giovedì 29 novembre 2012

Monti ma giri per le strade dell'italia??Povertà, la Milano da fame


Povertà, la Milano da fame

La storia di Giuseppe: dal 2011 è disoccupato. Non ha i soldi neppure per mangiare. E a 47 anni il lavoro è un miraggio.

In un Paese in crisi o si muore di lavoro o si rischia la povertà. E tra queste due possibilità Giuseppe (nome di fantasia), 47 anni, camionista, si è trovato a vivere la seconda.
Dall'11 novembre del 2011 è disoccupato. Vive a Milano, quartiere Corvetto (periferia a Sud Est), nella casa popolare dei genitori defunti e da tre mesi, quando la sera diventa buio, accende le candele. Per la seconda volta in un anno gli hanno staccato la luce perché non aveva i soldi per pagare le bollette.
ALLE MENSE PER MANGIARE. Nella capitale economica italiana, di fame non si muore grazie alle numerose mense e albanco alimentare qualcosa da mangiare si trova sempre. Ma senza uno stipendio la vita diventa sopravvivenza. Giuseppe sopravvive così da quando ha deciso di licenziarsi da un lavoro che non gli garantiva più alcun diritto.

«In mensa vicino al barbone e alla tossica, e mi sento anche fortunato»

Una scelta improvvida di questi tempi, ma che è stato costretto a fare perché, racconta a Lettera43.it, «gli orari di lavoro erano massacranti e il rischio era quello di morire o peggio ancora uccidere qualcuno».
Ogni notte dalle 2 di notte sino all'ora di pranzo del giorno successivo guidava il camion e faceva le consegne nei supermercati dell'hinterland milanese: «Chi fa il camionista può guidare massimo nove ore», dice, «se ti fermano per un controllo e risulta che sei al volante per più tempo sono guai, è illegale».
Ma la sua piccola azienda aveva cominciato a chiedergli di fare anche qualche consegna nel pomeriggio. «Quando era un impegno sporadico e finivo alle 17 andava bene», racconta. Ma le richieste di prolungare l'orario erano ormai quotidiane, «e in una piccola azienda se non accetti di fare quello che ti chiedono, il rapporto di lavoro diventa sempre più teso».
SI LICENZIA PER NON RISCHIARE LA VITA. Così dopo numerose discussioni e ritorsioni Giuseppe ha deciso di licenziarsi: «Avevo paura di addormentarmi alla guida e fare un danno irreparabile». Una decisione presa con la convinzione di trovare subito un altro lavoro, come era sempre capitato.
Ma non aveva fatto i conti con la crisi e soprattutto con il fatto che «ora assumono sempre più giovani stranieri disposti a stare alla guida anche 15 ore al giorno».
Così dopo aver bussato a tutte le porte, mandato curriculum e chiesto ai conoscenti, l'ansia e lo sconforto hanno iniziato ad assalirlo. «Mi sentivo impotente e avevo vergogna a chiedere aiuto».
I primi mesi, grazie ai risparmi e alla liquidazione, è riuscito a tirare avanti. Ma al sesto mese di disoccupazione la situazione è precipitata. «Mi sono trovato senza più soldi in tasca, non potevo pagare neanche le bollette».
Giuseppe ha rinunciato alla macchina, ha venduto il suo orologio più prezioso, il basso elettrico, la collezione di dischi. «Ho perfino portato al Compro oro i gioielli di mia mamma, le uniche cose che mi erano rimaste».
LA VERGOGNA DI PESARE SULLA FAMIGLIA. I parenti hanno provato a dargli una mano, ma la sua unica sorella fa le pulizie in una casa due volte a settimana, «e non ha molti soldi, mi poteva dare 50 euro, massimo 100, e quindi dopo poco ero punto e a capo».
Per non pesare troppo su di lei, Giuseppe si è rivolto all'assistente sociale, alla Caritas e dopo mesi di pasta e fagioli ha iniziato ad andare a mangiare alla mensa dei poveri in piazza Tricolore.
Ora ci va a pranzo e cena: «C'è il barbone, la tossica, ma anche la lavoratrice che magari non riesce ad affrontare tutte le spese e viene almeno a mangiare», racconta.
«Insomma siamo tutti in difficoltà. A volte mi guardo intorno e mi sento anche fortunato», dice Giuseppe che spera di trovare un lavoro il prima possibile, «e magari tra due anni pensare a questo momento così difficile della mia vita come a una brutta parentesi».

«Quando non hai soldi ti senti isolato dalla società, un rifiuto»

A far soffrire Giuseppe non è solo la povertà, ma la solitudine: «È stato un anno di inferno perché quando non hai soldi ti senti isolato dalla società, un rifiuto», racconta, «anziché produrre, chiedi. E questo ti fa sentire ai margini».
Quando vivi solo, al buio, senza televisione e telefono, con il frigo vuoto e niente in tasca, «anche gli amici diventano un miraggio, perché non puoi certo costringerli a fare la tua stessa vita», spiega l'uomo che negli ultimi mesi si è isolato completamente.
«Non puoi sempre farti offrire una birra, un cinema o una cena, alla fine ti senti a disagio e preferisci stare a casa da solo per non farti compiangere», dice, «l'amicizia non è solo avere e io per ora non ho niente da dare».
VIVERE CON IL MINIMO INDISPENSABILE. Il massimo che in questi mesi si è concesso è un kebab o una pizza. La domenica va a pranzo a casa di sua sorella che ogni tanto gli regala una bustina di tabacco. Giuseppe ha smesso di fumare, «perché mi vergogno anche di chiedere una sigaretta».
Quando esce cammina sempre a piedi o al massimo prende il tram, mai la metropolitana «perché dovrei sempre fare il biglietto e non ho i soldi, sugli altri mezzi pubblici invece rischio la multa».
Ogni tanto va al centro di ascolto Caritas della parrocchia San Luigi dove i volontari gli danno una mano a sopravvivere e cercare un lavoro. Ma a 47 anni ricollocarsi è difficile: «All'Atm non assumono autisti che hanno più di 42 anni», dice, «ho provato come magazziniere, ma molte aziende alla fine assumono persone che conoscono e di cui si fidano».
CONDIZIONI DI LAVORO DISUMANE. Pochi giorni fa ha fatto un colloquio in un'azienda di trasporti rumena, «la signora, moglie del proprietario, per farmi capire come lavoravano mi ha fatto l'esempio di un autista che è partito a mezzanotte da Milano, è andato a Napoli, ha fatto tutte le consegne e alle 20 dell'indomani era di nuovo qui», racconta Giuseppe sempre più sconfortato.
Quando nel 2011 si licenziò, pensava solo di dover rivendicare un diritto fondamentale, quello alla vita. Oggi, dopo un anno di disoccupazione e di stenti non è più così sicuro: «Se l'azienda rumena mi richiama accetterò quel lavoro, non posso morire di fame, magari morirò sul camion e insieme con me qualche sfortunato che si troverà sulla mia strada».

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