra banca dati. Ciò ci costringe a focalizzarci sul contenuto del bicchiere, non sull’etichetta o sul prezzo».
Cosa pensa di Luce, vino realizzato dalla collaborazione tra l’italiano Frescobaldi e l’americano Mondavi?
«È l’ultima di una lunga serie di collaborazioni iniziate nel 1978 con Opus One, nato a Napa Valley dal sodalizio tra il Barone Philippe de Rothschild e Robert Mondavi. Da allora gli Usa hanno realizzato joint venture in Italia, Argentina e Cile. È sempre interessante per un produttore americano lavorare nel vecchio mondo e viceversa. Un’esperienza unica per entrambi che apre orizzonti impensabili».
Il palato europeo in materia di vini è diverso da quello americano?
«Molto diverso. Tre quarti dei vini consumati in Usa sono californiani, cioè fruttati, ricchi, con un tessuto morbido e tannini molto evoluti. I vini europei, al contrario, tendono ad avere un’acidità più elevata e ad essere un po’ più eleganti. Vini da abbinare al cibo, come ci ripetono spesso gli europei, che in alcuni casi invecchiano meglio».
È vero che la passione americana per vini ad alto tasso alcolico ha spinto anche il resto della produzione mondiale ad adeguarsi?
«Il trend non è stato inventato da noi critici americani ma dipende piuttosto da fenomeni quali l’effetto serra - che ha prodotto climi più caldi - e dai progressi tecnologici che hanno eliminato malattie e parassiti, creando vigneti più robusti e duraturi dalle uve più zuccherine».
Nel privato, quali sono i vini che preferisce?
«Sono cresciuto in Canada, bevendo vini europei, italiani francesi e spagnoli. Oggi amo l’eleganza e la morbidezza del Burgundy, l’acidità e la freschezza del Riesling e l’ecletticità dello Champagne. Tra gli italiani colleziono Nebbiolo, Barolo e Barbaresco».
Alessandra Farkas

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