lunedì 15 ottobre 2012

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Veltroni lascia. Ma gli altri?




La ruota gira, ripete Pier Luigi Bersani, per dire che la bandiera del rinnovamento del Pd, quando sarà il momento, la impugnerà anche lui. Notizia accolta dai notabili con una comprensibile ondata di panico. Anche perché, conclusa l'assemblea del Pd dell'ultimo fine settimana, il segretario in corsa per vincere le primarie contro Matteo Renzi ha dimostrato di voler accelerare sul ricambio dei dirigenti, i capi storici che da decenni guidano il più grande partito della sinistra nelle sue varie svolte, dal Pci al Pd. «Li accompagneremo alla porta, con il massimo degli onori», si fa scappare un bersaniano. E già si fa l'elenco dei sommersi e i salvati.   

GUARDA QUELLI CHE NON MOLLANO

Massimo D'Alema, 63 anni, alla Camera dal 1987, con una breve sosta al Parlamento europeo tra il 2004 e il 2006. Walter Veltroni, 57 anni, entrato a Montecitorio con il suo compagno-rivale (con l'intermezzo di sette anni da sindaco di Roma). Livia Turco e Anna Finocchiaro, le veterane, un quarto di secolo a testa in Parlamento, la prima ha già annunciato che alla fine della legislatura lascerà il seggio, la seconda non ci pensa neppure (Anna dei miracoli farà un altro prodigio?). Anna Serafini, non la signora Thatcher, la signora Fassino, riconfermata da un ventennio... «L'assetto familista», come lo definisce Antonio Funiciello nel suo "A Vita": «Se tutti gli altri sono partiti personali, il Pd è un partito familiare. Se i partiti di Berlusconi, di Di Pietro, di Vendola o di Grillo assomigliano al dominio di Crono, unico dio che fagocita i figli, il Pd sembra il monte Olimpo, la sede di una famiglia di dei che, tra continui litigi e riappacificazioni, governa indisturbata il suo piccolo mondo». 

La caduta degli dei. La vivono così i capi del Pd a rischio pensionamento. Non solo quelli provenienti dalla storia del Pci. Bastava vedere all'assemblea del partito la grinta con cui il vecchio lupo marsicano Franco Marini, ottant'anni tra qualche mese, leader della Cisl negli anni Ottanta e poi ministro, segretario del Ppi, presidente del Senato, ha strapazzato il giovane Renzi e ha affrontato Bersani con parole che suonavano, più o meno: con questa storia delle primarie rischi il suicidio. Oppure la riluttanza di Rosy Bindi dal palco della presidenza: «Caro Pier Luigi, saremmo in tanti a voler parlare contro questa la decisione di fare le primarie...». Il segretario, però, non ci sente. Sa che per vincere è obbligato strappare lo slogan della rottamazione al sindaco di Firenze. Anche a costo di dare qualche dispiacere alla sua generazione. 

Veltroni non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Un anno fa, quando si ritirò il premier spagnolo José Luis Zapatero, più giovane di lui di cinque anni, rispose in pubblico di non sentirsi toccato dall'esempio. E qualche settimana fa ha estratto gli artigli per rintuzzare gli attacchi di Renzi: «Devi avere rispetto per chi ha lavorato per anni per il centrosinistra». Ma guarda con attenzione, come sempre, le mosse del dioscuro post-Pci, D'Alema, il vero bersaglio della rottamazione agitata dal sindaco di Firenze: in tutte le piazze italiane Renzi mostra il video dell'ex premier che in tv da Lilli Gruber avvisa che in caso di vittoria dello sfidante di Bersani il centrosinistra uscirà distrutto. «No, l'unica cosa che succederà sarà che lui non sarà ricandidato», corregge Renzi, scatenando immancabilmente l'applauso più forte.
Il guaio è che hanno ragione tutti e due.

Perché è vero che D'Alema appare intenzionato a lasciare il seggio parlamentare. Ed è vero che l'eventuale trionfo di Renzi aprirebbe scenari devastanti per il Pd. Già alcuni mesi fa D'Alema aveva fatto sapere a Bersani che non si sarebbe ricandidato alla Camera. Un beau geste unilaterale, tipico di un uomo che almeno quanto Renzi ama dare di sé un'immagine coraggiosa, vedi le dimissioni da Palazzo Chigi nel 2000 dopo la sconfitta alle elezioni regionali o la scelta di candidarsi nel 2001 nel collegio di Gallipoli, considerato di destra, senza ripescaggi. Così il leader Massimo aveva deciso il passo indietro, per dare una lezione agli altri notabili. E per preparare le future tappe della sua carriera: un incarico in Europa, dove può contare sull'appoggio dei partiti socialisti costruito da ultimo con la presidenza della Feps, la federazione delle fondazioni progressiste. Oppure un incarico in un governo di centrosinistra, il ritorno sull'amata poltrona di ministro degli Esteri. Con un occhio alla corsa per il Quirinale, dove un ben calcolato segno di distacco dalla politica attiva vale più di mille campagne elettorali.

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